Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

Olir

Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 17 Luglio 2009

Varie 21 maggio 2009, n.09/046/CR/C11

Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome. Problematiche relative alla segnalazione dell’Autorità Garante della concorrenza e del mercato sulle aperture domenicali e festive: iniziative da assumere, 21 maggio 2009.

In relazione alla Segnalazione (Rif. S893, Prot. 49721, del 20 ottobre 2008) dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, il Coordinamento delle Regioni ritiene opportuno esprimere alcune osservazioni.
Partendo dall’assunto che l’attività commerciale debba fondarsi sul principio della libertà di iniziativa economica privata, garantita dall’art. 41 della Costituzione, e debba essere esercitata nel rispetto dei princìpi contenuti nella legge 10 ottobre 1990, n. 287, recante “Norme per la tutela della concorrenza e del mercato”, le Regioni ribadiscono con forza il proprio impegno costante a garanzia e tutela della libertà di concorrenza e, nel contempo, all’esercizio delle competenze divenute loro proprie a seguito della riforma del Titolo V, parte II, della Costituzione.
Le Regioni riaffermano che il sistema coordinato dei rapporti e delle competenze Stato-Regioni è essenziale per garantire a ciascun Ente di svolgere in modo armonico le proprie funzioni e ciò anche al fine di prevenire possibili conflitti.
Tutto ciò premesso e per quanto concerne gli specifici contenuti della Segnalazione in oggetto, apparendo essi sotto diversi aspetti non condivisibili, si precisa quanto segue.
Innanzi tutto, sul piano del metodo, va rilevato che l’Autorità Garante ha inviato la propria segnalazione al Governo ed alle Regioni limitandosi a raccogliere qualche sporadica segnalazione da parte di operatori, senza aver preliminarmente avviato alcun procedimento informativo o ricercato alcun contraddittorio con le Regioni stesse e gli Enti locali interessati dalle censure, il che, se non altro sul piano della correttezza e della trasparenza del procedimento amministrativo, nel rispetto del principio di leale collaborazione, desta qualche dubbio.
Ciò posto, va rimarcato che le normative regionali prese a riferimento, in quanto ritenute in contrasto con i principi statali in materia di concorrenza, non sono state oggetto, da parte del Governo, né di opposizione ai sensi del precedente disposto dell’art. 127 della Costituzione, né di ricorso costituzionale in via diretta, ai sensi dell’attuale disposto dello stesso art. 127.
Inoltre, l’operato dell’Antitrust pare essere andato di fatto a ricoprire una funzione prettamente giurisdizionale nel sindacare cause ed effetti dell’azione regionale in rapporto alla preesistente normativa nazionale che, nell’ordinamento, sono oggetto, qualora si volessero rinvenire disparità di trattamento, dell’avvio di specifici procedimenti processuali amministrativi con ricorso al TAR ed al Consiglio di Stato.
Non può, infatti, accettarsi che l’Antitrust, dotata dalla legge 287/1990 di specifiche competenze (poteri di indagine ed istruttori, di diffida e di sanzione nei confronti delle imprese, di segnalazione al Parlamento ed al Governo, nonché attività consultiva), svolga di fatto una funzione giurisdizionale o, addirittura, un sindacato di costituzionalità delle leggi regionali, rimarcandone supposti profili di incompetenza per materia ed assuma formalmente posizioni che travalicano i propri compiti.
Infine, nella segnalazione in questione, l’Autorità formula valutazioni circa presunti rapporti gerarchici tra una norma statale (d.lgs. 114/1998) e successive norme regionali ed atti regolamentari di Enti locali che non tengono conto del mutato contesto costituzionale.
E’ ben vero, infatti, che, come più volte affermato dalla Corte Costituzionale, la tutela della concorrenza ha una forte valenza trasversale e può incidere anche su materie di competenza residuale delle Regioni, come il commercio, ma ciò non significa affatto che si possa ragionare in termini di sicura “prevalenza” delle disposizioni di cui agli artt. 12 e 13 del d.lgs. 114/1998 – oltretutto antecedenti la riforma del titolo V, parte II, Cost. – sulle norme adottate da Regioni ed Enti locali.
Del pari contestabile è la pretesa di delineare linee interpretative di norme nazionali che si traducono in indicazioni di netto dettaglio sul contenuto delle norme regionali, sconfinando nell’ambito delle valutazioni discrezionali che, pur nel rispetto dei princìpi della concorrenza, non possono che essere compiute dal legislatore.
