Sentenza 30 ottobre 2009, n.41819
Corte di Cassazione. Sezione Sentenza 30 ottobre 2009, n, 41819: "Propaganda di idee fondate sull’odio razziale o etnico".
(omissis)
Con sentenza del 30.1.2007, la Corte d’appello di Venezia, a seguito di gravame proposto avverso la decisione del tribunale della medesima città pronunciata in data
2.12.2004, così decideva: assolveva per l’insussistenza del fatto B. M., C. L., Co. En., F. M., T. B. e T. F. dall’addebito di avere incitato i pubblici amministratori di
Verona a commettere atti di discriminazione razziale ed etnici nei confronti degli zingari Sinti; rideterminava la pena inflitta per l’altro addebito agli stessi contestato
– propaganda di idee discriminatorie – in mesi due di reclusione per ciascun imputato; confermava la pena accessoria del divieto di partecipare in qualsiasi forma ad
attività di propaganda elettorale per le elezioni politiche ed amministrative per anni tre; riduceva la liquidazione del danno e confermava nel resto la sentenza impugnata La Corte territoriale ribadiva dunque l’affermazione di colpevolezza dei prevenuti in ordine al delitto di cui all’art. 110 c.p. e l. n. 654 del 1975, art. 3, co. 1, lett. a), come modificata dalla l. n. 205 del 1993, per avere, agendo in concorso tra loro, propagandato, anche con l’affissione di manifesti, idee basate sulla superiorità e l’odio razziale nei confronti degli zingari Sinti: fatto commesso in […].
La Corte, dopo avere richiamato la motivazione del tribunale nonché le conclusioni della consulenza disposta dal P.M. al fine di stabilire le moderne nozioni di razzismo
e discriminazione razziale, dopo aver premesso che gli zingari sono da considerare un etnia – e, quindi, come tale, possibile oggetto di riferimento della fattispecie
contestata – e, dopo avere aggiunto che nell’interdetto antirazzista si dovevano comprendere anche fenomeni di cosiddetto razzismo implicito, osservava che gli
imputati avevano agito al fine di propagandare la superiorità etnica e comunque l’odio razziale nei confronti degli zingari. La Corte stessa motivava il proprio convincimento
con argomentazioni che possono così riassumersi: a) il fine perseguito dagli imputati, cioè quello di propagandare l’odio razziale, era desumibile dal contenuto
dei manifesti e dagli slogan, nonché dal fatto che i manifesti erano stati apposti anche in Comuni diversi da quello di […] e dalla deposizione della teste Br., la quale, tra l’altro, aveva dichiarato che il T. F. in una riunione aveva affermato che la città doveva essere “inospitale nei confronti degli zingari perchè dove arrivavano c’erano furti”; b) l’assoluzione degli imputati dal delitto di incitamento degli amministratori alla discriminazione mediante la richiesta di allontanamento incondizionato degli zingari, trovava fondamento nel contenuto della petizione che non era di per sé illecito, per cui, contrariamente all’assunto del tribunale, non poteva considerarsi integrata la fattispecie dell’incitamento; c) in definitiva, gli imputati con l’affissione dei manifesti si erano prefissi, non solo uno scopo “propedeutico” all’oggetto della petizione, ma anche quello più vasto di propagandare idee dirette a mandare via gli zingari in quanto tali e comunque a discriminarli.
Proponevano ricorso per cassazione i difensori degli imputati sulla base di due motivi.
Con il primo denunciavano la violazione della norma incriminatrice nonché dell’art. 14 disp. gen. per l’applicazione analogica di una norma penale, il cui significato,
anche letterale, sarebbe stato stravolto. Con il secondo lamentavano mancanza e contraddittorietà della motivazione nonché carenze motivazionali per avere
la Corte omesso di esaminare le deduzioni contenute nell’atto di appello […].
La terza sezione penale di questa Corte, con sentenza n. 13234/08, pronunciata in data 13.12.2007, accoglieva il ricorso, ritenendolo “largamente fondato specialmente
con riferimento al secondo motivo”. In estrema sintesi, la Cassazione ravvisava una contraddittorietà di motivazione così testualmente esprimendosi: “Invero il contenuto del manifesto, se lo si esamina a prescindere dal tenore della petizione, evidenzia elementi potenzialmente discriminatori. Esso però, contrariamente all’assunto della Corte, non può essere scisso dal contesto della vicenda nella quale va inserito. Sicché, trattandosi di una valutazione di merito da effettuare valutando tutte le circostanze del caso, anche e soprattutto per individuare il dolo propagandistico discriminatorio, spetta alla Corte territoriale, che ha ritenuto lecita la petizione, stabilire se possa configurarsi una responsabilità dei prevenuti per il solo reato di propaganda discriminatoria nonostante l’assoluzione per l’insussistenza del fatto dal delitto di incitamento a compiere atti discriminatori, posto che secondo la formulazione della contestazione la propaganda era rivolta proprio a sostenere l’atto ritenuto lecito dalla corte […]”.
