Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 23 Febbraio 2004

Sentenza 27 maggio 1996, n.4871

Cassazione Civile. Sezione Lavoro. Sentenza 27 maggio 1996, n. 4871.

(Micali; Picone)

(omissis)

Motivi della decisione

A) La qualificazione del rapporto dedotto in giudizio e la questione di competenza.

1. I primi quattro motivi del ricorso concernono tutti la questione della competenza del giudice del lavoro, denunziando la violazione dell’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale preliminari al codice civile, in relazione agli art. 24 e 25 della legge 20 maggio 1985, n. 222 e al canone 1274 codice di diritto canonico, degli art. 7 e 8 Cost., dell’art. 409 c.p.c.

In sintesi, l’istituto ricorrente afferma che la legge civile opera un rinvio formale all’ordinamento canonico, in base al quale il servizio sacerdotale non costituisce prestazione lavorativa, né autonoma, né subordinata, e per il quale spetta una “remunerazione”, non una retribuzione; il Tribunale, pertanto, non poteva procedere a una diversa qualificazione del rapporto ricorrendo a fonti normative non applicabili; erroneamente il Tribunale aveva accolto, in definitiva, una nozione di remunerazione modellata su quella di retribuzione, ritenendo operanti i principi propri di quest’ultima quali il principio di proporzionalità e di sufficienza; invece, la remunerazione del ministero sacerdotale tende semplicemente a garantire che il sacerdote possa effettuarlo senza essere distratto da bisogni materiali ed economici.

2. La Corte deve premettere che non è stato semplicemente censurato l’errore commesso dal Tribunale nel non procedere a norma dell’art. 427 c.p.c., come dispone l’art. 439 dello stesso codice per l’ipotesi di causa trattata in primo grado come causa di lavoro dal Pretore, mentre si trattava di causa ordinaria. Se così fosse, infatti, l’errata adozione del rito del lavoro in luogo di quello ordinario si risolverebbe in irregolarità del procedimento, incidente sulla validità di esso e della sentenza soltanto nei limiti in cui l’applicazione del rito speciale abbia determinato uno specifico pregiudizio processuale a una delle parti, con riferimento, per esempio, al regime delle prove o alla disciplina dell’attività difensiva in genere (cfr., Cass. 28 gennaio 1985 n. 452; 4 giugno 1992 n. 6811; 8 giugno 1994 n. 5582).

Nella fattispecie, invece – come la Corte ha il potere di verificare direttamente, trattandosi di error in procedendo -, viene denunziata la violazione delle norme sulla competenza per valore, in relazione all’eccezione di incompetenza specificamente sotto questo profilo sollevata tempestivamente nel giudizio di primo grado e riproposta nel giudizio di appello.

3. La Corte giudica infondata la denunziata violazione delle norme sulla competenza per valore, ma per ragioni diverse da quelle poste dal Tribunale a fondamento della decisione affermativa dell’applicabilità degli art. 409 ss. c.p.c. (art. 384, comma secondo, c.p.c.). Il capo I del titolo IV del codice di rito è infatti applicabile alla controversia ai sensi dell’art. 442 dello stesso codice sulla base delle considerazioni che seguono.

4. Nel nuovo diritto della Chiesa, il codice canonico del 1983, al canone 1274, ha previsto il graduale passaggio dal sistema del beneficio ecclesiastico a quello degli istituti per il sostentamento del clero, diocesani ed interdiocesani. Tale innovazione ha naturalmente influenzato il procedimento di revisione bilaterale del concordato lateranense conclusosi nel 1984.

