Nel nostro ordinamento il delitto di sottrazione di persona incapace,
di cui all’art. 574 c.p., è configurabile anche da parte di un
genitore nei confronti dell’altro, dal momento che entrambi sono
contitolari dei poteri-doveri disciplinati dall’art. 316 c.c.. In
particolare, tale norma punisce, con la stessa pena edittale, tanto la
“sottrazione” del minore degli anni quattordici alla potestà dei
genitori, quanto una “specie” della sottrazione stessa e cioè la
“ritenzione” del minore contro la volontà dei genitori, che si
realizza con il ritenere indebitamente il minore che si trova nella
disponibilità dell’agente per una causa lecita. Alla luce di queste
premesse normative, la condotta di un genitore che faccia ritorno in
Italia, lasciando la figlia minore nel proprio paese di origine, al
fine di educarla secondo i principi dell’Islam, impone al giudice di
merito di soffermarsi sui profili soggettivi di tale condotta, per
comprendere se questa scelta possa essere considerata espressione di
un progetto di globale “sottrazione” della minore alla cura ed alla
vigilanza dell’altro genitore. Questa sorta di unilaterale
“appropriazione” della figlia, appare infatti culturalmente
inconcepibile, oltre che penalmente illecita, nel quadro del nostro
ordinamento che ai genitori assegna un potere-dovere di cura
complessiva dei propri figli e non una unilaterale ed illimitata
disponibilità del loro destino. Tale appropriazione, infatti, risulta
lesiva tanto dei diritti della madre (che non può vedere annullato il
suo naturale rapporto affettivo con la propria figlia e, come
contitolare della potestà, non può essere esclusa dalle decisioni
che la riguardano), quanto del diritto della figlia minore a vivere
secondo indicazioni e determinazioni elaborate di comune accordo da
“entrambi” i genitori, secondo il dettato e con le garanzie di scelte
equilibrate previste, in caso di contrasti tra i genitori, dall’art.
316 c.c..