Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Risoluzione 05 luglio 2016

Parlamento europeo. Risoluzione 5 luglio 2016: "Rifugiati: inclusione sociale e integrazione nel mercato del lavoro". [fonte: www.europarl.europa.eu] Il Parlamento europeo, – vista la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, – visto l'articolo 78 del trattato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE), – vista la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, […]

Risoluzione 30 aprile 2015

Risoluzione del Parlamento europeo del 30 aprile 2015 sulla persecuzione dei cristiani nel mondo, in relazione all'uccisione di studenti in Kenya per mano del gruppo terroristico alShabaab. [fonte: www.europarl.europa.eu] Il Parlamento europeo, – viste le sue precedenti risoluzioni sul Kenya, – visto il secondo accordo di partenariato rivisto stipulato tra i membri del gruppo degli Stati dell'Africa, […]

Risoluzione 10 ottobre 2013

Risoluzione del Parlamento europeo del 10 ottobre 2013 sui recenti casi di violenze e persecuzioni contro cristiani, in particolare a Maalula (Siria) e Peshawar (Pakistan), nonché sul caso del pastore Saeed Abedini (Iran), 10 ottobre 2013. [fonte: http://www.europarl.europa.eu] Il Parlamento europeo , – viste le sue risoluzioni del 15 novembre 2007 su gravi episodi che […]

Risoluzione 22 ottobre 2013

Risoluzione del Parlamento europeo del 22 ottobre 2013 sulla situazione dei diritti umani nella regione del Sahel, 22 ottobre 2013. [fonte: http://www.europarl.europa.eu] Il Parlamento europeo, – visti le convenzioni e i trattati principali delle Nazioni Unite e africani in materia di diritti umani, tra cui la Carta africana dei diritti dell'uomo e dei popoli, – […]

Décision 17 maggio 2013, n.2013-669

_Par sa décision n° 2013-669 DC du 17 mai 2013, le Conseil
constitutionnel s’est prononcé sur la loi ouvrant le mariage aux
couples de personnes de même sexe. D’une part, il a jugé la loi
ouvrant le mariage aux personnes de même sexe conforme à la
Constitution. D’autre part le Conseil a formulé une réserve
relative à l’agrément en vue de l’adoption de l’enfant et
relevé que les règles du code civil mettent en oeuvre cette exigence
pour le jugement d’adoption. Il a jugé que ce choix du législateur
n’était contraire à aucun principe constitutionnel. En
particulier, il a jugé que même si la législation républicaine
antérieure à 1946 et les lois postérieures ont, jusqu’à la loi
déférée, regardé le mariage comme l’union d’un homme et
d’une femme, cette règle n’intéresse ni les droits et libertés
fondamentaux, ni la souveraineté nationale, ni l’organisation des
pouvoirs publics._ _La loi a pour conséquence de permettre
l’adoption par des couples de personnes de même sexe ainsi que
l’adoption au sein de tels couples. Le Conseil a jugé que la loi
contestée n’a ni pour objet, ni pour effet de reconnaître aux
couples de personnes de même sexe un « droit à l’enfant ».
D’autre part, il a jugé que le dixième alinéa du Préambule de la
Constitution de 1946 implique le respect de l’exigence de
conformité de l’adoption à l’intérêt de l’enfant. Le Conseil
a vérifié le respect de cette exigence par les dispositions
applicables tant aux couples de personnes de même sexe qu’à ceux
formés d’un homme et d’une femme. Par ailleurs la loi déférée
ne déroge pas à l’article 353 du code civil qui impose au tribunal
de grande instance de ne prononcer l’adoption que si elle est
conforme à l’intérêt de l’enfant. Cette disposition met en
œuvre l’exigence constitutionnelle selon laquelle l’adoption ne
peut être prononcée que si elle est conforme à l’intérêt de
l’enfant._ _Le Conseil a également estimé que l’ouverture de
l’adoption aux couples de personnes de même sexe et au sein de tels
couples n’avait par pour effet de rendre inintelligibles les autres
dispositions du code civil, notamment celles relatives à la
filiation. Le Conseil a écarté les griefs formulés par les
requérants dirigés contre les dispositions de la loi relatives au
nom de famille, au code du travail, au recours aux ordonnances, à la
validation des mariages antérieurs à la loi et à l’application de
la loi outre-mer. Ces diverses dispositions sont conformes à la
Constitution _[www.conseil-constitutionnel.fr: communiqué de presse].

