Legge 20 maggio 2016, n.76
[in vigore dal 5 giugno 2016]
Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose
Presentazione
[in vigore dal 5 giugno 2016]
L’art. 3, comma 3 del D.Lgs. n. 216 del 2003 stabilisce che
“nel rispetto dei principi di proporzionalità e
ragionevolezza e purché la finalità sia legittima,
nell’ambito del rapporto di lavoro o dell’esercizio
dell’attività di impresa, non costituiscono atti di
discriminazione […] quelle differenze di trattamento dovute a
caratteristiche connesse alla religione, […], qualora per la
natura della attività lavorativa o per il contesto in cui essa
viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un
requisito essenziale o determinante ai fini dello svolgimento della
attività medesima”. Nel caso di specie, il giudice di
seconda istanza ha affermato che il “non indossare il
velo” non sia da ritenersi requisito essenziale o determinante
ai fini della selezione per l’attività di hostess,
riformando pertanto la sentenza del Tribunale di primo grado, ed ha
dichiarato il carattere discriminatorio del comportamento posto in
essere dalla società appellata, condannando quest’ultima
al risarcimento del danno non patrimoniale subito
dall’appellante.
A fronte, dunque, di quella che è stata definita “una
scelta tragica”, tra il rispetto del principio della vita (che
si racchiude nell’embrione ove pur affetto da patologia) e le
esigenze della ricerca scientifica – una decisione così
ampiamente divisa sul piano etico e scientifico, e che non trova
soluzioni significativamente uniformi neppure nella legislazione
europea – la linea di composizione tra gli opposti interessi,
che si rinviene nelle disposizioni censurate, attiene all’area
degli interventi, con cui il legislatore, quale interprete della
volontà della collettività, è chiamato a
tradurre, sul piano normativo, il bilanciamento tra valori
fondamentali in conflitto, tenendo conto degli orientamenti e delle
istanze che apprezzi come maggiormente radicati, nel momento dato,
nella coscienza sociale. Compete dunque a
quest'ultimo la valutazione di opportunità (sulla base
anche delle “evidenze scientifiche” e del loro raggiunto
grado di condivisione a livello sovranazionale) in ordine: alla
utilizzazione, a fini di ricerca, dei soli embrioni affetti da
malattia – e da quali malattie – ovvero anche di quelli
scientificamente “non biopsabili”; alla selezione degli
obiettivi e delle specifiche finalità della ricerca
suscettibili di giustificare il “sacrificio”
dell’embrione; alla eventualità, ed alla determinazione
della durata, di un previo periodo di crioconservazione; nonchè
alla opportunità o meno (dopo tali periodi) di un successivo
interpello della coppia, o della donna, che ne verifichi la confermata
volontà di abbandono dell’embrione e di sua destinazione
alla sperimentazione; alle cautele più idonee ad evitare la
“commercializzazione“ degli embrioni residui.
Laddove sussista conflitto dei genitori separati, sulla frequenza dei
figli tra scuola privata e scuola pubblica, se non esista, o non
persista, un’intesa tra i genitori a favore di qualsivoglia
istituto scolastico privato e non emergano evidenti controindicazioni
all’interesse del minore (in particolare riconducibili a sue
insite difficoltà di apprendimento, a particolari
fragilità di inserimento nel contesto dei coetanei, a esigenze
di coltivare studi in sintonia con la dotazione culturale o
l’estrazione nazionale dei genitori ecc.), la decisione
dell’Ufficio giudiziario – in sé sostitutiva di
quella della coppia genitoriale – non può che essere a
favore dell’istruzione pubblica, secondo i canoni
dall’ordinamento riconosciuti come idonei allo sviluppo
culturale di qualsiasi soggetto minore residente sul
territorio. Si è in particolare osservato (v. Tribunale
Milano, sez. IX, decreto 4 febbraio 2015, Pres., est. Gloria Servetti)
che, nell’ipotesi di conflitto tra i genitori in ordine
all’iscrizione dei minori a scuola, «preferenza e
prevalenza va data alle istituzione scolastiche pubbliche
poiché espressione primaria e diretta del sistema nazionale di
istruzione nonché esplicazione principale del diritto
costituzionale ex art. 33 comma II cost. Le altre istituzioni
scolastiche (paritarie, private in generale), pertanto, possono
incontrare il favore del giudice, nella risoluzione del conflitto,
solo là dove emergano elementi precisi e di dettaglio per
accertare un concreto interesse effettivo dei figli a frequentare una
scuola diversa da quella pubblica.
