La pratica terapeutica si pone all’incrocio fra due diritti
fondamentali della persona malata: quello ad essere curato
efficacemente, secondo i canoni della scienza e dell’arte medica, e
quello ad essere rispettato come persona, nella propria integrità
fisica e psichica; in particolare, tale diritto – secondo quanto
previsto dall’art. 32, comma 2, secondo periodo, Cost. – si pone
come limite invalicabile anche ai trattamenti sanitari che possono
essere imposti per legge – come obbligatori – a tutela della salute
pubblica. Inoltre, salvo che entrino in gioco altri diritti o doveri
costituzionali, non è – di norma – il legislatore a poter stabilire
direttamente quali siano i trattamenti terapeutici ammessi, con quali
limiti e a quali condizioni, posto che la pratica dell’arte medica
si fonda su acquisizioni scientifiche e sperimentali, che sono in
continua evoluzione; la regola di fondo in questa materia é pertanto
costituita dalla autonomia e dalla responsabilità del medico che –
sempre con il consenso del paziente – opera le scelte professionali
basandosi sullo stato delle conoscenze a disposizione. Ciò non
significa che al legislatore sia senz’altro preclusa ogni
possibilità di intervento; tuttavia, un eventuale provvedimento,
concernente il merito delle scelte terapeutiche, in relazione alla
loro appropriatezza, non può nascere da valutazioni di pura
discrezionalità politica dello stesso legislatore, ma deve bensì
originarsi dall’elaborazione di indirizzi fondati sulla verifica
dello stato delle conoscenze scientifiche e delle evidenze
sperimentali, acquisite tramite istituzioni e organismi, di norma
nazionali o sovranazionali, a ciò deputati. (Nel caso di specie,
l’intervento regionale contestato dal Governo non si fondava su
specifiche acquisizioni tecnico-scientifiche, verificate da parte
degli organismi competenti, ma si presentava come una scelta
legislativa autonoma, avente scopo cautelativo in attesa di futuri
accertamenti compiuti dall’autorità sanitaria nazionale).