Sentenza 30 settembre 1996, n.334
Corte costituzionale. Sentenza 30 settembre 1996, n. 334: “Giuramento decisorio nel processo civile (art. 238 c.p.c.)”.
(Ferri; Zagrebelsky)
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: avv. Mauro FERRI;
Giudici: prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA, prof. Carlo MEZZANOTTE,
ha pronunciato la seguente
Sentenza
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 238 del codice di procedura civile, promosso con ordinanza emessa il 17 novembre 1995 dal Tribunale di Forlì nel procedimento civile vertente tra Nanni Sabrina e Guardigli Mauro, iscritta al n. 942 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 4, prima serie speciale, dell’anno 1996.
Udito nella camera di consiglio del 10 luglio 1996 il Giudice relatore Gustavo Zagrebelsky.
(omissis)
Considerato in diritto
1. — Il Tribunale di Forlì solleva questione di legittimità costituzionale sull’art. 238, secondo comma, del codice di procedura civile, là dove prevede che la parte cui è stato deferito il giuramento decisorio pronuncia le parole: “consapevole della responsabilità che col giuramento assumo davanti a Dio e agli uomini, giuro …”.
Ritiene il giudice rimettente che l’anzidetta formula di prestazione del giuramento confligga col diritto costituzionale di libertà religiosa, di cui agli articoli 2, 3, e 19 della Costituzione, e violi il principio costituzionale di uguaglianza sotto il profilo della razionalità, risultante anch’esso dall’art. 3 della Costituzione, stante la diversa formula oggi vigente per quello che, prima della sentenza n. 149 del 1995 di questa Corte, era il giuramento del testimone nel processo civile di cui all’art. 251, secondo comma, cod. proc. civ.
2. — La questione è fondata sotto il primo dei due profili indicati.
3. — Sebbene il giudice rimettente prospetti l’anzidetta questione di legittimità costituzionale in riferimento al rispetto della libertà di coscienza del non credente, il problema che viene posto ha portata generale.
3.1. — Gli articoli 2, 3 e 19 della Costituzione garantiscono come diritto la libertà di coscienza in relazione all’esperienza religiosa. Tale diritto, sotto il profilo giuridico-costituzionale, rappresenta un aspetto della dignità della persona umana, riconosciuta e dichiarata inviolabile dall’art. 2. Esso spetta ugualmente tanto ai credenti quanto ai non credenti, siano essi atei o agnostici (sentenza n.117 del 1979) e comporta la conseguenza, valida nei confronti degli uni e degli altri, che in nessun caso il compimento di atti appartenenti, nella loro essenza, alla sfera della religione possa essere l’oggetto di prescrizioni obbligatorie derivanti dall’ordinamento giuridico dello Stato. La libertà di professione religiosa, riconosciuta in ogni sua forma senza altro limite che non sia quello del buon costume, non significa infatti soltanto “libertà da ogni coercizione che imponga il compimento di atti di culto propri di questa o quella confessione da parte di persone che non siano della confessione alla quale l’atto di culto, per così dire, appartiene”: essa esclude, in generale, ogni imposizione da parte dell’ordinamento giuridico statale “perfino quando l’atto di culto appartenga alla confessione professata da colui al quale esso sia imposto, perché non è dato allo Stato di interferire, come che sia, in un ‘ordiné che non è il suo, se non ai fini e nei casi espressamente previsti dalla Costituzione” (sentenza n. 85 del 1963).
Non si tratta dunque soltanto della coscienza – e della sua protezione – dei non credenti, i quali non possono essere obbligati al compimento di atti il cui significato contrasti con le loro convinzioni, è in causa la natura stessa dell’essere religioso, ciò che, nell’ordine civile, per l’ordinamento costituzionale può essere solo manifestazione di libertà. Qualunque atto di significato religioso, fosse pure il più doveroso dal punto di vista di una religione e delle sue istituzioni, rappresenta sempre per lo Stato esercizio della libertà dei propri cittadini: manifestazione di libertà che, come tale, non può essere oggetto di una sua prescrizione obbligante, indipendentemente dall’irrilevante circostanza che il suo contenuto sia conforme, estraneo o contrastante rispetto alla coscienza religiosa individuale.
In ordine alla garanzia costituzionale della libertà di coscienza non contano dunque i contenuti. Credenti e non credenti si trovano perciò esattamente sullo stesso piano rispetto all’intervento prescrittivo, da parte dello Stato, di pratiche aventi significato religioso: esso è escluso comunque, in conseguenza dell’appartenenza della religione a una dimensione che non è quella dello Stato e del suo ordinamento giuridico, al quale spetta soltanto il compito di garantire le condizioni che favoriscano l’espansione della libertà di tutti e, in questo ambito, della libertà di religione.
