Sentenza 27 gennaio 1994, n.5213
Corte di Cassazione. Sezioni Unite. Sentenza 27 gennaio 1994, n. 5213: “Provvedimenti disciplinari irrogati dai legittimi organi rappresentativi della Chiesa Avventista nei confronti dei propri membri: carenza di giurisdizione del giudice italiano”
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:
Dott. Ferdinando ZUCCONI GALLI FONSECA – Primo Pres. Agg.
Dott. Vincenzo SALAFIA – Pres. di Sez.
Dott. Antonio IANNOTTA – Pres. di Sez.
Dott. Michele CANTILLO – Consigliere
Dott. Gentile RAPONE – Consigliere
Dott. Vittorio VOLPE – Consigliere
Dott. Alessandro PAOLUCCI – Consigliere
Dott. Alfredo ROCCHI – Consigliere
Dott. Vito GIUSTINIANI – Rel.
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso iscritto al N. 622-93 del R.G. AA.CC., proposto da: M. U., elett.te dom.to in Roma, Via Cola di Rienzo n. 264, presso lo studio dell’ avv.to Pino Cusimano, rapp.to e difeso dall’avv.to Piero Giuseppe Dolcini, giusta delega a margine del ricorso.
RICORRENTE
contro
UNIONE ITALIANA DELLE CHIESE CRISTIANE AVVENTISTE DEL 7 GIORNO (U.I.C.C.A), in persona del suo Presidente e legale rappresentante p.t., elett.te dom.ta in Roma, Viale di Villa Pamphili n. 122, presso lo studio dell’avv.to Giovanni De Vincenzo che la rappresenta e difende unitamente all’avv.to Giampaolo Catalano, giusta delega a
margine del controricorso.
CONTRORICORRENTE
nonché
CHIESA ITALIANA AVVENTISTA DEL 7 GIORNO di Cesena
INTIMATA
Avverso la sentenza n. 1631-91 della Corte di Appello di Bologna dep. il 14.11.91 (R.G. n. 891-89).
Udita nella Pubblica Udienza tenutasi il giorno 27.1.94 la relazione della causa svolta dal Cons. Rel. Dr. Giustiniani.
Uditi gli avv.ti P.G. Dolcini e G. De Vincenzo.
Udito il P.M., nella persona del Dr. Mirto Aloisi, avv.to gen.le c-o la Corte Suprema di Cassazione che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Fatto
Con atto di citazione del 10-8 e 19-9-93 U. M. conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Forlì la Chiesa Cristiana Avventista del 7 giorno di Cesena e l’Unione Italiana delle Chiese Cristiane Avventiste del 7 giorno, con sede in Roma, esponendo di essere stato radiato dalla predetta chiesa con deliberazione in violazione delle norme interne, e di aver successivamente chiesto ai competenti organi dell’Unione di essere riammesso, senza ottenere alcuna risposta.
Chiedeva, pertanto, che, accertata l’inesistenza, la nullità o l’annullabilità del provvedimento di radiazione, fosse dichiarato il suo diritto ad essere membro della Chiesa Avventista di Cesena.
Costituitesi in giudizio, le convenute eccepivano il difetto di giurisdizione del giudice ordinario ad effettuare il controllo di legittimità sul provvedimento, in quanto l’art. 8 della Costituzione attribuisce alle confessioni diverse dalla cattolica il diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, senza ingerenza alcuna da parte dello Stato; nel merito contestavano la fondatezza della domanda.
Il Tribunale, rigettata l’eccezione di difetto di giurisdizione, accoglieva la domanda, osservando che le convenute, al pari di altre associazioni, rimanevano pur sempre assoggettate alle norme statali in materia di attività di associazione (artt. 22, 36 e segg. C.C.).
Nel merito considerava che la radiazione del M. era avvenuta in violazione del diritto dell’associato ad essere sottoposto a sanzione disciplinare con il rispetto delle garanzie previste dall’art. 24 cod. civ. ed alle norme interne previste dal “Manuale di Chiesa”.
Su appello dell’Unione delle Chiese Avventiste e della Chiesa Avventista di Cesena, e resistendo il M., il quale proponeva appello incidentale sulle spese, la Corte d’Appello di Bologna dichiarava il difetto di giurisdizione del giudice italiano.
Riteneva la Corte che, in attuazione dell’art. 8 u.c. della Costituzione, era stato firmato in data 29 dicembre 1986 il protocollo d’intesa tra il Governo della Repubblica Italiana e l’Unione delle Chiese Avventiste del 7 giorno, protocollo al quale era stata data esecuzione con la legge 22 novembre 1988 n. 516; rilevava che in forza dell’art. 1 cpv. di tale legge cessavano di avere efficacia, nei confronti delle Chiese Avventiste, degli istituti, opere e persone che ne fanno parte, le disposizioni della legge 24 giugno 1929 n. 1159 e del r.d.l. 28 febbraio 1930 n. 289; che in base all’art. 36 cessava di avere efficacia, nei confronti di dette Chiese, ogni norma contrastante con la stessa legge; soggiungeva che l’art. 2 della legge prevedeva l’autonomia delle Chiese Avventiste ed in particolare che le nomine dei ministri di culto, l’organizzazione comunitaria e gli atti in materia disciplinare e spirituale si svolgessero “senza alcuna ingerenza statale”.
