Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Sentenza 18 aprile 2002, n.14382

In via generale le norme e i principi di tutela operanti per i
rapporti di lavoro subordinato di diritto privato non trovano alcun
limite alla loro applicazione nella disciplina del rapporto del
personale degli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti che
esercitano l’attività ospedaliera e che sono classificati, ai fini
della loro inserzione nel servizio sanitario pubblico; questa loro
qualificazione, in assenza di disposizioni espresse in tal senso, non
comporta di per sè l’applicazione a tali rapporti dei principi
dell’ordinamento del personale ospedaliero pubblico, compreso quello
concernente la necessità di assunzione per pubblico concorso, e non
preclude, di conseguenza, l’operatività delle disposizioni dettate
dall’art. 2103 c.c. in tema di promozione automatica alla qualifica
superiore del dipendente per avvenuto esercizio di fatto delle
correlative mansioni, protratto per il lasso di tempo stabilito dalla
legge.

Sentenza 18 aprile 2002, n.14381

Si deve ritenere che le norme e i principi di tutela operanti per i
rapporti di lavoro subordinato di diritto privato non trovano alcun
limite alla loro applicazione per i dipendenti degli enti
ecclesiastici gestori di ospedali classificati ai sensi della legge n.
132-1968. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione impugnata,
secondo la quale la classificazione degli ospedali gestiti da enti
ecclesiastici e il loro inserimento nel servizio sanitario pubblico,
ai sensi dell’art. 1 della legge n. 132 del 1968, non precludeva
l’applicazione ai dipendenti degli stessi della normativa sul rapporto
di lavoro a termine di cui alla legge n. 230 del 1962).

Sentenza 16 gennaio 2003, n.5075

Incorre in responsabilità disciplinare l’avvocato che, designato
dalla Commissione per il gratuito patrocinio per l’incarico di
difensore di una parte ammessa al beneficio, adducendo “motivi di
coscienza personale”, alquanto pretestuosi, si rifiuti di difenderla,
in quanto tale comportamento, in considerazione del fatto che
l’incarico affidato al professionista è obbligatorio ed ufficioso,
non fiduciario, viola il dovere di difesa stabilito dall’art. 11 del
codice deontologico forense. Infatti l’indicazione di “motivi di
coscienza personale” da parte dell’avvocato designato, senza alcuna
ulteriore esplicazione, non è idonea ad integrare quei “motivi gravi
e giustificati” che rendono legittimo il rifiuto del professionista.

Sentenza 12 febbraio 2002, n.4893

La riammissione in servizio di un pubblico dipendente costituisce il
frutto di una valutazione ampiamente discrezionale della Pubblica
Amministrazione circa la rispondenza della reintegrazione del
dipendente alle esigenze dell’apparato burocratico, valutazione che
sfugge al sindacato di legittimità, purché non inficiata da vizi
logici. Stando così le cose, ne discende che il giudizio della
Commissione per il personale del ruolo degli agenti ed assistenti
della Polizia di Stato, di cui all’art.69 del D.P.R. 24 aprile 1982
n.335, non va valutato nel merito, bensì nella sua logicità. Da tale
punto di vista, deve, anzitutto, rilevarsi che la P.A. può certamente
escludere la riammissione in servizio di un ex dipendente che si
presenti quale “elemento instabile e con idee non molto chiare sul
proprio futuro”, giacché sarebbe nociva al servizio e contraria
all’interesse pubblico la riammissione di siffatti elementi fra le
file dei dipendenti pubblici, tanto più nel caso di appartenenti alla
Polizia di Stato. (Nel caso di specie l’Amministrazione, pertanto, ha
non illogicamente escluso la riammissione in servizio dell’ex
dipendente in questione in quanto instabile).

