Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Sentenza 08 febbraio 2012, n.1789

In tema di diritto alla corresponsione dell’assegno di divorzio in
caso di cessazione degli effetti civili del matrimonio, il parametro
dell’adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante
la convivenza matrimoniale da uno dei coniugi viene meno di fronte
alla instaurazione, da parte di questi, di una famiglia, ancorchè di
fatto.

Sentenza 15 marzo 2012, n.4184

La diversità di sesso dei nubendi è — unitamente alla
manifestazione di volontà matrimoniale dagli stessi espressa in
presenza dell’ufficiale dello stato civile celebrante – secondo la
costante giurisprudenza di questa Corte, requisito minimo
indispensabile per la stessa esistenza del matrimonio civile come atto
giuridicamente rilevante (cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 1808 del
1976, 1304 del 1990 cit., 1739 del 1999, 7877 del 2000).
Questo requisito – pur non previsto in modo espresso né dalla
Costituzione, né dal codice civile vigente (a differenza di quello
previgente del 1865 che, nell’art. 55 ad esempio, stabiliva, quanto
al requisito dell’età: «Non possono contrarre matrimonio l’uomo
prima che abbia compiuto gli anni diciotto, la donna prima che abbia
compiuto gli anni quindici»), né dalle numerose leggi che,
direttamente o indirettamente, si riferiscono all’istituto
matrimoniale — sta tuttavia, quale ‘postulato’ implicito, a
fondamento di tale istituto, come emerge inequivocabilmente da
molteplici disposizioni di tali fonti e, in primo luogo, dall’art.
107, primo comma, cod. civ. che, nel disciplinare la forma della
celebrazione del matrimonio, prevede tra l’altro che l’ufficiale
dello stato civile celebrante «riceve da ciascuna delle parti
personalmente, l’una dopo l’altra, la dichiarazione che esse si
vogliono prendere rispettivamente in marito e in moglie» (si veda
anche l’art. 108, primo comma).
— Pertanto — sul piano delle norme, di rango primario o
sub-primario, applicabili alla fattispecie in prima approssimazione
—, alla specifica questione, consistente nello stabilire se due
cittadini italiani dello stesso sesso, i quali abbiano contratto
matrimonio all’estero, siano, o no, titolari del diritto alla
trascrizione del relativo atto nel corrispondente registro dello stato
civile italiano, deve darsi, in conformità con i su menzionati
precedenti di questa Corte, risposta negativa.
Al riguardo, deve essere infine precisato che, nella specie,
l’intrascrivibilità di tale atto dipende non già dalla sua
contrarietà all’ordine pubblico, ai sensi dell’art. 18 del d.P.R.
n. 396 del 2000, ma dalla previa e più radicale ragione,
riscontrabile anche dall’ufficiale dello stato civile in forza delle
attribuzioni conferitegli, della sua non riconoscibilità come atto di
matrimonio nell’ordinamento giuridico italiano. Ciò che,
conseguentemente, esime il Collegio dall’affrontare la diversa e
delicata questione dell’eventuale intrascrivibilità di questo
genere di atti per la loro contrarietà con l’ordine pubblico.
 

Ordinanza 14 gennaio 2010, n.7

E’ manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 6, comma terzo della legge 27 luglio 1978,
n. 392 (Disciplina delle locazioni di immobili urbani), nella parte in
cui, in caso di convivenza more uxorio, condiziona – a seguito della
declaratoria di illegittimità costituzionale pronunciata dalla Corte
con la sentenza n. 404 del 1988 – la successione nel contratto di
locazione del convivente, rimasto ad abitare l’immobile locato, alla
presenza nel nucleo coabitante di prole naturale. A questo
proposito si deve infatti ricordare la profonda diversità che
caratterizza la convivenza more uxorio rispetto al rapporto coniugale
e la conseguente impossibilità di una automatica parificazione delle
due situazioni, ai fini di una identità di trattamento fra i
rispettivi regimi. Tali considerazioni valgono anche in relazione alla
comparazione tra la cessazione della convivenza con prole e la
cessazione di quella senza prole, trattandosi di situazioni del tutto
disomogenee rispetto alle quali non è invocabile il principio di
eguaglianza.