Tanto più anomala è la pretesa di vincolare le scelte legislative regionali addirittura al rispetto di una circolare ministeriale, individuata quale fonte della materia.
Inaccettabili, poi, le conclusioni a cui giunge l’Autorità Garante circa il preteso obbligo, per le amministrazioni, di disapplicazione delle discipline regionali e locali ritenute in contrasto con princìpi concorrenziali.
Non trova fondamento giuridico neanche l’adombrata attivazione di un potere sostitutivo “al contrario” (dei Comuni nei confronti delle Regioni).
A tale proposito, si ricorda anzitutto l’ordinanza n. 199 del 2006 con la quale la Corte costituzionale ha sostenuto che il d.lgs. 114/1998 si applica, ai sensi dell’art. 1, comma 2, della legge 131/2003, soltanto alle Regioni che non abbiano emanato una propria legislazione in materia di commercio.
Nel senso della inammissibilità della disapplicazione di leggi regionali si vedano, fra le altre, le sentenze n. 129/2004 e 285/1990 della Corte costituzionale.
Si ricorda, altresì, che non vi sono pronunce costituzionali che trattino degli artt. 12 e 13 del d.lgs. 114/1998 definendone il carattere di disposizioni pro-concorrenziali.
Infatti, le disposizioni contenute negli articoli 12 e 13 del D.Lgs 114/1998 non si configurano come norme a tutela della concorrenza nel settore della distribuzione commerciale, ma si pongono più propriamente come disciplina dell’esercizio dell’iniziativa economica privata. La materia infatti non coinvolge profili inerenti alla tutela della concorrenza, intesa come rimozione dei vincoli all’accesso al mercato, ma piuttosto si riferisce nella sua sostanza alla regolamentazione dell’iniziativa economica privata, ai sensi e per effetto del principio costituzionale contenuto nell’art. 41 della Costituzione.
In questo quadro si deve tener conto dell’orientamento della giurisprudenza.
La Corte di Giustizia della Comunità europea, in più occasioni, non ha trovato contrastanti le normative nazionali degli stati membri sulla chiusura domenicale rispetto al principio di libera circolazione delle merci (cause C-312/89 e C-169/91). Tanto è stato ribadito anche con riferimento alla legislazione italiana (sentenza 2 giugno 1994, cause C-69/93 e C-258/93).
Nella sentenza relativa alla causa C-169/91 la Corte di Giustizia ha rilevato che “le normative in questione perseguivano un obiettivo legittimo alla luce del diritto comunitario. Invero, le discipline nazionali che limitano l’apertura domenicale di esercizi commerciali costituiscono l’espressione di determinate scelte, rispondenti alle peculiarità socioculturali nazionali o regionali. Spetta agli Stati membri effettuare queste scelte attenendosi alle prescrizioni del diritto comunitario, in particolare al principio di proporzionalità”.
Una precisazione circa l’effettiva portata dell’articolo 30 del trattato di Roma è contenuta in un’altra decisione dello stesso giudice (sentenza 24 novembre 1993, cause C-267/91 e C-268/91), dove si evince che gli operatori economici invocano sempre più spesso la norma in questione per contestare qualsiasi normativa che abbia l’effetto di limitare la libertà di commercio. Secondo la Corte, invece, le norme attinenti alle modalità di vendita non sono idonee ad ostacolare gli scambi, quando esse si applichino a tutti gli operatori del settore.
Anche le sezioni unite della Cassazione (sentenza n. 9129 del 4 novembre 1994) hanno escluso che sia configurabile un diritto soggettivo all’apertura domenicale dei negozi riconducibile all’art. 30 del trattato UE, dal momento che il divieto di svolgimento dell’attività commerciale di domenica è una misura statale che non ricade nel campo di applicazione della stessa disposizione, poiché non provoca discriminazione, neppure dissimulata, fra prodotti nazionali e non.
Inoltre, la Corte afferma che le norme nazionali conferiscono alla P.A. un livello di discrezionalità, nell’esercizio del potere di disporre la chiusura domenicale, rispetto al quale i privati sono unicamente titolari dell’interesse legittimo a che esso sia esercitato in modo conforme alle leggi speciali in questione ed alle norme generali sull’azione amministrativa.
