Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Sentenza 21 agosto 2018, n.9009/18

Il TAR del Lazio ha confermato la colpevolezza dell'emittente
televisiva che ha mandato in onda, pur accidentalmente, una bestemmia,
in quanto contenuto certamente lesivo dello sviluppo dei minori. La
condotta dell'emittente è senza dubbio connotata da
negligenza e imperizia, trattandosi di contenuto preregistrato,
sul quale pertanto poteva essere effettuato un preventivo controllo
prima della sua messa in onda ed essendo stato trasmesso per ben due
volte. 

Sentenza 30 luglio 2018, n.[2018] UKSC 46

La Corte Suprema britannica ha chiarito che, nel caso in cui i
familiari di un paziente in stato di incoscienza prolungata e i suoi
medici concordino sul fatto che sospendere la somministrazione di
idratazione e alimentazione artificiali che lo tengono in vita
corrisponda al suo "migliore interesse", nessuna norma,
né nazionale, né CEDU imponga l'obbligo di chiedere
una preventiva autorizzazione a un giudice.

Sentenza 30 maggio 2018, n.465

Si ringraziano gli avv. Lucio Marsella e Marcello
Rifici, nonché il dott. Federico Papini per la
segnalazione del documento e per la redazione della nota a sentenza
qui pubblicata (nota a sentenza)

"Non esiste (…) nel nostro ordinamento un soccorso di
necessità cosiddetto creativo, che (…) possa travalicare la
contraria volontà dell'interessato, posto che il perimetro
della scriminante dello stato di necessità (…) è
rigidamente circoscritto all'ipotesi in cui il paziente non sia in
grado – per le sue condizioni – di prestare il proprio dissenso o
consenso, come pure chiarito dalla costante giurisprudenza di
legittimità. Invero, l'urgente necessità terapeutica
può rilevare solo in caso di paziente in stato di incoscienza,
trovando i poteri e i doveri del medico unico fondamento nel consenso
del paziente, mai sacrificabile: il medico non può dunque
imporre il trattamento sanitario da lui ritenuto salvifico a chi
consapevolmente e lucidamente lo rifiuti"   

Sentenza 25 luglio 2018, n.19151/2018

La Corte di Cassazione ha confermato la condanna del medico al
risarcimento del danno da nascita indesiderata di un bambino malato,
soprattutto alla luce del fatto che la donna aveva espresso, anche
implicitamente, la volontà di abortire in caso di patologie
gravi per il nascituro. Il genitore che agisce per il risarcimento del
danno ha l'onere di provare che avrebbe esercitato la
facoltà d'interrompere la gravidanza ove fosse stata
tempestivamente informata dell'anomalia fetale, ma tale onere
può essere assolto tramite praesumptio hominis,
in base a inferenze desumibili dagli elementi di prova, quali il
ricorso al consulto medico proprio per conoscere lo stato di salute
del nascituro, le precarie condizioni psico-fisiche della gestante o
le sue pregresse manifestazioni di pensiero propense all'opzione
abortiva, gravando sul medico la prova contraria, che la donna non si
sarebbe determinata all'aborto per qualsivoglia ragione personale.
Circa la quantificazione del danno non patrimoniale, il giudice di
merito deve rigorosamente valutare tanto l'aspetto interiore del
danno (cd. danno morale), quanto il suo impatto modificativo in pejus
con la vita quotidiana (il danno cd. esistenziale), atteso che oggetto
dell'accertamento e della quantificazione del danno risarcibile
è la sofferenza umana conseguente alla lesione di un diritto
costituzionalmente protetto, la quale, nella sua realtà
naturalistica, si può connotare in concreto di entrambi tali
aspetti essenziali, costituenti danni diversi e, perciò,
autonomamente risarcibili, ma solo se provati caso per caso con tutti
i mezzi di prova normativamente previsti.

Sentenza 18 gennaio 2018

Riformando la pronuncia di
primo grado, la Sezione per i minorenni della Corte d'appello di
Cagliari ha disposto l'adozione speciale di minore ex art. 44,
lett. d), legge 183/1984 da parte della donna convivente con la madre
biologica, pur non costituendo queste una coppia omosessuale. La
prima, infatti, è legata alla seconda da un semplice rapporto
di amicizia, ma è coinvolta nella crescita psico-fisica del
minore sin dalla sua nascita, adempiendo di fatto in prima persona ai
doveri genitoriali nelle veci della madre biologica. Quest'ultima,
da sola, non sarebbe stata in grado di crescere il figlio e risponde
all’interesse preminente del minore il fatto di vedere
riconosciuto il vincolo filiale che lo lega alla convivente della
madre.
Si ringrazia per la segnalazione la
Professoressa Pierangela Floris dell'Università di
Cagliari.