La Corte d’appello di Venezia, in sede di rinvio, dopo aver richiamato i principi enunciati nella giurisprudenza di legittimità in tema di rapporti tra decisione della Suprema Corte e poteri del giudice di rinvio […] confermava l’affermazione di colpevolezza per il reato di propaganda discriminatoria, ripetendo le statuizioni sanzionatorie
e di natura civilistica di cui alla sentenza annullata dalla Cassazione […].
Ricorrono per Cassazione tutti gli imputati, con unico atto di impugnazione, deducendo violazione di legge e vizio di motivazione, con diffuse ed articolate argomentazioni
che possono così riassumersi: 1) violazione dell’art. 627 c.p.p., co. 3, in relazione all’art. 606 c.p.p., co. 1, lett. c). La Corte territoriale avrebbe disatteso il decisum del giudice di legittimità, con particolare riferimento alla nozione di discriminazione ed al dolo richiesto per il delitto di propaganda […]. 2) Vizio motivazionale e violazione dell’art. 522 c.p.p. Avrebbe errato la Corte distrettuale a prendere in esame, e a tenerne conto ai fini probatori, elementi fattuali estranei al capo di imputazione […]. 3) Violazione dell’art. 43 c.p. in relazione all’art. 606 c.p.p., co. 1, lett. b). Reiterando concetti già espressi con gli argomenti addotti a sostegno del primo motivo di ricorso, relativamente all’elemento psicologico, i ricorrenti assumono che la Corte distrettuale avrebbe ritenuto sussistente il reato muovendo dal presupposto che “la propaganda, se si fosse realizzata, avrebbe significato la lesione di più diritti fondamentali delle persone appartenenti alle comunità zingare, confondendo l’effetto con la causa” (così testualmente a pag. 16 del ricorso), dando rilievo ad una discriminazione, deprecabile quanto si vuole, ma non ispirata da odio o da superiorità […].
Motivi della decisione
[…] i ricorsi devono essere rigettati per le ragioni di seguito precisate. Questa Corte aveva annullato la precedente sentenza della Corte d’appello di Venezia, evidenziando
che i giudici del merito avrebbero dovuto esaminare e valutare il contenuto del manifesto, pur potenzialmente discriminatorio, in relazione al contesto globale della vicenda nella quale risultava inserito, e sottolineando, altresì, che la Corte territoriale, in sede di rinvio, avrebbe dovuto tener conto di tutte le circostanze fattuali acclarate, e procedere ad un vaglio complessivo degli elementi probatori acquisiti, al fine di stabilire “se possa configurarsi una responsabilità dei prevenuti per il solo reato di propaganda discriminatoria nonostante l’assoluzione per l’insussistenza del fatto dal delitto di incitamento a compiere atti discriminatori, posto che secondo la
formulazione della contestazione la propaganda era rivolta proprio a sostenere l’atto ritenuto lecito dalla Corte”.
Giova innanzi tutto ricordare quelli che sono i poteri del giudice nel giudizio rescissorio, in conseguenza di una sentenza di annullamento con rinvio […]. Orbene, nella concreta fattispecie, il giudice del rinvio – ferma restando l’assoluzione degli imputati decisa con la sentenza poi annullata dalla Cassazione, in ordine al reato di incitamento a compiere atti discriminatori, non essendovi stata al riguardo impugnazione – ha effettuato una completa disamina di tutti gli elementi soggettivi ed oggettivi da valutare ai fini della conferma o meno della sentenza di condanna pronunciata in primo grado a carico degli imputati per il reato di odio razziale, seguendo puntualmente lo schema delineato da questa Corte con la sentenza di annullamento.
Ed invero la Corte distrettuale ha motivato il proprio convincimento con diffuse argomentazioni che possono cosi riassumersi: a) il contenuto letterale dei manifesti
– racchiuso nel messaggio “via gli zingari da casa nostra” – non lasciava spazio a dubbi di sorta circa il suo significato discriminatorio, non essendo in alcun modo
richiamata l’esigenza del ripristino della legalità che, secondo la tesi difensiva, era lo scopo della petizione; b) al di là del significato letterale delle frasi inserite nei
manifesti, anche il contesto temporale, ambientale e politico con riferimento alla campagna elettorale in atto – situazione in ordine alla quale la Cassazione, con la
sentenza di annullamento, aveva sollecitato uno specifico vaglio – deponeva per un atteggiamento discriminatorio ravvisabile nel contenuto dei manifesti, […].
Attraverso l’articolato e diffuso percorso argomentativo, quale sinteticamente sopra ricordato, la Corte distrettuale ha dunque adeguatamente risposto al quesito posto
con la sentenza di annullamento: vale a dire, la compatibilità, sul piano logico e probatorio, fra l’assoluzione dall’imputazione di incitamento (termine poi sostituito
con quello di istigazione con la successiva modifica legislativa) a commettere atti di discriminazione razziale e la condanna per il reato di propaganda (“diffusione”,
secondo la precedente formulazione normativa) di idee fondate sulla discriminazione e l’odio razziale, con particolare riferimento al contenuto dei manifesti il cui carattere
discriminatorio, in sé, era stato peraltro riconosciuto anche con la sentenza di annullamento.
