Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Ordinanza 13 novembre 2015, n.1483

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione
Quarta), accoglie la domanda cautelare, e per l’effetto sospende
l’efficacia dei provvedimenti aventi ad oggetto
l'assegnazione provvisoria in uso di immobili di proprietà
comunale per il loro utilizzo per finalità religiose e
ulteriori attività sociali e culturali, posto che le
clausole della lex specialis che precludono la partecipazione ai
concorrenti che hanno contenziosi in atto con l'amministrazione
comunale, oltre a violare il principio di tassatività delle
cause di esclusione dettato in materia di appalti pubblici, si pongono
altresì in aperto contrasto con i principi di non
discriminazione, parità di trattamento, e
proporzionalità, atteso che la semplice esistenza di un
contenzioso in atto non è di per sé indice di
inaffidabilità, potendosi peraltro la lite chiudersi in favore
del concorrente (T.A.R. Campania, Napoli, Sez. I, 15.1.2013 n. 313)

Sentenza 26 novembre 2015, n.64846/11

Il divieto di indossare il velo imposto a una dipendente del servizio
pubblico ospedaliero rappresenta una restrizione del diritto di
libertà religiosa garantito dall'art. 9 della CEDU;
restrizione che risulta tuttavia "necessaria", in una
società democratica, alla "protezione dei diritti e delle
libertà altrui". La limitazione della libertà
di manifestare la propria fede religiosa sul luogo di lavoro mediante
uno specifico abbigliamento costituisce, infatti, una misura
"proporzionata" allo scopo di tutelare il principio di
laicità dello Stato e di assicurare l'adempimento
dell'obbligo di neutralità dei servizi pubblici.

Protocollo di intesa 05 novembre 2015

COMINICATO STAMPA
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA
DIPARTIMENTO AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA
Roma, 5
novembre 2015 – DAP e U.CO.II sottoscrivono protocollo di intesa
per favorire l’accesso di Mediatori culturali e di Ministri di
Culto negli istituti penitenziari.

Il Capo del
Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Santi Consolo e
il Presidente dell’Unione delle Comunità ed
Organizzazioni Islamiche in Italia Izzedin Elzir hanno sottoscritto il
Protocollo d’Intesa per l’avvio di una collaborazione con
le Comunità Islamiche, finalizzata a favorire l’accesso
di Mediatori culturali e di Ministri di Culto negli istituti
penitenziari.
L’accordo prende avvio da positive
sperimentazioni già attuate in diverse realtà
penitenziarie dove forte è la presenza di detenuti musulmani e
detenuti provenienti da Paesi di fede musulmana.
Il Protocollo,
definito dal DAP e dall’U.CO.II con grande sintonia di intenti,
intende promuovere azioni mirate all’integrazione culturale
avvalendosi dei mediatori indicati dall’U.CO.II., anche
attraverso la stipula di convenzioni con Università ed Enti che
cureranno la formazione dei volontari cui è data la
possibilità di accedere con continuità negli istituti
penitenziari.
Le azioni congiunte stabilite dal Protocollo per
progetti di mediazione culturale e per il sostegno religioso alle
persone detenute di fede islamica rendono concreta la libertà
di culto con valido sostegno religioso e morale. I momenti collettivi
di preghiera saranno guidati dai Ministri di Culto, in sala-preghiera
dedicata e in locali adeguati.
La stipula del Protocollo
è stata anche l’occasione per approfondire ulteriori
aspetti di collaborazione tra DAP e U.CO.II, quale ad esempio
l’apprendimento dell’italiano per i detenuti di lingua
araba, e viceversa, puntando su detenuti in grado di ricoprire il
ruolo di “docenti” per i compagni di detenzione, anche
attraverso l’uso dei personal computer, un utile supporto per lo
studio delle lingue, il cui utilizzo è stato disciplinato dal
DAP con la recente circolare emanata il 2 novembre. Una
modalità, sottolinea il Capo del DAP, che responsabilizza i
detenuti, essi stessi protagonisti dell’esigenza di una
reciproca conoscenza e del rispetto delle diverse culture, con indubbi
vantaggi per la sicurezza degli istituti penitenziari.
L’attuazione del protocollo sarà preceduta da una fase
sperimentale di sei mesi attivata in otto importanti istituti
penitenziari.