La stessa Corte Costituzionale si è più volta espressa per definire i rapporti tra competenze statali e regionali nelle materie di più incerto confine, quale quella in questione.
Con sentenza 13 gennaio 2004, n. 14, la Corte ha riconosciuto che la materia della concorrenza non presenta i caratteri di una materia di estensione certa, ma quelli di una funzione esercitabile sui più diversi oggetti.
Tuttavia, una dilatazione massima di tale competenza rischierebbe di vanificare lo schema di riparto dell’art. 117 Cost., che vede attribuite alla potestà legislativa residuale e concorrente delle Regioni materie la cui disciplina incide innegabilmente sullo sviluppo economico. Per stabilire la linea di confine tra il principio autonomistico e quello della riserva allo Stato della competenza trasversale in materia di concorrenza, occorre, secondo la Corte, utilizzare un criterio sistematico ed elaborare un criterio di ragionevolezza che consenta alle diverse competenze, regionali e nazionali, di convivere.
In tale prospettiva, proprio l’inclusione di questa competenza statale nella lettera e) dell’art. 117, secondo comma, Cost., evidenzia l’intendimento del legislatore costituzionale del 2001 di unificare in capo allo Stato strumenti di politica economica che attengono allo sviluppo dell’intero Paese. L’intervento statale si giustifica, dunque, per la sua rilevanza macroeconomica, mentre non riguardano la programmazione economico-finanziaria dello Stato gli interventi di carattere localistico o microsettoriale, quindi non qualificabili come macroeconomici, tali da non creare ostacolo alla libera circolazione delle persone e delle cose fra le regioni e da non limitare l’esercizio del diritto al lavoro in qualunque parte del territorio nazionale (art. 120, comma 1, Cost.).
In questa seconda categoria rientrano sicuramente le fattispecie oggetto della segnalazione antitrust in argomento.
Anche con la sentenza n. 401 del 19 novembre 2007, la Corte ha ribadito come sia essenziale il criterio della proporzionalità e dell’adeguatezza per definire l’ambito di operatività della competenza legislativa statale attinente alla “tutela della concorrenza” e conseguentemente la legittimità dei relativi interventi statali.
Per la Corte, la nozione di concorrenza, riflettendo quella operante in ambito comunitario, include in sé sia interventi “di regolazione e ripristino di un equilibrio perduto”, sia interventi mirati a ridurre gli squilibri attraverso la creazione delle condizioni per l’instaurazione di assetti concorrenziali. Rientrano, pertanto, nell’ambito materiale in esame le misure di garanzia del mantenimento di mercati già concorrenziali e gli strumenti di liberalizzazione dei mercati stessi.
La tutela della concorrenza si concretizza, in primo luogo, nell’esigenza di assicurare la più ampia apertura del mercato a tutti gli operatori economici del settore, in ossequio ai principi comunitari della libera circolazione delle merci, della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi.
La nozione comunitaria di concorrenza è definita come concorrenza “per” il mercato, la quale impone che il contraente venga scelto mediante procedure di garanzia che assicurino il rispetto dei valori comunitari e costituzionali sopra indicati.
Ciò non significa che non sussistano concomitanti esigenze di assicurare la cosiddetta concorrenza “nel” mercato attraverso la liberalizzazione dei mercati stessi, che si realizza, tra l’altro, mediante l’eliminazione di diritti speciali o esclusivi concessi alle imprese.
Ancor più specificamente attinente alla materia del Commercio è la sentenza n. 430 del 10 dicembre 2007, con la quale la Corte ha riaffermato come la materia della tutela della concorrenza non sia una “materia di estensione certa”, ma presenti i tratti “di una funzione esercitabile sui più diversi oggetti” e configurabile come “trasversale”. Queste peculiarità, da un lato, comportano che la tutela della concorrenza “influisce necessariamente anche su materie attribuite alla competenza legislativa, concorrente o residuale, delle Regioni”, dall’altro, impongono che la riserva allo Stato della competenza trasversale in materia di concorrenza sia in sintonia con l’ampliamento delle competenze regionali a seguito della modifica del Titolo V Cost.
Secondo la Corte, una volta che una norma sia ricondotta alla “tutela della concorrenza”, non si tratta di valutare se essa sia o meno di estremo dettaglio, ma “occorre invece accertare se, alla stregua del succitato scrutinio, la disposizione sia strumentale ad eliminare limiti e barriere all’accesso al mercato ed alla libera esplicazione della capacità imprenditoriale”.