3.2. — All’anzidetta configurazione costituzionale del diritto individuale di libertà di coscienza nell’ambito della religione e alla distinzione dell’ “ordine” delle questioni civili da quello dell’esperienza religiosa corrisponde poi, rispetto all’ordinamento giuridico dello Stato e delle sue istituzioni, il divieto di ricorrere a obbligazioni di ordine religioso per rafforzare l’efficacia dei propri precetti. Quella distinzione tra “ordini” distinti, che caratterizza nell’essenziale il fondamentale o “supremo” principio costituzionale di laicità o non confessionalità dello Stato, quale configurato numerose volte nella giurisprudenza di questa Corte (sentenze nn. 203 del 1989 e 195 del 1993), significa che la religione e gli obblighi morali che ne derivano non possono essere imposti come mezzo al fine dello Stato.
4. — Considerato che il giuramento nella cui formula sia compreso il riferimento alla responsabilità che si assume davanti a Dio, pur non essendo qualificabile come atto di culto (sentenza n. 85 del 1963), è tuttavia certamente un atto avente significato religioso (sentenza n. 117 del 1979) che chiama in causa la coscienza individuale in materia di religione, ne deve essere riconosciuta l’illegittimità costituzionale, conformemente all’orientamento di questa Corte in materia di formule di prestazione del giuramento (sentenza n. 117 del 1979).
Il “giuramento decisorio” di cui è qui questione, pur non potendosi dire propriamente imposto dalla legge – in quanto la parte cui è “deferito” può rifiutarsi di prestarlo ovvero può “riferirlo” alla controparte – è pur sempre l’oggetto di una prescrizione legale alla quale la parte si trova sottoposta, con conseguenze negative: se si rifiuta di prestarlo, soccombe rispetto alla domanda o al punto di fatto per cui il giuramento è stato ammesso; se lo riferisce all’altra parte, rinuncia alla possibilità di affermare nel processo la verità attraverso un proprio atto capace di formare prova legale assoluta. Per questo motivo, la libertà della coscienza in materia di religione risulta violata.
Ma è altresì violata la distinzione, imposta dal principio di laicità o non confessionalità dello Stato, tra l’ “ordine” delle questioni civili e l’ “ordine” di quelle religiose. Il primo comma dell’art. 238 cod. proc. civ. stabilisce che un organo dello Stato, il giudice, deve “ammonire” il giurante sulla “importanza religiosa” del giuramento e l’impugnato secondo comma del medesimo articolo prevede che la parte deve esprimere la propria consapevolezza circa la responsabilità che col giuramento assume “davanti a Dio”. Risulta così dalle norme richiamate un’inammissibile commistione: un’obbligazione di natura religiosa e il vincolo che ne deriva nel relativo ambito sono imposti per un fine probatorio proprio dell’ordinamento processuale dello Stato.
5.– Non sussiste invece la prospettata violazione dell’art. 3 della Costituzione, nei termini di un’irrazionale differenza di disciplina tra la formula del giuramento decisorio e la formula che il testimone è tenuto a pronunciare, a norma dell’art. 251 cod proc. civ., quale risulta dalla sentenza n. 149 del 1995 di questa Corte. Con tale prospettazione si va al di là della questione della conformazione della formula del giuramento ai principi costituzionali di libertà e si mira esplicitamente all’abolizione del giuramento e alla sua sostituzione con una semplice dichiarazione d’impegno a dire la verità, così come è richiesto al testimone.