L.R. Veneto 12 aprile 2016, n. 12: "Modifica della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11 – Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio (e successive modificazioni)". (BUR Veneto n. 35 del 15 aprile 2016) Art. 1 Modifica dell’articolo 31 della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11 “Norme per il governo […]
Secondo la giurisprudenza della Corte adita la proporzionalità
della sanzione disciplinare è nozione che, al pari di altre
rinvenibili nell'ordinamento positivo, la legge – allo scopo di
adeguare le norme alla realtà da disciplinare, articolata e
mutevole nel tempo – configura con disposizioni, ascrivibili alla
tipologia delle cosiddette clausole generali, di limitato contenuto e
delineanti un modulo generico che richiede di essere specificato in
sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni
relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa
disposizione tacitamente richiama. Nel caso in esame, è
certamente conforme a diritto (art. 2106 c.c.) la considerazione,
operata dal giudice di merito, dell'elemento psicologico del
lavoratore, poichè nella valutazione complessiva della
proporzionalità tra l'infrazione (assenza nella giornata di
turno domenicale) e la sanzione irrogata (mancata retribuzione,
sospensione dal lavoro e multa) rientra non solo
l'illiceità in senso oggettivo della condotta, non
più in discussione, ma anche l'intensità o – come
nella specie – la tenuità dell'elemento psicologico del
lavoratore. In questo senso, nel caso di specie, la Corte di merito ha
valorizzato un certo grado di affidamento indotto dal comportamento
aziendale, che aveva portato il lavoratore a ritenere che sarebbe
stato mantenuto un atteggiamento di tolleranza riguardo alla mancata
prestazione del lavoro domenicale. Ha altresì valorizzato
l'offerta della prestazione lavorativa nel giorno di riposo
settimanale, condotta che, seppure priva di valore scriminante,
esprime un atteggiamento collaborativo manifestato dall'impiegato
per compensare l'assenza. Infine, è stato valorizzato dai
giudici di appello, seppure con sintetica motivazione, il contesto
complessivo della vicenda in cui l'infrazione si collocava:
esisteva una iniziativa sindacale in corso e una richiesta individuale
di non assegnazione a turni domenicali per motivi religiosi (esercizio
del diritto di culto), circostanze di cui la società/datrice di
lavoro era a piena conoscenza e che portarono nel periodo
immediatamente successivo alla soppressione del turno domenicale.
Sono fondate le questioni di legittimità costituzionale aventi
ad oggetto i commi 2, 2-bis, lettere a) e b), e 2-quater,
dell’art. 70 della legge regionale Lombardia n. 12 del 2005,
come modificati dall’art. 1, comma 1, lettera b), della legge
regionale n. 2 del 2015, per violazione degli artt. 3, 8, 19 e 117,
secondo comma, lettera c), della Costituzione.
In virtù
delle modifiche apportate dalla legge regionale n. 2 del 2015, la
legge regionale n. 12 del 2005, sul governo del territorio, nel capo
dedicato alla realizzazione di edifici di culto e di attrezzature
destinate a servizi religiosi (artt. 70-73), distingue tre ordini di
destinatari: gli enti della Chiesa cattolica (art. 70, comma 1); gli
enti delle altre confessioni religiose con le quali lo Stato abbia
già approvato con legge un’intesa (art. 70, comma 2); gli
enti di tutte le altre confessioni religiose (art. 70, comma 2-bis). A
questa terza categoria di enti, collegati alle confessioni
“senza intesa”, i citati artt. 70-73 sono applicabili solo
a condizione che sussistano i seguenti requisiti: «a) presenza
diffusa, organizzata e consistente a livello territoriale e un
significativo insediamento nell’ambito del comune nel quale
vengono effettuati gli interventi disciplinati dal presente capo; b) i
relativi statuti esprim[a]no il carattere religioso delle loro
finalità istituzionali e il rispetto dei principi e dei valori
della Costituzione» (art. 70, comma 2 bis). In virtù del
comma 2-quater dell’art. 70, la valutazione di tali requisiti
è obbligatoriamente rimessa al vaglio preventivo,
ancorché non vincolante, di una consulta regionale, da
istituirsi e nominarsi con provvedimento della Giunta regionale della
Lombardia.
Ciò rilevato, la Regione è titolata,
nel governare la composizione dei diversi interessi che insistono sul
territorio, a dedicare specifiche disposizioni per la programmazione e
realizzazione di luoghi di culto; viceversa, essa esorbita dalle
sue competenze, entrando in un ambito nel quale sussistono forti e
qualificate esigenze di eguaglianza, se, ai fini
dell’applicabilità di tali disposizioni, impone requisiti
differenziati, e più stringenti, per le sole confessioni per le
quali non sia stata stipulata e approvata con legge un’intesa ai
sensi dell’art. 8, terzo comma, della Costituzione. Del resto la
giurisprudenza della Corte adita è costante
nell’affermare che il legislatore non può operare
discriminazioni tra confessioni religiose in base alla sola
circostanza che esse abbiano o non abbiano regolato i loro rapporti
con lo Stato tramite accordi o intese (sentenze n. 346 del 2002 e n.
195 del 1993), posto che Il libero esercizio del culto è un
aspetto essenziale della libertà di religione (art. 19) ed
è, pertanto, riconosciuto egualmente a tutti e a tutte le
confessioni religiose (art. 8, primo e secondo comma).
Per
queste ragioni, deve essere dichiarata l’illegittimità
costituzionale dell’art. 70, commi 2-bis, sia nelle lettere a) e
b), sia nella parte dell’alinea che le introduce (vale a dire,
nelle parole «che presentano i seguenti requisiti:»), e
2-quater, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005.
Sebbene nei CCNL per il comparto degli enti locali non sia
espressamente previsto il principio della necessaria annualità
dell'incarico di insegnamento della religione cattolica, dal
silenzio delle parti collettive non può desumersi la
possibilità per l'ente locale di assicurare
l'insegnamento religioso nelle scuole dell'infanzia mediante
il ricorso a contratti a termine di durata inferiore all'anno.