Osservava la Corte che la piena libertà in materia disciplinare implicava la possibilità, per gli organi della Chiesa, di prendere provvedimenti a carico dei membri e dei ministri di culto (ad esempio la loro radiazione o rimozione) senza che lo Stato potesse in ciò ingerirsi anche al solo fine di verificare la legittimità del procedimento alla luce delle prescrizioni statutarie.
Precisava la Corte che il fatto che le norme della legge 516-88 fossero entrate in vigore successivamente alla proposizione della domanda non escludeva che i principi da essa introdotti fossero immediatamente applicabili, essendo di natura pubblicistica; non operava cioè il principio della c.d. “perpetuatio jurisdictionis”, in quanto lo stesso si riferiva soltanto ai mutamenti dello stato di fatto; ne veniva in discussione il principio della irretroattività della legge, trattandosi di norme attinenti al processo.
Propone ricorso in Cassazione il M., deducendo tre mezzi di annullamento.
Resistono le Chiese Avventiste con controricorso, illustrato da memoria.
Diritto
Con il primo motivo il ricorrente denunzia: “Violazione per erronea interpretazione dell’art. 2 della legge 22.11.1988 n. 516 con riferimento all’ art 8 della Costituzione”.
Con il secondo motivo lamenta: “Violazione dell’art 5 c.p.c. e dell’art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale con riferimento al principio dell’irretroattività della legge”.
Con il terzo motivo deduce: “Omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia con riferimento alla inesistenza-nullità della radiazione, perché basata su motivazioni illecite e quindi ex art. 31 delle preleggi in contrasto con gli artt. 1418, 1345 C.C. con riferimento all’art. 1324 C.C.”.
L’esame del secondo motivo di ricorso deve preecedere l’esame del primo, avendo carattere preliminare.
Sostiene, infatti, il ricorrente che la legge n 516-88 non sarebbe applicabile alla fattispecie, perché successiva al fatto di cui al processo e perché non è in alcun modo previsto che possa avere effetto retroattivo. E ciò in quanto la radiazione di esso M. risale al gennaio 1983, mentre la normativa invocata e del 1988.
La censura è infondata.
È giurisprudenza costante di questa Corte Suprema (Cass. S.U. 20-12-72 n. 3628; Cass S.U. 7-8-1991 n. 8589; Cass. S.U. 22-11-91 n. 12591; Cass. S.U. 15-5-1992 n. 5792) che le leggi modificative della giurisdizione e della competenza, sia di carattere generale, sia di carattere speciale, sono immediatamente operative, in qualunque stato e grado del processo, con la loro entrata in vigore, senza che all’attuazione di tale criterio osti il principio della “perpetuatio jurisdictionis”, che è sancito dall’attuale e vigente art. 5 Cod Proc. Civ. in relazione al mutamento del solo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda e non già ai mutamenti di diritto sostanziale e processuale successivi.
Nè osta il principio dell’irretroattività della legge (art. 11 preleggi), in quanto la immediata applicazione delle norme processuali alle liti pendenti all’epoca dell’entrata in vigore di dette leggi concerne un fatto attuale, cioè il processo, non un fatto passato, riferibile alla proposizione della domanda giudiziale.
Consegue che la legge n. 516-88 è pienamente applicabile alla fattispecie in esame.
Il secondo motivo di ricorso va, perciò, respinto.
Con il primo motivo di ricorso, assumendo che la libertà in materia spirituale e disciplinare, conferita da una legge dello Stato, deve essere esercitata nel rispetto dei principi costituzionali e dei principi generali dell’ordinamento italiano, in conformità a quanto stabilito dall’art. 8, 2 comma, Cost., il ricorrente sostiene la sindacabilità degli atti di esercizio della detta libertà da parte del giudice italiano.
Il motivo non può essere accolto.
L’art. 2 della legge 22 novembre 1988 n. 516, che ha regolato i rapporti tra lo Stato e l’Unione italiana delle Chiese Cristiane Avventiste del 7 giorno in attuazione dell’art. 8 Cost. – secondo cui “le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano” (2 comma) e “i loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze” (3 comma) – recita testualmente: “La Repubblica Italiana dà atto dell’autonomia delle Chiese Cristiane Avventiste liberamente organizzate secondo i propri ordinamenti e disciplinate dai propri Statuti. Esse comunicano e corrispondono liberamente con le altre organizzazioni facenti parte della Conferenza generale degli avventisti del 7 giorno”.