Parimenti, la Corte stessa ha dato compiutamente conto del proprio convincimento relativamente alla ritenuta sussistenza della condotta discriminatoria degli imputati
nei confronti degli zingari, attenendosi alla nozione di “discriminazione” quale precisata nella sentenza di annullamento, così motivatamente pervenendo alla conclusione che l’intendimento desumibile dai manifesti era l’allontanamento di tutti gli zingari, e che lo scopo degli imputati non era dunque il ripristino della legalità;
convincimento espresso all’esito di una valutazione globale della vicenda, così come richiesto da questa Corte, ed ancorato a tutti gli elementi fattuali acquisiti, in
aggiunta al contenuto dei manifesti: i toni della campagna politica, le dichiarazioni rese alla stampa da T. F. e le manifestazioni di pensiero dallo stesso propagandate
in pubblico ed in presenza di altri coimputati, l’affissione dei manifesti anche al di fuori di […] la sottoscrizione della petizione anche da parte di cittadini non veronesi.
Argomentazioni che danno ampiamente conto, all’evidenza, anche della ritenuta sussistenza dell’elemento psicologico, che, con riferimento al reato “de quo”, deve
individuarsi nel dolo generico, a differenza delle condotte consistenti nel commettere atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi o nel
commettere violenza o atti di provocazione alla violenza per i medesimi motivi, cosi come precisato nella giurisprudenza di questa Corte: “In tema di atti di discriminazione
razziale od etnica, mentre le condotte consistenti nel propagandare idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico ovvero nell’istigare a commettere
atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi configurano ipotesi di reato a dolo generico, le condotte consistenti nel commettere atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi o nel commettere violenza o atti di provocazione alla violenza per i medesimi motivi configurano,
invece, reati a dolo specifico, in quanto in tali ultime ipotesi il motivo ispiratore eccede la condotta discriminatoria o violenta, mentre nel caso della propaganda o
dell’istigazione tale motivo è incluso nelle idee propagandate o negli atti discriminatori istigati” (in termini, “ex plurimis”, sez. III, n. 37581 del 7.5.2008 Ud.- dep.
3.10.2008 – imp. Mereu, Rv. 241074).
Nemmeno sussiste la denunciata violazione dell’art. 522 c.p.p. Ed invero, la decisione impugnata ha fatto corretto impiego del reiterato insegnamento di questa Corte,
anche a Sezioni unite (sent. n. 16, Di Francesco, del 22.10.1996), e quindi sempre ripetuto dalla giurisprudenza successiva in tema di difetto di correlazione, circa
la differenza tra fatto ritenuto in sentenza e contestazione, e di valutazione della reale sussistenza di lesione del diritto di difesa […].
Inoltre, va osservato che, nel caso di specie, l’impugnata sentenza appare caratterizzata dal costante richiamo alle risultanze processuali note all’imputato. […].
Tutte le ulteriori argomentazioni svolte con il ricorso, con riferimento al denunciato vizio di motivazione, presentano evidenti connotazioni di inammissibilità posto che
riguardano valutazioni probatorie incensurabili in questa sede in quanto sorrette da adeguata e logica motivazione, priva di qualsiasi profilo di illogicità come innanzi
si è già avuto modo di dire […].
Tenendo conto di tutti i principi testé ricordati, deve dunque concludersi che, nel caso di specie, le argomentazioni poste a base delle censure di vizio di motivazione
non valgono a scalfire la congruenza logica della complessiva motivazione impugnata, alla quale i ricorrenti hanno inteso piuttosto sostituire una loro perplessa visione
alternativa del fatto facendo riferimento all’art. 606 c.p.p., lett. e): pur asserendo di volere contestare l’omessa o errata ricostruzione di risultanze della prova dimostrativa, i ricorrenti, in realtà, hanno piuttosto richiesto a questa Corte un intervento in sovrapposizione argomentativa rispetto alla decisione impugnata, e ciò ai fini di una lettura della prova alternativa rispetto a quella, congrua e logica, fornita dalla Corte di merito.
Al rigetto dei ricorsi segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
I ricorrenti vanno altresì condannati a rifondere le spese in favore delle parti civili che si liquidano in complessivi euro 3.500,00, oltre accessori come per legge.
P.Q.M.
rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese in favore delle parti civili e liquida le stesse in complessivi
euro 3.500,00 oltre accessori come per legge.
Autore:
Corte di Cassazione - Penale
Dossier:
Italia, Unione europea, Paesi Unione europea, _Lotta alla discriminazione_
Nazione:
Italia
Parole chiave:
Divieto di discriminazione, Minoranze, Integrazione, Stranieri, Odio razziale, Rom, Società multietnica, Propaganda di idee fondate sulla superiorità, Reati contro l'ordine pubblico
Natura:
Sentenza