5.1. — A una simile operazione, innanzitutto, osta la diversità degli istituti a raffronto. Con la citata sentenza n. 149 del 1995, si è potuto operare l’estensione della nuova disciplina dettata per i testimoni nel processo penale (art. 497, comma 2, cod. proc. pen.) ai testimoni nel processo civile poiché la testimonianza, in entrambe le sedi processuali, presenta le medesime caratteristiche essenziali. Ma qui si chiede un’equiparazione tra istituti eterogenei. Il giuramento del testimone e l’impegno che ne ha preso il posto hanno carattere promissorio (“giuro o prometto che dirò la verità”) mentre il giuramento decisorio ha carattere assertorio (“giuro che…”, dove il segno di sospensione sta per la formula che indica il “fatto proprio della parte o la conoscenza che essa ha di un fatto altrui” – art. 2739, secondo comma, cod. civ. -). Col primo giuramento, si assume un obbligo personale che richiede un adempimento da parte del promittente (il dire la verità); col secondo, non si promette nulla ma si assevera la verità di un fatto storicamente accaduto. Si comprende allora come non sia possibile sostituire la formula del giuramento della parte con quella che, a norma dell’art. 251 cod. proc. civ., vale per il testimone (“Consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con la mia deposizione, mi impegno a dire tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto è a mia conoscenza”). Una tale sostituzione presupporrebbe una trasformazione del giuramento decisorio in qualcosa di completamente diverso cioè, per l’appunto, in una testimonianza di parte. La formula del giuramento decisorio ben potrebbe essere diversa dall’attuale, ma non potrebbe dunque essere la medesima prevista per la testimonianza. Se la si volesse riscrivere, stante la pluralità di opzioni alternative, non potrebbe certo essere la Corte costituzionale a farlo.
5.2. — Inoltre, la prospettata sostituzione del giuramento con una dichiarazione d’impegno quale oggi richiesta dai testimoni nel processo penale e civile rappresenterebbe un eccesso, rispetto a quanto è costituzionalmente dovuto. La Costituzione, per i motivi innanzi esposti, fa divieto di utilizzare formule di giuramento che possano ledere la libertà di coscienza del giurante, ma tanto poco esclude il giuramento come tale che lo prevede essa stessa, sia pure in relazione a situazioni diverse da quelle ora in esame (si vedano gli articoli 54, 91 e 93, nonché l’art. 5 della legge 11 marzo 1953, n. 87). Questa Corte, infatti, con la sentenza n. 117 del 1979, ritenuta lesiva del diritto di libertà di coscienza del non credente la formula originariamente prevista per il testimone dall’art. 251, secondo comma, cod. proc. civ., ha soltanto inciso su tale formula con la riserva del “se credente” apposta all’obbligazione di ordine religioso, presupponendo la compatibilità con la Costituzione del giuramento come tale. Ed è ben vero che la già richiamata, successiva sentenza n. 149 del 1995, nella dichiarazione preliminare che il testimone nel processo civile è tenuto a rendere, ha sostituito la formula d’impegno a quella del giuramento; ciò tuttavia ha fatto non a causa dell’incostituzionalità del giuramento come tale, ma per un’esigenza di razionalità e coerenza dell’ordinamento giuridico, una volta operata tale sostituzione nel processo penale in conseguenza di una libera scelta del legislatore.
6. — Le anzidette considerazioni spiegano come alla rilevata incostituzionalità della formula del giuramento decisorio non possa porsi rimedio attraverso una pronuncia analoga a quella contenuta nella sentenza n. 149 del 1995.
6.1. — Ciò che invece occorre è eliminare dalla formula prevista dall’impugnato articolo 238 cod. proc. civ. quanto attribuisce al giuramento della parte un necessario significato religioso. Questo non equivale a “secolarizzarne” il significato. Un’eventuale statuizione in tal senso, a sua volta, potrebbe confliggere con la coscienza dei credenti, rispetto ai quali il valore religioso del giuramento non può essere escluso. Significa invece operare nel senso di un ordinamento pluralista che, riconoscendo la diversità delle posizioni di coscienza, non fissa il quadro dei valori di riferimento e quindi né attribuisce né esclude connotazioni religiose al giuramento ch’esso chiama a prestare.
A questo esito non è di ostacolo quanto talora sostenuto circa una pretesa ineliminabile essenza religiosa del giuramento, cosicché esso, se non contenesse l’appello a Dio, sommo e infallibile giudice anche delle colpe interiori che sfuggono alla giustizia degli uomini, non sarebbe nulla. Ancorché si ritenga che la matrice religiosa sia quella originaria, il giuramento ha dimostrato la sua capacità di sopravvivere alla secolarizzazione della vita pubblica, adattandosi a contesti culturali sia pluralistici che a- o anti-religiosi, come non solo la storia comparata degli ordinamenti, ma anche i precedenti legislativi italiani ampiamente documentano. La legge 30 giugno 1876, n. 3184, infatti, stabiliva, per i diversi giuramenti previsti nel processo civile e penale, una formula incentrata principalmente sull’importanza morale dell’atto, mentre il vincolo religioso veniva rammentato solo in quanto il pronunciante fosse credente. A una soluzione di questo genere si è accostata in passato questa stessa Corte, con la sentenza n. 117 del 1979, là dove, con l’introduzione dell’inciso “se credente”, ha riferito il valore religioso dell’obbligazione morale che il giuramento comporta soltanto a coloro i quali avvertono un vincolo nei confronti di Dio, nella medesima prospettiva indicata nella sentenza n. 58 del 1960 ove si è affermato che, nel sistema adottato dal legislatore italiano, il giuramento non ha quel prevalente carattere di religiosità che da taluno si vorrebbe a esso attribuire.
