Le disposizioni del decreto del Ministero dell’educazione e cultura
n. 333 del 1986 non comportano innovazioni fondamentali nei riguardi
delle norme del decreto-lei n. 323 del 1983, già dichiarate non
contrarie alla costituzione con la pronunzia n. 423 del 1987, e
pertanto non possono essere dichiarate incostituzionali dal punto di
vista formale, non eccedendo i limiti della potestà regolamentare
attribuita al governo e non invadendo la sfera di competenza
legislativa riservata al parlamento in materia di principi
costituzionali di uguaglianza e di laicità. Le disposizioni del
medesimo decreto non sono in contrasto, neppure dal punto di vista
sostanziale, con i principi costituzionali di libertà religiosa, di
separazione tra chiesa e stato, di non confessionalità
dell’insegnamento pubblico e di uguaglianza, perché nell’epoca
contemporanea la libertà religiosa non è da intendere solo in senso
negativo, venendo ad assumere anche un significato positivo, e cioè
quello di un potere cui vanno garantiti i mezzi per realizzare in
concreto i fini che ne costituiscono l’oggetto. Tale prospettazione
consente di precisare che i principi costituzionali della separazione
tra chiesa e stato e di non confessionalità dell’insegnamento
pubblico non comportano una assoluta separatezza tra le due
istituzioni, così da ostacolare una loro collaborazione finalizzata a
soddisfare le esigenze positive della libertà religiosa. Il principio
di uguaglianza, a sua volta, non impedisce di corrispondere in modo
proporzionato alle esigenze delle varie confessioni, purché le
differenze di trattamento non siano arbitrarie e concretamente
infondate o manifestamente irragionevoli. Alla luce di tali
considerazioni, non è contrario al principio di separazione e a
quello di non confessionalità inserire un insegnamento facoltativo
della religione tra le materie curriculari della scuola primaria, o
prevedere azioni di formazione dei titolari del suddetto insegnamento
presso le istituzioni pubbliche di istruzione superiore, se tale
insegnamento e tali azioni, pur svolgendosi nelle strutture pubbliche
e con il sussidio dello stato, si configurano come iniziative promosse
e gestite sotto la responsabilità della confessione. Del resto lo
stato ha il dovere di offrire alla chiesa cattolica queste
possibilità e, soprattutto, di cooperare (art. 67, n. 2, linea C,
Cost.) con i genitori cattolici nella educazione dei loro figli. In
particolare, non è contrario ai principi di separazione e di non
confessionalità la previsione che nella stessa persona
dell’insegnante di classe della scuola primaria si cumuli la doppia
rappresentanza della chiesa cattolica, in quanto docente della
disciplina di religione e morale cattolica, e dello stato, in quanto
docente delle altre discipline, perché nella qualità di docente
della disciplina di religione e morale cattolica egli non opera come
emanazione dello stato ma come emanazione della chiesa; per altro, il
timore reverenziale che potrebbe essere provocato nei genitori dalla
circostanza dell’insegnante di classe investito di entrambe le
qualifiche, inducendoli a scegliere per i figli la disciplina di
religione e morale cattolica, non attinge al nucleo essenziale della
libertà religiosa, che comporta sempre, in questo come in altri casi,
la necessità di “rischiare” per affermare la sovranità della persona
sulla sovranità dello stato. Non è in contrasto con il principio di
libertà religiosa l’affidamento degli alunni non frequentanti la
disciplina di religione e morale cattolica impartita dall’insegnante
di classe ad altri insegnanti di classe o ad altri soggetti incaricati
della loro educazione; nel caso di specie non è possibile una
acritica trasposizione del principio accolto dalla Corte
costituzionale italiana, secondo cui gli alunni che decidono di non
frequentare l’insegnamento della religione cattolica debbono godere,
in tutta la sua estensione, di uno “stato di non obbligo”: gli alunni
della scuola primaria non hanno, per la loro tenera età, la maturità
sufficiente per potere usufruire di uno “stato di non obbligo” e
pertanto sono costituzionalmente legittime le norme che stabiliscono
forme alternative obbligatorie di impegno educativo per gli alunni di
tale ordine di scuole; può anzi aggiungersi che la previsione e
organizzazione di “attività alternative”, costituisce un requisito
indispensabile di garanzia della libertà religiosa, al fine di
evitare che la loro mancanza rappresenti un elemento capace di
influire sulla decisione dei genitori di avvalersi o no per i loro
figli ell’insegnamento di religione e morale cattolica. Le
disposizioni oggetto del presente giudizio non possono essere
sottoposte al vaglio della Corte riguardo ad un preteso contrasto con
il principio di uguaglianza, a motivo del fatto che esse disciplinano
soltanto l’insegnamento di religione e morale cattolica nelle scuole
primarie e non regolamentano anche l’insegnamento confessionale non
cattolico nelle stesse scuole, perché la censura
d’incostituzionalità per omissione deve proporsi con uno strumento
processuale, di tipo diverso da quello utilizzato in questo giudizio,
previsto autonomamente dall’art. 283 Cost. Le disposizioni del
decreto del Ministero dell’educazione e cultura n. 831 del 1987 non
sono incostituzionali dal punto di vista formale, in quanto si
limitano ad “attualizzare” le norme precedenti relative
all’insegnamento di religione e morale cattolica impartito nelle
scuole di magistero primario e in quelle destinate a preparare e
formare i docenti delle scuole primarie, dopo la elevazione di questi
istituti al livello dell’insegnamento superiore e pertanto non
innovano in materia costituzionalmente riservata alla competenza
legislativa dell’Assemblea repubblicana. Le medesime disposizioni
non presentano profili di incostituzionalità sostanziale sulla base
degli stessi motivi per cui tali profili sono stati esclusi
nell’esame delle disposizioni del decreto n. 333 del 1986, rispetto
alle quali presentano un carattere meramente strumentale.