Sentenza 23 marzo 2005, n.6316
Gli immobili adibiti a sede vescovile godono dell’esenzione di cui
all’art. 7, comma 1, lettera i),del D.Lgs.n.504/1992. L’episcopio,
e cioè la sede della diocesi e della curia vescovile, è infatti un
immobile destinato all’esercizio del ministero proprio del Vescovo
diocesano (canoni 381-402 del Codice di diritto canonico) e delle
attività istituzionali della diocesi (canoni 469-494 del Codice di
diritto canonico); attività che sono ex lege definite come di
“religione e di culto” (art. 2, comma 1, della legge n. 222/1985).
Tale circostanza esclude, pertanto, ogni possibilità che presso detti
edifici si svolgano “attività oggettivamente commerciali”, il cui
esercizio – secondo l’orientamento più volte espresso dalla Suprema
Corte – è la sola condizione che possa escludere l’applicabilità del
beneficio, di cui al suddetto art. 7, comma 1, lettera i), del D.Lgs.
n. 504/1992, agli immobili posseduti da enti ecclesiastici. Né – ai
fine dell’applicabilità dell’esenzione in questione – può
rilevare le circostanza che il Vescovo diocesano abiti nell’immobile o
che nello stesso si trattino gli affari amministrativi e giudiziari
della diocesi, in quanto “attività non strettamente religiose”. Il
fatto che il Vescovo abiti nel palazzo vescovile, infatti, non
trasforma in abitazione privata l’immobile in questione, che rimane la
sede istituzionale del Vescovo stesso, il quale vi abita proprio per
l’esercizio della sua funzione e della sua missione, anche in
adempimento dell’obbligo della residenza personale nella diocesi
impostogli dal canone 395 del Codice di diritto canonico. Il fatto che
nel palazzo vescovile si trattino gli affari amministrativi e
giudiziari della diocesi, inoltre, costituisce il normale esercizio
della potestà di governo della diocesi attribuita al Vescovo,
qualificabile dunque, in quanto tale, come attività strettamente
religiosa.