Sentenza 28 gennaio 1963
Corte d’Appello di Genova. Sentenza 28 gennaio 1963: “Reato di vilipendio e offesa generica a tutti coloro che professano un determinato culto”
(omissis)
Il P. g, come già il P. in. in primo grado, ha fondatamente rilevato che, nelle proposizioni incriminate a titolo di diffamazione invano si ricercherebbe l’attribuzione di un fatto determinato.
La circostanza aggravante preveduta dall’art. 13 della legge 8 febbraio 1948 n. 47 è stata perciò contestata erroneamente. La specie delittuosa realizzerebbe l’ipotesi meno grave del III comma dell’art. 595 cod. pen. ed al pari dell’altra ascritta al dott. D. per limiti di pena e per l’assenza di condizioni ostative di carattere soggettivo, rientrerebbe nell’ambito di applicazione del provvedimento di clemenza sopravvenuto. Peraltro premesso che nell’ampia formula e il fatto non è preveduto dalla legge come reato e, contenuto nel capov. Dell’art 152 del rito, deve comprendersi, in conformità allo spirito della norma, qualsiasi causa per cui non sia comminata sanzione, il preventivo accertamento della causa di non punibilità più favorevole (“il fatto non costituisce reato”), richiesto dall’imputato ai sensi della norma testé richiamata, è imposto, quanto al reato di vilipendio, dalla pronunzia dei primi Giudici, e, quanto alla diffamazione, dall’assenza dei motivi di gravame.
Poiché come si vedrà in prosieguo, la sentenza e sostanzialmente censurata per quanto ha ritenuto circa la direzione soggettiva delle offese, in questo senso la prima indagine deve essere indirizzata con criterio unitario per entrambe le incolpazioni. Per l’accusa originaria, contestata col decreto di citazione, sono destinatari del vilipendio “il culto ebraico” e “le forme di religione israelitica”.
Nella richiesta del P. m. al Giudice istruttore si. spiega che l’offesa al culto, sanzionata dell’art. 406 cod. pen., in relazione all’art. 403 stesso codice, si è realizzata vilipendendo tutti gli ebrei “come collettività religiosa” e si soggiunge, con riferimento alla diffamazione, che l’offesa collettiva colpisco anche i singoli membri e pertanto, nella specie, l’insulto alla comunità israelitica aveva aggredito anche la reputazione del querelante dott. F. “di razza e religione ebraica”.
Alla sfera personale di costui, considerata, come si e visto, nell’integrazione dibattimentale dell’incolpazione, non si è pervenuti attraverso un riferimento specifico che lo riguardi, ma bensì mediante questo procedimento deduttivo l’offesa attiene a tutti gli ebrei, il dott. F. è ebreo, quindi gli insulti lo toccano “particolarmente”.
Alla stessa costruzione ricorre il P. g. allorché nei motivi di gravame sostiene che l’offesa rivolta alla generalità degli ebrei, senza eccezione alcuna, offende necessariamente ogni singolo ebreo e nella specie, poi, la taccia e d’impossibilità a giudicare e postulerebbe una specifica direzione dell’insulto verso gli israeliti investiti delle funzioni di magistrati ed in particolare verso i giudici italiani ebrei, che sono poche unità inequivocabilmente identificabili ed identificate.
Nella discussione orale, infine, la categoria dei magistrati israeliti, investiti dal vilipendio, si è ristrette ai giudici di Eichmann.
Giova subito rilevare che tali determinazioni nell’ambito della comunità ebraica, non esclusa l’ultima, non vogliono e comunque non potrebbero, per l’ostacolo che deriva dall’art. 477 del rito panale, ampliare l’incolpazione, che resta sempre quella sii espressa, anche perchè, d’altra parte, costituisce l’esatta individuazione del contenuto dello scritto e dell’intendimento dell’autore.
Il quale, come emerge dall’espositiva ai giudici di quel processo (con una proposizione che neppure si è riportata o è stata richiamata nel capo d’accusa o nelle contestazioni dibattimentali), si riferì solo per porre, constatando che sono ebrei, la premessa alle sue argomentazioni sul piano cattolico, a sostegno della non validità e dell’inopportunità delle ragioni addotte dal padre Rotondi, a difesa della legittimità della procedura.