Sentenza 23 marzo 2018, n.32028/2018

La Corte di Cassazione ha chiarito che l'aggravante della
finalità di discriminazione non ricorre esclusivamente nel caso
in cui l'espressione oggetto di analisi riconduca alla
manifestazione di un pregiudizio nel senso dell'inferiorità
di una determinata razza, nazione, etnia o religione, ma anche quando
la condotta di chi la pronuncia, valutata nel suo complesso, risulti
intenzionalmente diretta a rendere percepibile all’esterno e a
suscitare in altri analogo sentimento di odio etnico, nazionale,
razziale o religioso, e comunque a dar luogo, in futuro o
nell’immediato, al concreto pericolo di comportamenti
discriminatori.

Sentenza 04 luglio 2018, n.145/18

La Corte d'Appello di Napoli ha riconosciuto il diritto di una
donna di adottare il figlio biologico della compagna, con cui è
unita civilmente, in quanto accettò e condivise il progetto
della procreazione medicalmente assistita. Il nato da p.m.a, infatti,
ha lo stato di figlio della coppia che ha espresso la volontà
di ricorrere alle terapie, laddove l'elemento consensuale prevale
rispetto al mero dato della derivazione genetico-biologica. Certo
è vero che la l. 40/2004 riserva le pratiche di p.m.a. alle
coppie di sesso diverso, ma il principio del superiore interesse
del minore riveste una tale rilevanza da poter temperare, o persino
disapplicare, talune norme che sui minori incidono.

Si
ringrazia per la segnalazione il Dottor Simone Baldetti
dell'Università di Pisa.

Sentenza 10 luglio 2018, n.C-25/17

L’articolo 3, paragrafo 2, della direttiva 95/46/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 ottobre 1995, relativa alla
tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati
personali, nonché alla libera circolazione di tali dati, letto
alla luce dell’articolo 10, paragrafo 1, della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea, deve essere interpretato nel
senso che la raccolta di dati personali da parte dei membri di una
comunità religiosa nell’ambito di
un’attività di predicazione porta a porta e i trattamenti
successivi di tali dati non costituiscono né trattamenti di
dati personali effettuati per l’esercizio di attività di
cui all’articolo 3, paragrafo 2, primo trattino, di tale
direttiva, né trattamenti di dati personali effettuati da
persone fisiche per l’esercizio di attività a carattere
esclusivamente personale o domestico, ai sensi dell’articolo 3,
paragrafo 2, secondo trattino, di detta direttiva.
L’articolo 2, lettera c), della direttiva 95/46 deve essere
interpretato nel senso che la nozione di «archivio», di
cui a tale disposizione, include l’insieme di dati personali
raccolti nell’ambito di un’attività di predicazione
porta a porta, contenente nomi, indirizzi e altre informazioni
riguardanti le persone contattate porta a porta, allorché tali
dati sono strutturati secondo criteri specifici che consentono, in
pratica, di recuperarli facilmente per un successivo impiego.
Affinché il suddetto insieme rientri in tale nozione, non
è necessario che esso comprenda schedari, elenchi specifici o
altri sistemi di ricerca.
L’articolo 2, lettera d), della
direttiva 95/46, letto alla luce dell’articolo 10, paragrafo 1,
della Carta dei diritti fondamentali, dev’essere interpretato
nel senso che esso consente di considerare una comunità
religiosa, congiuntamente ai suoi membri predicatori, quale
responsabile dei trattamenti di dati personali effettuati da questi
ultimi nell’ambito di un’attività di predicazione
porta a porta organizzata, coordinata e incoraggiata da tale
comunità, senza che sia necessario che detta comunità
abbia accesso a tali dati o che si debba dimostrare che essa ha
fornito ai propri membri istruzioni scritte o incarichi relativamente
a tali trattamenti.

Sentenza 18 giugno 2018, n.16031/18

La Corte di Cassazione ha chiarito che l’essere
un’organizzazione non lucrativa di utilità sociale
(Onlus) non dimostra necessariamente la natura non imprenditoriale
dell’organizzazione; infatti, laddove l’organizzazione di
tendenza eserciti un’attività strutturata a modo di
impresa, alla stregua dei parametri fissati dall'art. 2082 c.c.,
essa finisce per non essere dissimile da qualunque altro datore di
lavoro, così che un trattamento privilegiato, di esclusione
dell’operatività della tutela reale per i lavoratori in
caso di licenziamento, non sarebbe giustificabile. 

Sentenza 15 giugno 2018, n.2018 SCC 33

La Corte Suprema canadese ha stabilito che la Law Sociey
dell'Ontario (precedentemente, "Law Society of Upper
Canada") può legittimamente negare la sua approvazione ad
un'università, necessaria perché i laureati di
questa possano accedere alla professione legale, se quell'ateneo
impone ai suoi studenti codici di condotta religiosamente orientati
che vietano rapporti sessuali fuori dal matrimonio tra uomo e donna.