Infine, con la sentenza n. 443 del 12 dicembre 2007, la Corte ha ricordato come materie quali la “tutela della concorrenza” o la “tutela dell’ambiente” siano contrassegnate più che da una omogeneità degli oggetti delle diverse discipline, dalla forza unificante della loro funzionalità finalistica, con i limiti oggettivi di proporzionalità ed adeguatezza, più volte indicati dalla Corte stessa.

Osservazioni sintetiche nel merito

In primo luogo occorre premettere che ormai diverse Regioni hanno disciplinato la materia del Commercio esercitando la propria competenza esclusiva, per cui il tema degli orari degli esercizi commerciali non può più sempre essere ricondotto al criterio della distinzione dei comuni in turistici (o d’arte) e non.
Ed allora: o si ritiene che la potestà regionale garantita dalla Costituzione non debba in questa materia potersi permettere di discostarsi da previgenti regimi statali, per loro stessa natura omogenei sul territorio proprio perché nazionali, e si va così a mettere in crisi un principio che informa il nuovo Titolo V così come riformulato dalla L.Cost. n 3/2001, oppure si ritiene che l’attività del legislatore regionale sia legittima ed allora la stessa va valutata oggettivamente e nel merito, sulla base degli effetti che la stessa, in modo documentato ed ex-post, dimostra di avere sull’equilibrio concorrenziale del mercato.
In relazione alle singole censure dell’Autorità Garante:
1) Il d.lgs 114/1998 ha previsto una regolamentazione sia degli orari di apertura e chiusura degli esercizi commerciali, sia delle aperture e chiusure domenicali e festive.
In sostanza, il decreto ha introdotto il principio della libera determinazione dell’orario di apertura e chiusura da parte degli esercenti, nell’ambito di una regolamentazione regionale, avente come obiettivo principale l’omogeneizzazione sul territorio regionale del regime degli orari dei negozi, con particolare riguardo alle deroghe alle chiusure domenicali e festive, pur nel rispetto delle specifiche realtà locali.
E’ appena il caso di ricordare, in proposito, che il principio generale affermato dal d.lgs. 114/1998 è quello della chiusura domenicale e festiva degli esercizi e che le aperture costituiscono deroghe esercitabili in presenza delle condizioni stabilite dalla normativa regionale.
Insomma, se è vero che l’art. 12 del d.lgs 114/1998 ha liberalizzato l’orario di apertura degli esercizi commerciali nei comuni ad economia prevalentemente turistica e nelle città d’arte, è altresì vero che la stessa norma ha demandato alle Regioni l’individuazione degli uni e delle altre, nonché dei periodi di maggiore afflusso turistico nei quali applicare le deroghe agli orari di apertura e chiusura.
2) Per quanto riguarda l’obbligatoria chiusura degli esercizi commerciali in occasione di particolari festività religiose e civili, prevista da alcune normative regionali, occorre contestare che tale disposizione ponga un limite alla deroga all’obbligo di chiusura per gli esercizi commerciali al dettaglio in sede fissa sancita dall’art. 12, comma 1, del d.lgs n. 114/1998, tale da scoraggiare ed ostacolare l’attività imprenditoriale.
Tali obblighi di chiusura, infatti, previsti con carattere di generalità nei confronti di tutti gli esercizi commerciali, non sono in nessun caso inderogabili o indifferenziati, prevedendo tutte le normative regionali che li dispongono una competenza comunale in merito, in osservanza dei principi di sussidiarietà verticale, differenziazione ed adeguatezza sanciti dall’art. 118 della Costituzione.
D’altra parte, in tutte le leggi regionali che prevedono tali disposizione, scopo del legislatore è stato proprio quello di tutelare i diritti del lavoro, sia autonomo che dipendente, nonché la parità di condizioni competitive tra i piccoli esercizi verso i grandi, che hanno la possibilità di garantire l’apertura ricorrendo a personale stipendiato.
In punto di fatto, inoltre, si può eccepire che l’interesse collettivo perseguito dal legislatore regionale con tali norme sia ispirato all’esigenza di salvaguardare alcune festività religiose e civili che rivestono un particolare valore unanimemente condiviso nella nostra società e che, come tali, postulano anche momenti di raccoglimento, riflessione, quiete e riposo.