Sentenza 04 marzo 2003, n.3038

Il passaggio da un ufficio all’altro, nell’ambito della stessa sede
territoriale della polizia di Stato, non costituisce trasferimento in
senso tecnico, ma integra soltanto una modalità organizzativa del
servizio stesso e non esige le stesse garanzie procedimentali previste
per i trasferimenti in senso stretto. In merito al trasferimento,
perché l’amministrazione possa destinare un dipendente ad altro
incarico rispetto a quello cui era stato originariamente assegnato,
non è necessario raggiungere la piena prova di un poco ortodosso
comportamento (rilevante, magari, unicamente in sede disciplinare), ma
solo il convincimento dell’inopportunità dell’ulteriore permanenza
del soggetto in un particolare settore operativo. (Nel caso di specie
l’Amministrazione si è decisa ad allontanare il S. dalla D.I.A. a
seguito di un insieme di circostanze in base alle quali risultava
opportuno evitare che presso la D.I.A. prestassero servizio persone
per varie ragioni caratterizzate da una reputazione non perfettamente
soddisfacente, tenuto conto delle peculiarità dell’attività
investigativa ivi svolta).

Sentenza 25 settembre 2003, n.2915

In base all’articolo 7 della legge 11 giugno 1974, n. 252, gli
istituti, enti e ospedali che eroghino prestazioni del Servizio
sanitario nazionale hanno diritto all’esonero dal pagamento dei
contributi dovuti alla Cassa unica assegni familiari, purché non
perseguano fini di lucro e assicurino ai dipendenti un trattamento per
carichi di famiglia non inferiore a quello previsto per gli assegni
familiari dal d.P.R. n. 797 del 1955. L’assenza del fine di lucro,
quale requisito per l’esonero dal pagamento dei contributi dovuti alla
Cassa Unica Assegni Familiari, ai sensi dell’art. 23 bis d.l. 30
dicembre 1979, n. 663, convertito in legge 29 febbraio 1980, n. 33,
sussiste nel caso in cui un ente, pur esercitando attività di
carattere imprenditoriale, destini gli eventuali profitti al
conseguimento delle finalità istituzionali perseguite.
(Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva
ritenuto sussistenti i requisiti per l’esonero in favore di una casa
di cura di proprietà di una congregazione religiosa, avendo accertato
che eventuali avanzi di gestione non venivano incamerati dall’ente
quale profitto dell’attività di cura, ma venivano destinati dall’ente
al miglior conseguimento delle proprie finalità istituzionali).

Sentenza 01 luglio 2003, n.18008

Ai dipendenti delle comunità ebraiche, anche dopo la privatizzazione
del loro rapporto di lavoro, si applica il regime assicurativo
pubblicistico precedente, ed inoltre sono dovuti all’Inps i contributi
per il Servizio sanitario nazionale per la quota parte di essi
afferenti alle prestazioni di malattia nonché (in via di
anticipazione) i contributi Gescal previsti dalla lett. b) dell’art.
10 legge 14 febbraio 1963, n. 60 a carico dei lavoratori, dovuti a
prescindere dalla natura pubblica o privata del datore di lavoro. Le
comunità ebraiche non sono invece debitrici dell’Inps per i
contributi per il fondo di garanzia t.f.r., perchè il legislatore
presuppone che nel caso di lavoratori coperti dall’Inadel (ora Inpdap)
non vi sia il rischio di mancato pagamento delle indennità legate
alla cessazione del servizio, e per contributi Tbc, dai quali sono
esclusi i soggetti pubblici tra cui, ai limitati fini dell’art 38
r.d.l. n. 1827 del 1935, rientra la Comunità ebraica di Venezia.
Peraltro i dipendenti della Comunità ebraica di Venezia, assunti
prima della entrata in vigore della legge n. 101 del 1989, conservano
il regime assicurativo pubblicistico, presso la Cassa previdenza
dipendenti enti locali e l’Inadel (ora Inpdap), in quanto la
trasformazione delle Comunità ebraiche in persone giuridiche private,
al pari di analoghe trasformazioni degli enti da pubblici a privati,
non preclude la permanenza del regime pubblicistico del previgente
sistema previdenziale e della relativa contribuzione; infatti la
sentenza della Corte cost. n. 259 del 1990 (che ha dichiarato
costituzionalmente illegittimo il regime pubblicistico stabilito per
le Comunità israelitiche dal r.d. n. 1731 del 1930) stabilisce che
non siano travolte retroattivamente le disposizioni relative al
trattamento previdenziale pubblico dei dipendenti, ispirato a principi
del tutto diversi da quelli posti a base della pronunzia di
incostituzionalità.

