Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Sentenza 02 febbraio 2015, n.1790

La contrarietà alla filiazione costituisce un elemento della
sfera intima e strettamente personale del soggetto, privo di indici
esteriori di riconoscibilità. Ne consegue che la conoscenza di
tale opzione personale può solo desumersi dalle dichiarazioni
dirette della parte o di un terzo che dalla parte l'abbia appreso
e lo riferisca al destinatario. In quest'ultima ipotesi è
necessaria una specificazione puntuale del contesto spazio – temporale
nel quale la circostanza è riferita. Il numero e la
qualità delle persone a conoscenza della circostanza, peraltro
appartenenti alla sfera relazionale del soggetto che ha assunto il
vincolo coniugale con tale riserva mentale costituiscono elementi del
tutto inidonei a fondare la presunzione di conoscibilità in
capo all'altro coniuge. E' necessario, pertanto, che venga
indicato come dal complessivo materiale istruttorio possa affermarsi
che sia pervenuta nella sfera di conoscenza dell'altro coniuge
l'esclusione del bonum prolis. (Nel caso di specie si è
ritenuto che la congiunzione causale o più esattamente il nesso
di univocità tra il fatto noto tra amici e parenti e
l'apprensione di esso da parte dell'altro coniuge fosse stata
meramente affermata dalla sentenza impugnata, senza alcun sostegno
argomentativo).

Sentenza 08 maggio 2009, n.140

La convivenza more uxorio non può essere assimilata al vincolo
coniugale per desumerne l’esigenza costituzionale di una parità di
trattamento. Infatti, mentre il matrimonio forma oggetto della
specifica previsione contenuta nell’art. 29 Cost., che lo riconosce
elemento fondante della famiglia come società naturale, il rapporto
di convivenza assume anch’esso rilevanza costituzionale, ma
nell’ambito della protezione dei diritti inviolabili dell’uomo nelle
formazioni sociali garantita dall’art. 2 della Costituzione. Tali
diversità, senza escludere la riconosciuta rilevanza giuridica della
convivenza di fatto, valgono pertanto a giustificare che la legge
possa riservare all’una e all’altra situazione un trattamento non
omogeneo (nel caso di specie, la Suprema Corte ha dichiarato non
fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 384,
primo comma, del codice penale, sollevata, in riferimento agli
articoli 2, 3 e 29 della Costituzione).

Sentenza 27 marzo 2009, n.86

Ai sensi dell’art. 85 del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 (Testo unico
delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli
infortuni sul lavoro e le malattie professionali), mentre la morte del
coniuge per infortunio comporta, in presenza di figli legittimi,
l’attribuzione della rendita al superstite nella misura del cinquanta
per cento ed a ciascuno dei figli nella misura del venti per cento, la
morte per infortunio di colui che non è coniugato ed ha figli
naturali riconosciuti non comporta l’attribuzione di alcuna rendita
per infortunio al genitore superstite, spettando invece ai figli il
venti per cento. E’ vero dunque che i figli, legittimi o naturali
riconosciuti, godono – in caso di infortunio mortale del loro
genitore – della rendita infortunistica nella stessa misura, ma
sussisite tuttavia una disparità di trattamento derivante dal fatto
che solo i figli legittimi, e non anche quelli naturali, possono
godere di quel plus di assistenza che deriva dall’attribuzione al
genitore superstite del cinquanta per cento della rendita. Infatti il
minore, pur trovandosi, ai fini della determinazione della misura
della rendita infortunistica, in una condizione analoga a quella di
chi ha perso entrambi i genitori – non essendo destinatario di alcun
beneficio economico, neppure indiretto, a tali fini, per la
sopravvivenza dell’altro genitore, cui non spetta, in quanto non
coniugato, alcuna rendita – ha diritto solo al venti per cento di
essa, e non anche al quaranta per cento spettante agli orfani di
entrambi i genitori. Pertanto, deve ritenersi costituzionalmente
illegittimo l’art. 85, primo comma, numero 2), del d.P.R. n. 1124 del
1965, nella parte in cui, nel disporre che, nel caso di infortunio
mortale dell’assicurato, agli orfani di entrambi i genitori spetta il
quaranta per cento della rendita, esclude che essa spetti nella stessa
misura anche all’orfano di un solo genitore naturale.

Sentenza 15 maggio 2008, n.937

Una volta che si sia formato il giudicato divorzile, la relativa
statuizione sì rende intangibile, ai sensi dell’art. 2909 c.c., anche
nel caso in cui successivamente ad essa sopravvenga la delibazione di
una sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio (Sez.I,
23/03/2001, n.4202). Può però accadere che la pronuncia
ecclesiastica divenga esecutiva quando già è stato dichiarato il
divorzio dal giudice civile, ma sono ancora pendenti le decisioni
relative ai figli ed alle questioni economiche tra le parti, compreso
l’assegno divorzile. In questo caso, resta intangibile la pronuncia di
divorzio già emessa, vanno decise le questioni relative
all’affidamento dei figli e le questioni economiche conseguenti, ma
cessa la materia del contendere in relazione all’assegno divorzile.

Sentenza 03 novembre 2006, n.1785

La nullità del matrimonio, pronunziata in applicazione del punto n. 3
del canone 1095, si riferisce ad ipotesi in cui il soggetto, pur
volendo il matrimonio ed essendo in grado di sufficientemente
comprenderne gli obblighi essenziali, non è, tuttavia, in grado di
adempierli. In tali ipotesi, è’ irrilevante la mancata opposizione
del coniuge, innanzi al Tribunale ecclesiastico, alla pronunzia di
nullità, ai fini del diritto al risarcimento del danno (Nel caso di
specie, la nullità del matrimonio era stata dichiarata dal giudice
ecclesiastico per la accertata “incapacità” e/o “impossibilità” di
“assumere gli obblighi essenziali del matrimonio”, da parte di
soggetto tossicodipendente).

Ordinanza 23 novembre 2007, n.397

E’ manifestamente inammissibile la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 19, comma 2, lettera d), del decreto
legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni
concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione
dello straniero), «nella parte in cui non estende al padre naturale,
cittadino extracomunitario, il beneficio della sospensione del
provvedimento di espulsione in ipotesi di convivente in stato di
gravidanza ovvero in presenza di prole dall’età infrasemestrale»,
in riferimento agli artt. 2, 3, 29, 30 e 31 della Costituzione (nel
caso di specie, il rimettente ometteva di specificare la cittadinanza
del soggetto ricorrente nel giudizio a quo; elemento quest’ultimo
determinante ai fini dell’individuazione del regime giuridico
applicabile nel caso concreto, atteso che il d.lgs. n. 286 del 1998
− come esplicitamente stabilisce l’art. 1 − si applica solo «ai
cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea»; la
questione è stata ritenuta dunque manifestamente inammissibile per
mancata indicazione di un elemento essenziale della fattispecie).