Le disposizioni regionali relative alla chiusura degli esercizi commerciali in tali festività religiose e civili costituiscono, dunque, attuazione di una scelta culturale, religiosa e socio-economica a tutela della persona come lavoratore, cittadino e come credente, che non stride con il principio comunitario e costituzionale di libera concorrenza (in questo senso anche Pretore Monza, 15 dicembre 1993).
Va, poi, sottolineato che la previsione di fasi concertative preliminari alle scelte, consente l’effettivo intervento nel procedimento a soggetti portatori di diritti costituzionalmente garantiti (artt. 35 e 36 Cost.) di rango non inferiore al diritto di libertà di iniziativa economica tutelato dall’art. 41 Cost.
Infine, non bisogna dimenticare che il legislatore nazionale, nel d.lgs. 114/1998, non ha demandato alle Regioni la sola individuazione dei comuni e degli ambiti a prevalente economia turistica, ma anche la durata dei periodi nei quali gli esercenti possono restare aperti: di conseguenza; appare pienamente legittimo anche sotto questo profilo l’avere individuato alcune chiusure obbligatorie in occasione di specifiche festività.
3) Per quanto concerne l’applicazione della liberalizzazione di cui all’art. 13, comma 1, del d.lgs. 114/1998, l’Autorità ha censurato l’individuazione effettuata da alcune Regioni di un canone ermeneutico per valutare la prevalenza di un’attività di vendita rispetto ad un’altra, contestando la discrezionalità nell’adozione di una definizione di “prevalenza” diversa da quella richiamata come “l’unica soluzione che si ritiene auspicabile dal punto di vista antitrust” ossia quella adottata da una circolare del Ministero dell’industria, del commercio e dell’artigianato, che calcola la prevalenza sulla base del volume d’affari totale dell’esercizio commerciale, riconoscendo tale prevalenza quando, con la vendita di generi appartenenti alle tipologie previste dalla norma statale, venga superata la soglia del 50% di fatturato complessivo dell’esercizio commerciale.
E’ indubbio che detta chiave interpretativa corrisponda ad un’interpretazione “rigida”, essendo dimostrabile solo documentalmente, attraverso gli scontrini fiscali.
Si osserva in proposito che ancora una volta l’Autorità sembra dimenticare completamente la gerarchia delle fonti e sottomettere le scelte politico-istituzionali delle Regioni al dettato di atti quali sono le Circolari ministeriali.
Ci si chiede, inoltre, come possa la censurata interpretazione della prevalenza creare una lesione alla concorrenza, posto che essa viene applicata a tutti gli esercizi operanti sul territorio regionale.
Si ricorda, infine, che il criterio contestato fu adottato da alcune Regioni, proprio in considerazione della difficoltà che avrebbero avuto gli agenti di polizia municipale ad accertare la prevalenza basata sulla fatturazione, stante la necessità di effettuare controlli di tipo contabile e fiscale, che avrebbero reso più lungo, macchinoso ed oneroso il compito degli agenti.
Semmai, su un piano di opportunità, l’Autorità avrebbe potuto invitare il Coordinamento delle Regioni ad adottare, secondo le proprie potestà, una definizione univoca, ma sarebbe stata ben altra la strada da percorrere istituzionalmente.
In conclusione, mentre non può accettarsi l’interpretazione dell’Autorità secondo la quale, considerando gli artt. 12 e 13 del d.lgs. 114/1998 norme aventi carattere pro-concorrenziale, sussisterebbe un obbligo di disapplicazione della regolamentazione regionale o locale in contrasto con tali norme, l’affermazione apodittica dell’Autorità, secondo la quale “la liberalizzazione degli orari e dei giorni di apertura al pubblico degli esercizi commerciali…favorisce, a beneficio dei consumatori, la creazione di un mercato più dinamico e più aperto all’ingresso di nuovi operatori”, merita un ben diverso approfondimento, nell’ambito di problematiche molto complesse.
In quest’ottica, le posizioni dell’Antitrust, le valutazioni del Ministero dello Sviluppo Economico e le determinazioni delle Regioni si ritiene debbano essere oggetto di approfondimento in sede di Conferenza Stato-Regioni, in un’ottica di confronto e di leale collaborazione che conduca all’individuazione di elementi comuni che consentano omogeneità di soluzioni a problemi condivisi.

Roma, 21 maggio 2009.