Con l’accordo de 18 febbraio 1984 si è prospettata una globale negoziazione della materia affidata a una commissione paritetica, sulla base di orientamenti generali (art. 7, n. 1 e 5) e con precisazione degli ambiti di operatività e delle scadenze (art. 7 n. 6). A coronamento dei lavori della commissione (“Relazione sui principi” del luglio 1984), si è addivenuti alla sottoscrizione del protocollo di Roma del 15 novembre 1984, preceduto da uno scambio di lettere relative alla richiesta di emendamenti sui quali lo Stato italiano ha convenuto. Sono poi seguite la legge di ratifica 20 maggio 1985 n. 206 e la contestuale legge 20 maggio 1985 n. 222, autonomamente promulgata, che si differenzia formalmente dalla legge di ratifica con inserimento del testo degli emendamenti concordati.

In particolare, il Titolo II di tale legge prevede nuove norme per la regolamentazione dei beni ecclesiastici e per il sostentamento del clero, che dettano una disciplina profondamente innovativa del sistema precedente, basato sull’erogazione della congrua beneficiale da parte dello Stato.

Mentre nel vecchio sistema la “retribuzione” del sacerdote risultava dal cumulo dei redditi del beneficio con l’entrata rappresentata dal supplemento di congrua, la nuova normativa attua la perequazione economica per tutto il clero, mediante la revisione di un sistema generalizzato di sostentamento del clero impegnato nel servizio della diocesi, coinvolgendo inoltre i cittadini, che si sentono di appartenere alla comunità ecclesiale, nel sostegno della chiesa.

Il nuovo sistema di sostentamento del clero è stato delineato identificando gli strumenti di gestione, (l’istituto di sostentamento del clero previsto dal canone 1274 del Codice di diritto canonico); i mezzi finanziari (le erogazioni liberali dei cittadini, la quota versata dallo Stato pari all’8 per mille dell’Irpef), i tempi di attuazione e le cadenze di verifica sull’entità dei fondi necessari al “congruo e dignitoso sostentamento del clero”. Alla determinazione periodica della misura della remunerazione, idonea ad assicurare a ogni sacerdote che eserciti il ministero al servizio della diocesi un congruo e dignitoso sostentamento, provvede la Conferenza Episcopale Italiana (art. 24). Il vescovo diocesano, sentito il Consiglio presbiterale, fissa l’entità della remunerazione che ogni ente ecclesiastico dovrà assicurare al clero che presta servizio in suo favore; ai fini della perequazione della remunerazione si terrà conto anche degli stipendi eventualmente corrisposti da altri soggetti (art. 33). Sono gli istituti diocesani che, qualora la somma dei proventi sopra indicati è rimunerazione corrisposta dagli enti ecclesiastici e gli eventuali stipendi corrisposti da altri soggetti, non raggiunga la misura determinata dalla Cei, provvedono a corrispondere l’integrazione con i redditi del proprio patrimonio, salvo a richiedere all’Istituto centrale per il sostentamento del clero la somma residua necessaria, nel caso di insufficienza dei detti redditi (art. 34 e 35).

4. Con riguardo a controversia tra sacerdoti e istituto diocesano per il sostentamento del clero, la giurisprudenza della Corte ha gia avuto modo di osservare che “La remunerazione del sacerdote non è retribuzione nel senso laburistico del termine. Infatti la peculiarità del ministero; che non può essere svilito riconducendolo nel paradigma del lavoro sia pure intellettuale, porta con sicurezza ad escludere che quella corrisposta al sacerdote per il suo sostentamento sia equiparabile alla retribuzione per un lavoro prestato in senso tecnico. Proprio perciò è stata scelta una denominazione estranea alla terminologia lavoristica… La vicenda del sostentamento del cittadino sacerdote, anche se non inquadrabile nell’area applicativa dell’art. 36 Cost., è pur sempre riconducibile al fondamentale principio dell’art. 2 Cost., toccando la tutela della persona in relazione all’esigenza di sostentamento e postulando l’attribuzione di un diritto nell’ordinamento italiano e la relativa tutela giurisdizionale, sia pure alla stregua di un modello ricostruttivo nel quale vengono ad assumere rilevanza i comportamenti delle autorità ecclesiastiche” (Cass., sez. un., 28 agosto 1990 n. 8870). Tuttavia, non è necessario un particolare approfondimento della questione se il ministero sacerdotale sia suscettibile di essere qualificato “lavoro”, poiché è certo che il rapporto di obbligazione dedotto in giudizio non è riconducibile ad alcuno dei rapporti elencati dall’art. 409 c.p.c.

