Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Sentenza 13 ottobre 2015, n.41044

L'art. 403 cod. pen. sanziona chiunque offenda una confessione
religiosa mediante vilipendio di chi la professa o di un ministro del
culto. Al riguardo, la Corte costituzionale ha affermato
come «il vilipendio di una religione, tanto più se
posto in essere attraverso il vilipendio di coloro che la professano o
di un ministro del culto rispettivo, …, legittimamente può
limitare l'ambito di operatività dell'art. 21: sempre
che, beninteso, la figura della condotta vilipendiosa sia circoscritta
entro i giusti confini, segnati, per un verso, dallo stesso
significato etimologico della parola (che vuoi dire “tenere a
vile” e quindi additare al pubblico disprezzo o dileggio), e per
altro verso, dalla esigenza di rendere compatibile la tutela penale
accordata al bene protetto dalla norma in questione con la più
ampia libertà di manifestazione del proprio pensiero in materia
religiosa, con specifico riferimento alla quale non a caso l'art.
19 anticipa, in termini quanto mai espliciti, il più generale
principio dell'art. 21» (sentenza n. 188 del 1975). Sono
pertanto vilipendio, e dunque esclusi dalla garanzia dell'art. 21,
la contumelia, lo scherno, l'offesa fine a se stessa che
costituiscono oltraggio ai valori etici di cui si sostanza ed alimenta
il fenomeno religioso. (Nel caso di specie, la Corte adita ha pertanto
rigettato il ricorso, ritenendo violato il limite dovuto al rispetto
della devozione altrui, ingiustamente messo a repentaglio da una
manifestazione che, lungi dall'essere meramente critica di costumi
sessuali non consentiti a ministri di culto, è apparsa
costituire appunto una mera contumelia, scherno ed offesa fine a se
stessa).

Sentenza 07 gennaio 2011

Rientra nel legittimo esercizio del diritto di critica
l’espressione da parte dell’autore di uno scritto di opinioni e
giudizi anche in termini graffianti con un linguaggio colorito e
pungente, purché vi sia pertinenza della critica, cioè essa avvenga
nell’interesse dell’opinione pubblica alla conoscenza non del fatto
oggetto di critica, ma dell’interpretazione di quel fatto. Nel caso in
esame, stante l’indiscutibile rilevanza sociale dell’argomento
trattato nel libro oggetto di causa (l’indagine, attraverso la
narrazione della vita personale dell’autore, dei complessi rapporti
tra mondo occidentale e mondo islamico), la notorietà in Italia
dell’autore del libro, nonché il progressivo aumento della presenza
di persone di fede islamica nel territorio italiano, è palese
l’esistenza di un concreto interesse dell’opinione pubblica ad avere
elementi di conoscenza e giudizio su tali argomenti. Né, in tale
fattispecie, può ritenersi travalicato il limite della continenza,
tenuto conto dei contenuti espressivi con i quali la critica è stata
esercitata e del rispetto del parametro della proporzione tra le
modalità di esposizione dei giudizi e la rilevanza sociale dei temi
trattati nel libro.
 

Sentenza 22 maggio 2007, n.100

Il diritto di critica giornalistica e il diritto di cronaca possono
essere esercitati anche quando ne derivi una lesione all’altrui
reputazione, purché vengano rispettati determinati limiti,
individuati dalla giurisprudenza a) nella verità della notizia
pubblicata; b) nell’utilità sociale dell’informazione in relazione
all’attualità e rilevanza dei fatti narrati (c.d. pertinenza) e c)
nell’esigenza che l’informazione sia mantenuta nei limiti della
obiettività o serenità e in una forma espositiva corretta (c.d.
continenza), in modo che siano evitate gratuite aggressioni all’altrui
reputazione. Ciò rilavato, l’agente può in particolare invocare
l’esimente del diritto di cronaca, sotto il profilo putativo, solo se
abbia provato di avere riscontrato, con ogni possibile cura, la
verità dei fatti che si accingeva a narrare, al fine di vincere ogni
dubbio o incertezza intorno a essi, e ciò nonostante sia incorso
nell’errore di ritenere che tali fatti fossero veri. Nessuna efficacia
scriminante può invece riconoscersi all’errore in cui il soggetto
incorra per non aver riscontrato la verità del fatto, stante che in
questo caso il suo errore attiene a un elemento normativo, vertendo
sulla liceità del comportamento e derivando da una inesatta
conoscenza dei propri obblighi e dei presupposti normativi del diritto
di informazione (nel caso di specie, l’imputato – autore di un volume
sull’Islam in Italia – invocava quale esimente dell’utilizzo di alcune
espressioni dispregiative nei confronti della persona offesa,
l’esercizio putativo del diritto di cronaca, affermando che “a livello
di opinione pubblica quello di S. è da anni un personaggio discusso e
controverso”).