Sentenza 12 febbraio 2013, n.29617/07

_L’affaire concerne la suppression totale du droit de visite
accordé à un père au motif que ses convictions religieuses étaient
préjudiciables à l’éducation de son fils. La Cour juge que les
tribunaux hongrois n’ont pas prouvé qu’il était dans
l’intérêt supérieur de l’enfant de voir supprimer tous ses
liens avec son père, lequel a dès lors subi une discrimination dans
l’exercice de son droit au respect de sa vie familiale._

Sentenza 27 febbraio 2013, n.2013 SCC 11

Con questa sentenza la Corte Suprema del Canada ha dichiarato la
parziale illegittimità dell’art. 14, c. 1, lett. (b) del
_Saskatchewan Human Rights Code_, nella parte in cui vieta(va) ogni
manifestazione pubblica del pensiero «_that ridicues, belittles or
otherwise affront the dignity_» di persone o gruppi di persone, con
una motivazione proibita dalla legge. È stato, infatti, ritenuto che
simili manifestazioni del pensiero non siano idonee a suscitare nel
pubblico un livello di odio verso il _protected group_ tale da
giustificare una restrizione delle libertà di espressione e di
religione tutelate dalla Carta canadese dei diritti e delle libertà.
Il Supremo Consesso ha, invece, ritenuto legittima e conforme alla
Carta la residua disposizione della citata norma del _Saskatchewan
Human Rights Code_, laddove proibisce le manifestazioni pubbliche del
pensiero «_that expose[s] and tends to expose to hatred_» persone o
gruppi di persone, sulla base di una caratteristica protetta. Pur
riconoscendo che ciò costituisce una compressione delle libertà di
espressione e di religione, la Corte canadese ha considerato tale
limitazione ragionevole e manifestamente giustificata in una società
libera e democratica, poiché lo scopo della norma è quello di
evitare espressioni pubbliche idonee a determinare successive condotte
discriminatorie o violente nei confronti del _targeted group_, non
quello di prevenire le offese ai sentimenti delle persone. La sentenza
ha, inoltre, ritenuto che l’_hate speech_ rivolto al comportamento
sessuale debba considerarsi riferito anche all’orientamento sessuale
(che è uno dei motivi di discriminazione vietati), atteso che in tal
caso il comportamento concorre in maniera fondamentale ed inseparabile
ad identificare l’orientamento sessuale. Nel caso di specie era
contestata la violazione della richiamata previsione del _Saskatchewan
Human Rights Code_ in relazione a quattro volantini distribuiti da un
attivista anti-omosessuale cristiano che nel testo di essi aveva, tra
l’altro, citato alcuni versetti biblici. In applicazione dei
principi indicati, la Corte nel merito ha concluso per la liceità di
due dei volantini, ritenendo invece che gli altri due integrassero un
_hate speech_, in parziale riforma della sentenza appellata che, pur
considerando legittima la normativa del Saskatchewan, aveva
considerato leciti tutti quattro i volantini.

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(La Redazione di OLIR.it ringrazia per la segnalazione del documento
e la stesura del relativo abstract  Mattia F. Ferrero, Università
Cattolica del Sacro Cuore di Milano)

Sentenza 19 marzo 2013, n.536

Nel settore privato, e in particolare in ambienti che non offrono un
servizio pubblico (un asilo privato, nel caso di specie) il principio
di laicità non può essere invocato per giustificare una restrizione
dei diritti fondamentali dei lavoratori, garantiti dal Code du
Travail. In base alle norme del Codice, è possibile stabilire alcune
limitazioni ai diritti dei lavoratori dipendenti, e quindi anche al
diritto di libertà religiosa, quando necessario per la natura e il
contesto del lavoro e per una finalità legittima. Nel caso dell’asilo
privato “Baby Loup”, il regolamento interno vietava di indossare
simboli e capi d’abbigliamento religiosi, ma tale clausola generale
risulta essere illegittima perché non giustificata dal lavoro svolto
dalla ricorrente. In particolare, il principio di laicità – che
giustifica il divieto di portare il velo islamico o altri simboli
religiosi – impone la neutralità a chi svolge un servizio pubblico ma
non a chi lavora in uno stabilimento privato con mansioni diverse dal
servizio pubblico (v. in questo senso anche la sentenza, emessa lo
stesso giorno, Mme X. c. Caisse primaire d’assurance maladie de
Seine-Saint-Denis
[https://www.olir.it/documenti/index.php?documento=6076]). Il
licenziamento della ricorrente, che aveva rifiutato di togliere il
velo, è perciò discriminatorio sulla base della religione e
illegittimo (Stella Coglievina).