Il riferimento costituisce lo spunto e spiega l’occasione dello scritto incriminato, nel quale l’epiteto di “deicidi” e le offese conseguenziali “d’incapacità a giudicare” e “di carenza dì moralità qualsiasi” sono rivolte alla generalità degli israeliti. Ne deriva che quei giudici, come ciascun ebreo, non sono toccati direttamente, ma in quanto appartengono alla collettività israelitica.
Questa, poi, come testé sì è detto, è stata aggredita, in via primaria, nel punto essenziale della sua fede.
L’articolo infatti, non si limita ad enunnciare una pretesa verità storica (la crocefissione di Gesù da parte degli ebrei) ma riferendosi esplicitamente alla persistente negazione della divina innocenza del Cristo ed implicitamente all’aspettazione messianica che postula il rinnegamento del Redentore, ne fa derivare per gli ebrei, in quanto convinti di tale credenza, l’inevitabile giudizio sotto il profilo cattolico di “deicidi in atto” e “come tali privati della possibilità di essere giudici di nessuno che alla loro progenie non appartenga e carenti di ogni e qualsiasi moralità che possa avere valutazione qualsiasi”.
È palmare che una fede, che si indica come causa di tanta indegnità giuridica e morale per chiunque la professi è vilipesa in sé stessa, non tramite i suoi fedeli la cui personalità, sotto qualsivoglia altro aspetto non redimendo in ogni caso da quelle indegnità, resta priva di rilevanza
Nel capo di imputazione la religione ebraica è stato perciò, esattamente ritenuta la diretta destinataria delle espressioni vilipendiose.
La scissione di queste, invece, non si conciliava con tale impostazione dell’accusa.
In tale senso, nella sostanza, si era espresso nella denuncia il dott. F. ed il P. m., nella menzionata richiesta, aveva affermato che solo ragioni di opportunità suggerivano di dare rilievo distinto, sub specie della diffamazione alle preposizioni attinenti alla normalità.
Contro la possibilità di autonome incolpazioni si sono pronunziati nella discussione di questo grado le parti civili e il P. g. rilevando che, comunque, il vilipendio alle persone assorbe, ex art. 84 cod. pen., in diffamazione delle medesime che in esso è contenuta.
Anche il tribunale ha proceduto ad una valutazione unitaria dello scritto sotto il profilo dell’art. 595 dopo aver escluso il vilipendio.
È pero il caso di dire subito che i primi Giudici sono caduti in aperta contraddizione allorché il requisito della determinatezza delle persone offese, escluso quanto al vilipendio hanno, subito dopo, per implicito ritenuto sussistente quanto alla diffamazione, integra, per essi, nella. materialità e non dimostrata nell’elemento psicologico.
È chiaro che, con quel presupposto logico-giuridico comune, s’imponeva identità dì soluzione per entrambi i reati.
Come s’imporrebbe in questa sede se, riconosciuta per le stesse ragioni dei primi Giudici l’insussistenza del vilipendio e pertanto non verificandosi in concreto l’assorbimento in esso della diffamazione, in ordine a questa vi fosse, data la costruzione dell’accusa, l’esigenza di un’autonoma pronunzia.
Sul risultato dell’indagine di fatto del Tribunale si e già consentito, allorché si è detto che destinataria del vilipendio ed in quali termini è la religione ebraica e che tutti i fedeli sono stati offesi solo in quanto la professano.
Resta da dire se tale fattispecie rientri nello schema legale preveduto dalle disposizioni combinate degli artt. 403, 406 cod. peli., se, cioè, sia represso il vilipendio generico di un culto ammesso dallo Stato, dal quale, secondo l’intendimento dell’agente, derivi indegnità per tutti i fedeli.
Alla stregua dell’interpretazione letterale e logica delle norme, condotta senza trascurare l’elemento storico, la risposta al quesito è negativa.
Il codice del 1889, riflettendo le dominanti idee liberali in tanto colpiva la violazione della religione in quanto si concretava in una lesione della libertà individuale in punto di fede.