I diversi rapporti di lavoro elencati dalla norma discendono tutti da fattispecie contrattuali (contratto di lavoro subordinato, ancorché stipulato da un ente pubblico; contratti di agenzia, di rappresentanza commerciale e di prestazione d’opera, contratti agrari); invero, la giurisprudenza ha compreso nell’ambito delle controversie individuali di lavoro anche qualche rapporto di origine non contrattuale, ma pur sempre consensuale (come il lavoro del familiare nell’impresa) avendo però cura di precisare la necessità che sia pur sempre configurabile lo schema dell’antagonismo tra gli interessi delle parti (da escludere, per esempio, nel caso di prestazione di lavoro in adempimento di un contratto sociale: Cass., sez. un., 28 dicembre 1989 n. 5813; Cass. 16 settembre 1993 n. 9547).

5. Il rapporto giuridico tra sacerdote e Istituto obbligato al pagamento della remunerazione è invece riconducibile a una forma di assistenza obbligatoria.

La remunerazione per il ministero sacerdotale dei presbiteri è disciplinata dal diritto canonico, ma tale disciplina è rilevante nell’ordinamento italiano ai sensi delle disposizioni della l. 1222/1984, in attuazione dell’accordo 18 febbraio 1984 dove, nella premessa e all’art. 1, la Repubblica Italiana e la Santa Sede affermano di impegnarsi, ciascuno nel proprio ordine indipendenti e sovrani, alla “collaborazione per la promozione dell’uomo e il benessere del paese”.

Da parte dello Stato, quindi, vi è un interesse a tutelare il diritto dei propri cittadini sacerdoti alla remunerazione posta a carico dell’Isc e per l’adempimento da parte di questo (che oltre tutto è ente ecclesiastico civilmente riconosciuto) dei suoi obblighi istituzionali, interesse riconosciuto dalla Chiesa stessa nel momento in cui ha ammesso che anzidetta materia potesse essere oggetto di statuizioni pattizie.

Non può dubitarsi, pertanto, che la l. 222/1984 configuri un vero e proprio diritto soggettivo di carattere patrimoniale all’adempimento dell’obbligazione ex lege gravante sull’Isc.

La nascita dell’obbligazione non è però determinata dal fatto dello svolgimento dell’attività ministeriale, essendo la remuneratio meramente eventuale, dal momento che spetta se e in quanto il sacerdote non abbia raggiunto con gli altri cespiti, previsti dall’art. 33 della legge, la misura fissata dalla Cei a norma dell’art. 24, 1º comma, della stessa legge. Vi è dunque il Caso dei sacerdoti che non ricevono compenso né dagli enti presso cui prestano servizio, né dall’Isc, percependo essi, ad esempio, da parte di enti pubblici o da privati uno stipendio che copra interamente la misura fissata dalla Cei. Il permanente dovere canonistico di prestare in siffatta ipotesi il loro servizio ministeriale, pur in assenza di una remunerazione, dimostra il carattere non di corrispettivo e l’autonomo fondamento del dovere ministeriale rispetto ad essa.

Le norme, quindi, configurano il diritto del sacerdote verso l’Isc quale diritto all’integrazione al trattamento minimo stabilito dalla Cei, quale adeguato sostentamento.

Il collegamento tra gli art. 2 e 38, primo comma, Cost., consente di concludere nel senso che un’erogazione patrimoniale – equiparata tra l’altro ai soli fini fiscali al reddito da lavoro dipendente ai sensi dell’art. 25 l. 222/1984 – prevista dalla legge al fine di assicurare i mezzi necessari per vivere ai cittadini che non prestano “lavoro retribuito” in senso stretto perché svolgono un’attività rivolta alla “promozione dell’uomo e all’interesse del paese”, ha la struttura e la funzione di una prestazione assistenziale.