Sentenza 01 luglio 2003, n.16435

In tema di inquadramento delle imprese ai fini previdenziali, la
nozione di imprenditore, ai sensi dell’art. 2082 c.c., va intesa in
senso oggettivo, dovendosi riconoscere il carattere imprenditoriale
all’attività economica organizzata che sia ricollegabile ad un dato
obiettivo inerente all’attitudine a conseguire la remunerazione dei
fattori produttivi, rimanendo giuridicamente irrilevante lo scopo di
lucro, che riguarda il movente soggettivo che induce lo imprenditore
ad esercitare la sua attività e dovendo essere, invece, escluso il
suddetto carattere imprenditoriale dell’attività nel caso in cui essa
sia svolta in modo del tutto gratuito, dato che non può essere
considerata imprenditoriale l’erogazione gratuita dei beni o servizi
prodotti. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che
aveva escluso il carattere imprenditoriale dell’attività svolta dalla
Comunità ebraica di Venezia nella gestione di una casa di riposo,
assumendo apoditticamente che la qualifica imprenditoriale è
incompatibile con la funzione socio – assistenziale svolta dalla
Comunità ebraica).

Sentenza 12 giugno 2003, n.15753

In tema di esonero dal pagamento dei contributi Cuaf, in favore dei
soggetti che erogano prestazioni assistenziali, l’art. 23 bis del d.l.
n. 663 del 1979 (convertito in legge n. 33 del 1980) ha condizionato
il beneficio all’assenza, in capo a detti soggetti, del fine di lucro;
ne consegue, con riferimento ad attività assistenziale gestita da
Congregazione religiosa, l’irrilevanza della qualificazione in sè
della Congregazione quale imprenditrice commerciale o quale ente
morale, dovendosi indagare invece sulla rispondenza a fine di lucro
dell’attività imprenditoriale concretamente svolta nelle singole
strutture dell’organizzazione. Il relativo giudizio, se congruamente
motivato ed esente da vizi logico – giuridici, è incensurabile in
sede di legittimità.

Sentenza 04 giugno 2003, n.16774

L’attività didattica o sanitaria svolta dal religioso non alle
dipendenze di terzi, ma nell’ambito della propria congregazione e
quale componente di essa, secondo i voti pronunciati, non costituisce
prestazione di attività di lavoro subordinato ai sensi dell’art. 2094
c.c., soggetta alle leggi dello Stato italiano, bensì opera di
evangelizzazione “religionis causa”, in adempimento dei fini della
congregazione stessa, regolata esclusivamente dal diritto canonico, e
quindi non legittima il religioso alla proposizione di domande dirette
ad ottenere emolumenti che trovano la loro causa in un rapporto di
lavoro subordinato. L’eccezione di illegittimità costituzionale di
questa interpretazione dell’art. 2094, c.c., sollevata in riferimento
agli art. 3 e 36 cost., è manifestamente infondata, sia in quanto
l’attività è resa in virtù di una libera scelta del religioso il
quale, attraverso i voti di obbedienza, povertà e diffusione delle
fede, accetta di svolgerla senza un corrispettivo economico, sia in
quanto il carattere di normale onerosità del rapporto di lavoro non
riguarda le prestazioni svolte all’interno della comunità religiosa,
sotto l’unico stimolo di principi morali, senza la tipica
subordinazione e senza prospettive di retribuzione.