In conformità a tali principi la tutela dei culti non poteva che essere indifferenziata, indiretta e subordinata all’azione privata Nell’ambito dei delitti contro la libertà dei culti ammessi dallo Stato (anche la religione cattolica, rientrava agli effetti penali in tale categoria.) l’art. 141 prevedeva il fatto di vilipendere chi professava uno dei detti culti per offenderlo. Dottrina e giurisprudenza unanimi ritennero che, per integrare il reato, non bastava una offesa alla generalità dei fedeli ma occorreva il vilipendio di una o più persone determinate.
È noto a quale diverso criterio si sia ispirato il legislatore del 1930, che, volendo dare all’idea religiosa un valore sociale e considerando perciò il sentimento religioso come un bene collettivo, lo elevò ad oggetto specifico della tutela penale, sostituendo alla precedente rubrica, inserita nei delitti contro la libertà, quella dei delitti contro il sentimento religioso e la pietà dei defunti.
Non bisogna peraltro dimenticare la rilevanza prevalente che sulla riforma esercitarono i Patti lateranensi e particolarmente il principio già consacrato dall’art. 1 dello Statuto e riaffermate all’art. 1 del Trattato, per il quale “la religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello Stato”. È per questa peculiare condizione giuridica, che spicca sul criterio generale dell’assunzione dell’idea religiosa a valore sociale, che la religione cattolica ricevette, rispetto ai culti ammessi, una tutela differente, quod delicta, con la previsione, solo per essa, del vilipendio generico alle sue credenze fondamentali (art. 402) e quod poenam, sullo figure delittuose comuni (art. 403, 404, 405, in relazione all’art. 406).
In conformità all’insegnamento della Corte costituzionale (sent. n, 125 del 30 novembre 1957, Foro it., 1957, I, 1913) e della Corte di cassazione (v. sent. 6 giugno 1961, ric. P. m. c. Cretarolo, id., 1961, II, 185) sulla compatibilità di tale disparità di tutela penale con i principi dell’ordinamento costituzionale vigente non possono sorgere dubbi.
Pertanto la stessa disparità fissata in norme giuridiche positive, non può obliterare il giudice che solo alla legge è soggetto e che questa deve applicare servendosi esclusivamente di mezzi di ermeneutica che gli sono consentiti.
Ciò premesso e limitando la disamina ai punti che attengono alla subiecta materia dal raffronto della norma dell’art. 402 (“chiunque pubblicamente vilipende la religione dello Stato…”) col combinate disposto dell’art. 403 (“chiunque pubblicamente offende la religione dello Stato, mediante vilipendio di chi la professi …”) e dell’art. 410 (“chiunque commetta uno dei fatti preveduti dagli artt. 403, 404, 405 contro un culto ammesso dallo Stato…”) emerge chiaramente, come qui si è detto, che solo la religione cattolica, con la prima disposizione è protetta contro le offese che la colpiscono per sé stessa e cioè nelle sue affermazioni dogmatiche e nelle sue manifestazioni rituali.
Ne consegne che l’altra disposizione, che tutela con la religione cattolica anche i culti ammessi, non può avere uguale contenuto. Ed infatti, nell’art. 403, non alla religione come istituzione si ha riguardo, ma alla religione nella sua manifestazione aperta ed attiva (professione), alla religione come atto e sentimento della persona.
In sostanza con l’interesse relativo al rispetto della religione, si protegge anche l’interesse relativo al rispetto delle singole persone che la religione professano. Ciò sempre nell’ambito della considerazione d’un valore sociale il che basta a spiegare la perseguibilità d’ufficio di questi e degli altri reati previsti nello stesso titolo, per i quali comune è l’oggettività generica tutelata,
Tale individuazione del bene protetto indica in una o più persone determinate, professanti la religione cattolica od un culto ammesso, il soggetto passivo immediato del delitto in esame.
Dal che consegue che, a differenza delta previsione dell’art. 402 in cui dal vilipendio alla religione deriva offesa a tutti coloro che la professano, nel fatto incriminato dall’articolo successivo dal vilipendio a fedeli determinati deriva offesa alla religione.