Naturalmente, il venir meno di un contesto culturale unitario che consenta di attribuire al giuramento un condiviso significato religioso ne comporta una relativizzazione e un certo affievolimento di valore (ciò che spiega la preferenza del legislatore attuale a far uso di formule di impegno diverse dal giuramento). Tale significato, da etico-sociale qual’era originariamente, diventa morale-individuale, in quanto finisce per dipendere dal riferimento che ciascuno faccia, in coscienza e secondo la sua visione del mondo, a quanto considera di più impegnativo e degno di osservanza. Con tale evocazione, colui che presta giuramento viene a conferire al suo eventuale spergiuro un sovrappiù di negatività e gravità rispetto a chi formula una semplice promessa, assumendosi la responsabilità morale che deriva dalla violazione dei dettami ultimi della propria coscienza. In questo, il giuramento è irriducibile ad altre formule impegnative e si comprende che l’ordinamento giuridico possa avvalersene, imponendone la prestazione quando i cittadini vengano chiamati a compiere atti o a svolgere funzioni di particolare rilevanza per la collettività.
6.2. — Poiché la libertà di coscienza di chi sia chiamato a prestare il giuramento previsto dall’art. 238 cod. proc. civ. comporta che la determinazione del contenuto di valore ch’esso implica sia lasciata, per l’appunto, a quanto avvertito dalla coscienza, la dichiarazione d’incostituzionalità del riferimento alla responsabilità che si assume davanti a Dio deve estendersi anche al riferimento alla responsabilità davanti agli uomini. Ciò non solo perché, altrimenti, dalla dichiarazione d’incostituzionalità dei soli riferimenti alla divinità potrebbe apparire sancita una sorta di religione dell’umanità, ma anche perché, mantenendosi il riferimento a un solo contenuto di valore, implicitamente si escluderebbero tutti gli altri, con violazione della libertà di coscienza dei credenti, per i quali il giuramento, del tutto legittimamente, ha un significato religioso.
6.3. — In via conseguenziale, a norma dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, la presente dichiarazione d’incostituzionalità deve estendersi inoltre al primo comma, seconda proposizione, dell’art. 238 cod. proc. civ., nella parte in cui prevede che il giurante sia ammonito dal giudice circa l’importanza religiosa del giuramento. Tale previsione, infatti, è inscindibile da quella contenuta nel secondo comma, circa la responsabilità davanti a Dio che l’atto comporta. Cadendo quest’ultima, deve cadere anche la prima.
7.– La pronuncia che si rende necessaria alla stregua delle considerazioni che precedono comporta una dichiarazione d’incostituzionalità parziale dell’art. 238 cod. proc. civ. dalla quale esso risulta modificato come segue: (primo comma, seconda proposizione) “Questi [il giudice istruttore] ammonisce il giurante sull’importanza morale dell’atto e sulle conseguenze penali delle dichiarazioni false, e quindi lo invita a giurare”; (secondo comma): “Il giurante, in piedi, pronuncia a chiara voce le parole: “consapevole della responsabilità che col giuramento assumo, giuro…”, e continua ripetendo le parole della formula su cui giura”
L’eliminazione dalla disposizione in esame delle parti incostituzionali opera altresì – in virtù del rinvio contenuto nell’art. 243 cod. proc. civ. e senza necessità di ulteriori dichiarazioni d’incostituzionalità – in riferimento al giuramento deferito d’ufficio (artt. 240 e 241 cod. proc. civ.).
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 238, secondo comma, del codice di procedura civile, limitatamente alle parole “davanti a Dio e agli uomini”;
dichiara, in applicazione dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale dell’art. 238, primo comma, seconda proposizione, del codice di procedura civile, limitatamente alle parole “religiosa e”.
Autore:
Corte Costituzionale
Dossier:
Libertà religiosa
Nazione:
Italia
Parole chiave:
Laicità, Libertà di coscienza, Professione religiosa, Processo civile, Formula, Credente, Convinzioni, Non confessionalità, Secolarizzazione
Natura:
Sentenza