[FONTE: Newsletter DAP n. 135 del 18
novembre 2015]

Sentenza 28 ottobre 2015, n.2271

Con riferimento alla determinazione regionale di porre a totale carico
degli assistiti il costo delle prestazioni per la PMA di tipo
eterologo, diversamente da quanto previsto per la PMA di tipo omologo
– per la quale gli utenti sono tenuti al versamento del solo ticket,
restando in capo alla Regione il costo dell'intervento -, le
censure contenute nel ricorso sono fondate. Anzitutto non assume
rilievo determinante la circostanza che la PMA, sia omologa che
eterologa, non sia ricompresa formalmente nel d.P.C.M. che individua
le prestazioni da qualificare livelli essenziali di assistenza, atteso
che, se l'inserimento della prestazione nei LEA può avere
un effetto costitutivo nella qualificazione della stessa, rendendone
quindi doverosa l'erogazione su tutto il territorio nazionale alle
medesime condizioni minime, il mancato inserimento nell'elenco non
può determinare l'effetto opposto, considerato che va
verificata in concreto l'appartenenza di una determinata
prestazione al novero dei diritti fondamentali e, in caso affermativo,
va certamente garantita nel suo nucleo essenziale a tutti i soggetti e
su tutto il territorio nazionale. A tal proposito appare
opportuno richiamare la sentenza n. 162 del 2014 della Corte
costituzionale che ha evidenziato come "la scelta di [una] coppia
di diventare genitori e di formare una famiglia che abbia anche dei
figli costituisce espressione della fondamentale e generale
libertà di autodeterminarsi, libertà che, come [la]
Corte ha affermato, sia pure ad altri fini ed in un ambito diverso,
è riconducibile agli artt. 2, 3 e 31 Cost., poiché
concerne la sfera privata e familiare. Conseguentemente, le
limitazioni di tale libertà, ed in particolare un divieto
assoluto imposto al suo esercizio, devono essere ragionevolmente e
congruamente giustificate dall'impossibilità di tutelare
altrimenti interessi di pari rango". Inoltre la tematica in esame
è altresì riconducibile al "diritto alla salute,
che, secondo la costante giurisprudenza [della] Corte, va inteso
«nel significato, proprio dell'art. 32 Cost., comprensivo
anche della salute psichica oltre che fisica» (sentenza n. 251
del 2008; analogamente, sentenze n. 113 del 2004; n. 253 del 2003) e
«la cui tutela deve essere di grado pari a quello della salute
fisica» (sentenza n. 167 del 1999). Peraltro, questa nozione
corrisponde a quella sancita dall'Organizzazione Mondiale della
Sanità, secondo la quale «Il possesso del migliore stato
di sanità possibile costituisce un diritto fondamentale di ogni
essere umano» (Atto di costituzione dell'OMS, firmato a New
York il 22 luglio 1946). In relazione a questo profilo, non sono
dirimenti le differenze tra PMA di tipo omologo ed eterologo,
benché soltanto la prima renda possibile la nascita di un
figlio geneticamente riconducibile ad entrambi i componenti della
coppia. Anche tenendo conto delle diversità che caratterizzano
dette tecniche, è, infatti, certo che
l'impossibilità di formare una famiglia con figli insieme
al proprio partner, mediante il ricorso alla PMA di tipo eterologo,
possa incidere negativamente, in misura anche rilevante, sulla salute
della coppia, nell'accezione che al relativo diritto deve essere
data, secondo quanto sopra esposto. In coerenza con questa
nozione di diritto alla salute, deve essere, quindi, ribadito che,
«per giurisprudenza costante, gli atti dispositivi del proprio
corpo, quando rivolti alla tutela della salute, devono ritenersi
leciti» (sentenza n. 161 del 1985), sempre che non siano lesi
altri interessi costituzionali" (Corte costituzionale, sentenza
n. 162 del 2014).
Trattandosi quindi di prestazione
riconducibile a una pluralità di beni costituzionali –
libertà di autodeterminazione e diritto alla salute – né
il legislatore né, a maggior ragione, l'autorità
amministrativa possono ostacolarne l'esercizio o condizionarne in
via assoluta, la realizzazione, ponendo a carico degli interessati
l'intero costo della stessa, al di fuori di ogni valutazione e
senza alcun contemperamento con l'eventuale limitatezza delle
risorse finanziarie.