Tali considerazioni, sulle quali sostanzialmente si fonda la decisione dei primi Giudici, non sono invalidate dai motivi addetti dai rappresentanti del P. m.
A torto si argomenta con l’elemento lessicale, ritenendo tanto lata l’espressione “chi lo professa” da non essere compatibile con una interpretazione restrittiva. A tacer che con formula identica si esprime l’art. 141 del cod. Zanardelli. vale considerare che l’interpretazione data è la sola consentita dal significato proprio del pronome “chi”, poiché esso, nell’astrazione legislativa, è necessariamente indefinito e sta in luogo di “taluno”, di “alcuno”, “di persona che…” e cioè di quelle locuzioni clic secondo il P. g. si sarebbero dovute usare per indicare una direzione soggettiva determinata nell’offesa.
Le ragioni politico-sociali della riforma cui soprattutto si riporta il Procuratore della Repubblica, come si è già detto, nonché contrastare, confortano la decisione. Spiegano infatti tanto la nuova previsione di una tutela privilegiata della religione cattolica, quanto la conservazione della forma di vilipendio preveduta dall’art. 141 abrogato, sia pure nell’ambito di una diversa considerazione del bene protetto.
Né rileva il constatare che il requisito della determinatezza della persona offesa finisce per costituire un limite alla tutela del sentimento religioso, restando questo, pur offeso, senza protezione tutte le volte che il vilipendio è rivolto alla generalità dei credenti.
Ma ciò non è contrario alla ratio legis, anzi è l’effetto del sistema di tutela differenziale che si è illustrato.
Dire poi che l’offesa collettiva è più grave di quella individuale, significa esprimere un giudizio che, a tacere della sua rilevanza ai fini interpretativi, non e certo conforme al criterio del legislatore, il quale, nei confronti della religione cattolica, ha ritenuto di reprimere con maggior severità l’offesa alla religione commessa tramite ml vilipendio dei credenti, che non il vilipendio generico di essa.
Né si dica che deve distinguersi tra vilipendio generico di un culto e vilipendio di una collettività religiosa per trarne che solo il primo non rientra nella previsione degli art. 403, 406 cod. pen., mentre ci rientra il secondo. Non si nega che una distinzione sia possibile, ma è irrilevante al fine che si opera.
Culto è sinonimo di religione, anche se in senso stretto significa l’insieme dei riti e delle usanze con i quali si manifesta una fede religiosa. La collettività religiosa è l’insieme delle persone che credono in una stessa fede. Ma è chiaro che una offesa diretta a tale collettività, genericamente considerata, non tocca l’individuo se non in quanto di quella collettività fa parte in sostanza quel che si colpisce direttamente è ciò che accomuna l’insieme e cioè la religione. Si ha perciò una offesa generica del culto. Quel che appunto si è verificato nella specie nei confronti della religione ebraica, sotto il profilo obiettivo e secondo l’intendimento dell’agente.
Le stesse considerazioni valgono ad escludere che dalla massa possa enuclearsi come soggetto passivo della diffamazione la persona del dott. P. o di altro correligionario.
Né può qui parlarsi di diffamazione di una collettività come ente distinto dalle persone dei singoli fedeli.
Ed invero, a tacer che non la lesione della reputazione della collettività il dott. F., con la querela, ha introdotto miei processo (né era legittimato ad introdurlo), ma la lesione della reputazione propria, devesi rilevare che di unità collettiva passibile di diffamazione si parla con riferimento alle persone giuridiche ed anche alle associazioni non riconosciute, rispetto alle quali ricorrono elementi e criteri che ne consentono una delimitazione obiettiva e soggettiva.
Il che non è concepibile nei confronti di una massa innumerevole di persone, pur se accomunate dal sentimento religioso.
Pertanto anche dal reato contestatogli al capo b) il dott. D. deve essere prosciolto con la formula che richiede.
(omissis)
Autore:
Corte d'Appello - Penale
Dossier:
Tutela penale
Nazione:
Italia
Parole chiave:
Antisemitismo, Ebrei, Vilipendio, Libertà dei culti
Natura:
Sentenza