Ne discende che la competenza spetta per materia al Pretore, senza limiti di valore, ai sensi dell’art. 442 c.p.c.

B) L’esistenza del credito rivendicato nei confronti dell’Istituto.

1. Gli altri quattro motivi di ricorso concernono tutti la questione – di merito – dell’esistenza del credito rivendicato dal Grassi.

(omissis)

La corte giudica fondati, nei sensi e nei limiti appresso precisati, i […] motivi di ricorso.

2. L’art. 75 della l. 222/1984 dispone che le norme disciplinatrici degli enti e beni ecclesiastici in Italia e per il sostentamento del clero italiano nelle diocesi entrano in vigore nell’ordinamento dello Stato e in quello della Chiesa con la contestuale pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica e negli Acta Apostolicae Sedis (1º Comma), L’autorità statale e l’autorità ecclesiastica competenti emanano nei rispettivi ordinamenti, le disposizioni per la loro attuazione (2º comma); in particolare, spetta alla Cei l’emanazione delle norme attuative del Titolo II della legge (beni ecclesiastici e sostentamento del clero).

La Cei ha provveduto al riguardo con alcune delibere emanate nel 1986. La delibera n. 43 ha stabilito, per la prima applicazione degli accordi, che, mentre i due terzi della remunerazione sono uguali per tutti, per la rimanente parte si dovrà tener conto degli uffici, dell’anzianità di servizio e della residenza. La delibera n. 44 (applicabile ratione temporis alla controversia) ha poi precisato di quali emolumenti si debba tener conto al fine della perequazione della remunerazione.

Sul piano del sistema delle fonti del diritto canonico, tali delibere rientrano tra i decreti generali di cui al canone n. 455 § 1, atti aventi valore di legge nell’ordinamento canonico ai sensi del canone n. 29.

3. La delibera n. 44/1986 della CEI esprime la regola secondo la quale, in base all’art. 33, lettere a) e b) delle Norme, tra “i redditi propriamente ministeriali affluenti ai sacerdoti” sono da computare gli stipendi che i sacerdoti ricevono da soggetti diversi dagli enti ecclesiastici, pubblici o privati, esemplificativamente indicati nella “scuola, per gli insegnanti di religione o di altre materie; USL e clinica per i cappellani ospedalieri; Ministero di Grazia e giustizia per i cappellani delle carceri; comune o consorzio cimiteriale, per i cappellani dei cimiteri ecc.”.

La lettera delle norme, pertanto, è chiaramente nel senso di comprendere tra “i redditi propriamente ministeriali” lo stipendio che si riceve per l’insegnamento di materie diverse dalla religione, anche nelle scuole statali (alle quali si riferisce specificamente l’insegnamento della religione).

L’interpretazione è confermata dalle disposizioni relative alle pensioni (lett. c), che comprendono tra i redditi anzidetti “i due terzi… del complesso delle pensioni….se derivanti dal ministero sacerdotale esercitato, ivi compresa la pensione derivante da insegnamento nella scuola di materie diverse dalla religione o da altra attività professionale, quando l’esercizio dell’insegnamento o della professione fu svolto d’intesa o almeno con il tacito consenso del Vescovo…”.

4. Il diritto azionato dinanzi al giudice italiano trova però la sua esclusiva regolamentazione nella legge n. 222 del 1984, secondo la ricostruzione già operata dell’istituto nella prima parte della motivazione (in particolare, sub n. 5). Ne segue che alla delibera CEI può essere riconosciuta solo l’efficacia prevista dalla legge stessa, quale attuazione delle sue disposizioni. In altri termini, da una parte, una delibera in contrasto con la legge nazionale non sarebbe suscettibile di essere ricondotta al “tipo” di delibera previsto dalla legge medesima; dall’altro, non vi sono limiti al controllo di costituzionalità della stessa legge, che resta a tutti gli effetti una legge ordinaria, soggetta alla verifica di legittimità della Corte Costituzionale.