Sentenza 22 gennaio 2010, n.1096

ll carattere precario del rapporto di convivenza more uxorio consente
di considerare gli eventuali benefici economici che ne derivino idonei
ad incidere unicamente sulla misura dell’assegno di mantenimento, in
quanto – proprio in considerazione di detta precarietà – tale
rapporto è destinato ad influire solo su quella parte dell’assegno
volto ad assicurare quelle condizioni minime di autonomia
giuridicamente garantite, che l’art. 5 della legge sul divorzio ha
inteso tutelare finché l’avente diritto non contragga un nuovo
matrimonio. Né la nascita di un figlio può considerarsi idonea a
mutarne sotto il profilo giuridico la natura, potendo di fatto
cementare l’unione ma senza dar luogo all’insorgenza di diritti ed
obblighi, in quanto il soggetto economicamente più debole non
acquisisce comunque il grado di tutela necessario a giustificare la
perdita dei diritti di carattere economico derivanti dal matrimonio.

Sentenza 08 maggio 2009, n.140

La convivenza more uxorio non può essere assimilata al vincolo
coniugale per desumerne l’esigenza costituzionale di una parità di
trattamento. Infatti, mentre il matrimonio forma oggetto della
specifica previsione contenuta nell’art. 29 Cost., che lo riconosce
elemento fondante della famiglia come società naturale, il rapporto
di convivenza assume anch’esso rilevanza costituzionale, ma
nell’ambito della protezione dei diritti inviolabili dell’uomo nelle
formazioni sociali garantita dall’art. 2 della Costituzione. Tali
diversità, senza escludere la riconosciuta rilevanza giuridica della
convivenza di fatto, valgono pertanto a giustificare che la legge
possa riservare all’una e all’altra situazione un trattamento non
omogeneo (nel caso di specie, la Suprema Corte ha dichiarato non
fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 384,
primo comma, del codice penale, sollevata, in riferimento agli
articoli 2, 3 e 29 della Costituzione).

Sentenza 27 marzo 2009, n.86

Ai sensi dell’art. 85 del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 (Testo unico
delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli
infortuni sul lavoro e le malattie professionali), mentre la morte del
coniuge per infortunio comporta, in presenza di figli legittimi,
l’attribuzione della rendita al superstite nella misura del cinquanta
per cento ed a ciascuno dei figli nella misura del venti per cento, la
morte per infortunio di colui che non è coniugato ed ha figli
naturali riconosciuti non comporta l’attribuzione di alcuna rendita
per infortunio al genitore superstite, spettando invece ai figli il
venti per cento. E’ vero dunque che i figli, legittimi o naturali
riconosciuti, godono – in caso di infortunio mortale del loro
genitore – della rendita infortunistica nella stessa misura, ma
sussisite tuttavia una disparità di trattamento derivante dal fatto
che solo i figli legittimi, e non anche quelli naturali, possono
godere di quel plus di assistenza che deriva dall’attribuzione al
genitore superstite del cinquanta per cento della rendita. Infatti il
minore, pur trovandosi, ai fini della determinazione della misura
della rendita infortunistica, in una condizione analoga a quella di
chi ha perso entrambi i genitori – non essendo destinatario di alcun
beneficio economico, neppure indiretto, a tali fini, per la
sopravvivenza dell’altro genitore, cui non spetta, in quanto non
coniugato, alcuna rendita – ha diritto solo al venti per cento di
essa, e non anche al quaranta per cento spettante agli orfani di
entrambi i genitori. Pertanto, deve ritenersi costituzionalmente
illegittimo l’art. 85, primo comma, numero 2), del d.P.R. n. 1124 del
1965, nella parte in cui, nel disporre che, nel caso di infortunio
mortale dell’assicurato, agli orfani di entrambi i genitori spetta il
quaranta per cento della rendita, esclude che essa spetti nella stessa
misura anche all’orfano di un solo genitore naturale.