Sentenza 09 ottobre 2015, n.195

Il legislatore ha introdotto (con legge 1° aprile 1999, n. 91,
recante «Disposizioni in materia di prelievi e di trapianti di
organi e di tessuti»), ai fini della dichiarazione di
volontà in tema di donazione di organi e tessuti post mortem,
la procedura della notificazione e del cosiddetto silenzio-assenso,
che prevede la notificazione, a tutti i cittadini, della richiesta di
manifestare la propria volontà, con il contestuale avviso che
la mancata risposta sarà intesa come assenso. Al fine di
favorire la promozione della cultura della donazione degli organi, il
legislatore statale ha poi introdotto – a fianco di quella
appena descritta – una procedura semplificata, da svolgersi
dinanzi all’ufficiale dell’anagrafe, al momento del
rilascio o del rinnovo del documento d’identità (decreto
del Ministro della salute dell’11 marzo 2008, recante
«Integrazione del decreto 8 aprile 2000 sulla ricezione delle
dichiarazioni di volontà dei cittadini circa la donazione di
organi a scopo di trapianto»). L’impugnata legge reg.
Calabria, prevedendo la competenza dell’ufficiale
dell’anagrafe a ricevere e trasmettere le dichiarazioni di
volontà in tema di donazione di organi e tessuti post mortem,
riproduce nella sostanza una disciplina già prevista a livello
statale, invadendo la competenza legislativa esclusiva dello Stato in
materia di «anagrafi» (art. 117, secondo comma, lettera i,
Cost.) e di «ordinamento e organizzazione amministrativa dello
Stato e degli enti pubblici nazionali» (art. 117, secondo comma,
lettera g, Cost.). A prescindere infatti dalla conformità o
difformità della legge regionale alla legge statale, «la
novazione della fonte con intrusione negli ambiti di competenza
esclusiva statale costituisce causa di illegittimità della
norma» regionale (ex plurimis, sentenze n. 35 del 2011 e n. 26
del 2005). La legge regionale che pur si limiti sostanzialmente a
ripetere il contenuto della disciplina statale determina la violazione
dei parametri invocati, derivando la sua illegittimità
costituzionale non dal modo in cui ha disciplinato, ma dal fatto
stesso di aver disciplinato una materia di competenza legislativa
esclusiva dello Stato.

Sentenza 05 novembre 2015, n.221

E' infondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 1, comma 1, della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme
in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), sollevata, in
riferimento agli artt. 2, 3, 32, 117, primo comma, della Costituzione,
quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950,
ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.
L’esclusione del carattere necessario dell’intervento
chirurgico ai fini della rettificazione anagrafica appare infatti il
corollario di un’impostazione che − in coerenza con
supremi valori costituzionali − rimette al singolo la scelta
delle modalità attraverso le quali realizzare, con
l’assistenza del medico e di altri specialisti, il proprio
percorso di transizione, il quale deve comunque riguardare gli aspetti
psicologici, comportamentali e fisici che concorrono a comporre
l’identità di genere. L’ampiezza del dato letterale
dell’art. 1, comma 1, della legge n. 164 del 1982 e la mancanza
di rigide griglie normative sulla tipologia dei trattamenti rispondono
all’irriducibile varietà delle singole situazioni
soggettive. Rimane tuttavia ineludibile un rigoroso accertamento
giudiziale delle modalità attraverso le quali il cambiamento
è avvenuto e del suo carattere definitivo. Rispetto ad esso il
trattamento chirurgico costituisce uno strumento eventuale, di ausilio
al fine di garantire, attraverso una tendenziale corrispondenza dei
tratti somatici con quelli del sesso di appartenenza, il conseguimento
di un pieno benessere psichico e fisico della persona. Il trattamento
chirurgico non deve dunque essere considerato quale prerequisito per
accedere al procedimento di rettificazione, ma possibile mezzo,
funzionale al conseguimento di un pieno benessere psicofisico.

Sentenza 11 novembre 2015, n.229

Con la sentenza n. 96
del 2015
, questa Corte ha, infatti, già dichiarato
l’illegittimità costituzionale degli artt. 1, commi 1 e
2, e 4, comma 1, della legge n. 40 del 2004, «nella parte in cui
non consentono il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente
assistita alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche
trasmissibili, rispondenti ai criteri di gravità di cui
all’art. 6, comma 1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n.
194 […], accertate da apposite strutture
pubbliche». E «Ciò al fine esclusivo»,
come chiarito in motivazione, «della previa
individuazione», in funzione del successivo impianto
nell’utero della donna, «di embrioni cui non risulti
trasmessa la malattia del genitore comportante il pericolo di
rilevanti anomalie o malformazioni (se non la morte precoce) del
nascituro», alla stregua del suddetto “criterio normativo
di gravità”. Ed è in questi esatti termini e
limiti che l’art. 13, commi 3, lettera b), e 4, della legge n.
40 del 2004 va incontro a declaratoria di illegittimità
costituzionale, nella parte, appunto, in cui vieta, sanzionandola
penalmente, la condotta selettiva del sanitario volta esclusivamente
ad evitare il trasferimento nell’utero della donna di embrioni
che, dalla diagnosi preimpianto, siano risultati affetti da malattie
genetiche trasmissibili rispondenti ai criteri di gravità di
cui all’art. 6, comma 1, lettera b), della legge n. 194 del
1978, accertate da apposite strutture pubbliche.