5. Alla delibera n. 44 della CEI, nella parte in cui comprende lo stipendio corrisposto dallo Stato (o da altri soggetti) per l’insegnamento di materia diversa dalla religione, deve essere riconosciuto il carattere di attuazione del disposto dell’art. 24 della legge e, di conseguenza, non può essere sindacata in ordine alla scelta adottata.

L’art. 33 delle stessa legge, infatti, distingue nettamente la “remunerazione” che il sacerdote riceve dagli enti ecclesiastici presso i quali esercita il ministero (lett. a)), dagli “stipendi” corrisposti da altri soggetti (lett. b)), consentendo, dunque, che si tenga conto, senza limitazioni, del reddito che il sacerdote consegue prestando attività lavorativa diversa dal ministero in senso stretto.

6. La norma non presenta profili di illegittimità costituzionale nella parte in cui prevede la computabilità dei redditi da lavoro, ma non di altri redditi (in particolare, rendite immobiliari e finanziarie).

L’art. 24 della legge, infatti, chiarisce che si intende per servizio svolto in favore della diocesi, ai sensi del canone 1274, paragrafo 1, del codice di diritto canonico, l’esercizio del ministero come definito dalle disposizioni emanate dalla CEI. Il canone 281, cui rinvia il canone 1274, dispone che ai chierici, in quanto si dedicano al ministero ecclesiastico, spetta una remunerazione tale da consentire di provvedere alle necessità della propria vita. I canoni 284-289 vietano ai chierici di svolgere attività produttive di reddito con poche eccezioni compatibili con l’esercizio del ministero, per il cui svolgimento è necessario il consenso, anche tacito, del Vescovo.

La legge nazionale, pertanto, recepisce le linee di un sistema che considera le attività lavorative compatibili con la status di sacerdote, per le quali si riceve uno “stipendio”, sempre in qualche modo connesse al ministero ecclesiastico. Connessione che va colta sotto un duplice profilo: da una parte, i doveri ministeriali non vengono meno con l’esercizio delle attività diverse: dall’altra, per il chierico inserito nel mondo del lavoro non sussistono le ragioni dell’intervento assistenziale. secondo la ratio e i limiti individuati supra, lett. A), n. 5, atteso che, comunque, la dedizione al ministero ecclesiastico non lo ha privato della possibilità di esercitare un’attività lavorativa produttiva di reddito.

C) La decisione sul ricorso.

1. Per le considerazioni svolte la sentenza impugnata deve essere cassata in accoglimento del quinto, sesto, settimo e ottavo motivo di ricorso. Ai sensi del primo comma dell’art. 384 c p.c., come sostituito dall’art. 66 della legge 26 novembre 1990 n. 353, applicabile al giudizio a norma dell’art. 90, comma primo, della stessa legge (nel testo risultante dalle successive modificazioni), la Corte, accogliendo il ricorso per violazione degli art. 24, 33 e 34 della legge 20 maggio 1985 n. 222, decide la causa nel merito e, per l’effetto, rigetta la domanda proposta da Tommaso Grassi nei confronti dell’Istituto diocesano per il sostentamento del clero per la diocesi di Viterbo.

2. La Corte provvede sulle spese del giudizio di legittimità e di tutti i precedenti giudizi; a norma dell’art. 385, comma secondo, c.p.c., compensandole interamente tra le parti, nella sussistenza dei giusti motivi costituiti dalla novità delle questioni giuridiche trattate (art. 92, comma secondo, c.p.c.).

P.Q.M.

La Corte di Cassazione accoglie per quanto di ragione il ricorso e, per l’effetto, cassa senza rinvio la sentenza impugnata; decidendo nel merito la causa, rigetta la domanda proposta da Tommaso Grassi contro l’Istituto diocesano per il sostentamento del clero per la diocesi di Viterbo; compensa interamente tra le parti le spese del giudizio di cassazione e dei precedenti giudizi.