Sentenza 29 luglio 2008, n.308

E’ infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art.
155-quater, primo comma, del codice civile, introdotto dall’art. 1,
comma 2, della legge 8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in materia
di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli), anche
in combinato disposto con l’art. 4 della stessa legge, nella parte in
cui prevede la revoca automatica dell’assegnazione della casa
familiare nel caso in cui l’assegnatario conviva more uxorio o
contragga nuovo matrimonio. Dall’attuale contesto normativo e
giurisprudenziale emerge, infatti, il rilievo che non solo
l’assegnazione della casa familiare, ma anche la cessazione della
stessa, è subordinata, pur nel silenzio della legge, ad una
valutazione, da parte del giudice, di rispondenza all’interesse della
prole. Ne deriva che l’art. 155-quater cod. civ., ove interpretato,
sulla base del dato letterale, nel senso che la convivenza more uxorio
o il nuovo matrimonio dell’assegnatario della casa sono circostanze
idonee, di per se stesse, a determinare la cessazione
dell’assegnazione, non è coerente con i fini di tutela della prole,
per i quale l’istituto è sorto. La coerenza della disciplina e la sua
costituzionalità possono essere recuperate invece ove la normativa
sia interpretata nel senso che l’assegnazione della casa coniugale non
venga meno di diritto al verificarsi degli eventi di cui si tratta
(instaurazione di una convivenza di fatto, nuovo matrimonio), ma che
la decadenza dalla stessa sia subordinata ad un giudizio di
conformità all’interesse del minore.

Ordinanza 09 aprile 2008, n.245

Non è manifestamente infondata la questione di legittimita’
costituzionale dell’art. 33, comma 3 della legge n. 104/1992, in
relazione agli artt. 2, 3 e 32 della Costituzione, nella parte in cui
tale norma non include il convivente more uxorio fra i soggetti
beneficiari di permessi retribuiti per l’assistenza a persona con
handicap grave.

Decreto 27 maggio 2008

L’affidamento esclusivo costituisce – nello spirito della nuova
legislazione (legge n. 54/2006) – l’eccezione alla regola generale
individuata nell’affido c.d. condiviso. La riforma, infatti,
ribadisce e amplia il principio della bigenitorialità, intesa quale
diritto del figlio ad un rapporto completo e stabile con entrambi i
genitori, introdotto già da tempo nel nostro ordinamento con la l. n.
176/1991 di ratifica ed esecuzione della Convenzione internazionale di
New York del 20.11.1989 sui diritti dei minori. Ciò non toglie,
tuttavia, che il legislatore abbia mantenuto, quale valvola di
sicurezza del sistema, l’ipotesi dell’affidamento esclusivo qualora
ritenga che l’affidamento all’altro sia contrario all’interesse del
minore.

Ordinanza 23 novembre 2007, n.397

E’ manifestamente inammissibile la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 19, comma 2, lettera d), del decreto
legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni
concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione
dello straniero), «nella parte in cui non estende al padre naturale,
cittadino extracomunitario, il beneficio della sospensione del
provvedimento di espulsione in ipotesi di convivente in stato di
gravidanza ovvero in presenza di prole dall’età infrasemestrale»,
in riferimento agli artt. 2, 3, 29, 30 e 31 della Costituzione (nel
caso di specie, il rimettente ometteva di specificare la cittadinanza
del soggetto ricorrente nel giudizio a quo; elemento quest’ultimo
determinante ai fini dell’individuazione del regime giuridico
applicabile nel caso concreto, atteso che il d.lgs. n. 286 del 1998
− come esplicitamente stabilisce l’art. 1 − si applica solo «ai
cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea»; la
questione è stata ritenuta dunque manifestamente inammissibile per
mancata indicazione di un elemento essenziale della fattispecie).