Soggiunge l’articolo al secondo comma: “La Repubblica Italiana, richiamandosi ai diritti inviolabili dell’uomo garantiti dalla Costituzione, riconosce che le nomine dei ministri di culto, l’organizzazione comunitaria e gli atti in materia disciplinare e spirituale, nell’ambito delle Chiese cristiane avventiste, si svolgono senza alcuna ingerenza statale”.
Non appare dubbio, dunque, che “gli atti in materia disciplinare e spirituale”, nell’ambito delle Chiese cristiane avventiste, si debbono svolgere – giusta la inequivocabile disposizione legislativa – senza alcuna ingerenza statale.
Va osservato in proposito che la conclamata “non ingerenza” dello Stato è totale nella materia avanti descritta e trae fondamento dalla autonomia che le Chiese Avventiste del 7 giorno hanno ottenuto dalla Repubblica Italiana in virtù dell’intesa, stipulata il 29-12-1986, allegata alla menzionata legge 22-11-88 n. 516.
Invero, con l’art. 1 del protocollo di intesa, ratificato dall’art. 1.2 della citata legge n. 516-88, si è stabilito tra le parti che: “Con l’entrata in vigore della legge di approvazione della presente intesa, le disposizioni della legge 24 giugno 1929 n. 1159 e del regio decreto 28 febbraio 1930 n. 289, cessano di avere efficacia ed applicabilità nei riguardi delle Chiese cristiane avventiste, degli istituti ed opere che ne fanno parte e degli organi e persone che le costituiscono”.
Orbene, la legge (restrittiva) 24 giugno 1929 n. 1159 prevedeva la libera ammissione dei culti diversi dalla religione cattolica “purché non professino principi e non segnano riti contrari all’ordine pubblico o al buon costume” (art. 1); la preventiva approvazione governativa delle nomine dei ministri di culto, con la precisazione che “nessun effetto civile può essere riconosciuto agli atti compiuti da tali ministri se la loro nomina non abbia ottenuto l’approvazione governativa” (art 3); la facoltà di celebrare il matrimonio con effetti civili davanti ad un ministro di culto acattolico approvato, purché vi fosse di volta in volta l’autorizzazione dell’ufficiale di stato civile “con indicazione del ministro del culto davanti al quale la celebrazione deve avere luogo” (artt 7 e 12). Il r.d. 28 febbraio 1930 n. 289 non si limitava a dettare le norme per la mera attuazione della legge, ma fissava principi nuovi ed in parte più restrittivi, quali l’autorizzazione con decreto reale per l’apertura di Templi ed oratori, la necessità che gli enti fossero forniti di mezzi sufficienti per sostenere le spese di manutenzione dei templi medesimi ecc..
Con l’avvento della Costituzione repubblicana e, successivamente, in base a specifiche sentenze della Corte Costituzionale, la situazione giuridica è radicalmente mutata, talché può dirsi che l’evoluzione verso la piena autonomia in materia disciplinare e spirituale della Chiesa Cristiana Avventista (come pure della Chiesa Valdese e gli altri culti acattolici), vale a dire la “non ingerenza statale”, si è attuata, oltre e prima che in forza della citata nuova legge, in base alla Costituzione, secondo la interpretazione datane dalla Corte Costituzionale.
La Corte Costituzionale, con la sentenza 18 novembre 1958 n. 59, ha dichiarato la illegittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 del R.D. 28 febbraio 1930 n 289, avanti citato, norme che subordinavano all’autorizzazione degli organi statali l’apertura dei templi e degli oratori, nonché le riunioni pubbliche degli aderenti ai culti acattolici.
In tale sentenza la Corte Costituzionale ha posto in relazione il già menzionato art. 8 della Costituzione, inserito tra i “Principi fondamentali”, con l’art. 19, inserito nel Titolo 1 dei “Rapporti Civili”, che recita: “Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume”.
Riaffermato, quindi, il principio costituzionale della libertà di culto, la Corte ha posto in rilievo che, per le confessioni religiose diverse dalla cattolica, l’art. 8 ha sancito la libertà di organizzarsi secondo propri statuti non contrastanti con l’ordinamento giuridico dello Stato; rapporti da regolare con leggi sulla base di intese con le relative rappresentanze. Ed ha invitato il legislatore dell’epoca ad eliminare “nel modo piu sollecito ed opportuno” la carenza legislativa in materia.
La stessa Corte, con la successiva sentenza 19 gennaio 1988 n. 43, invalidando l’art. 9 del R.D. 1731-1930, che regolava i requisiti per l’eleggibilità dei componenti dei consigli delle Comunità israelitiche, ha affermato l’importante principio che l’art. 8 della Costituzione, al comma secondo, “esclude ogni possibilità di ingerenza dello Stato nella emanazione delle disposizioni statutarie delle confessioni religiose”, laddove il limite fissato dalla disposizione costituzionale all’autonomia statutaria va riferito solo ai principi fondamentali dell’ordinamento e non anche a specifiche limitazioni poste da particolari disposizioni normative.
Dalle considerazioni esposte consegue che, nella fattispecie in esame, avendo la Repubblica Italiana – nello spirito voluto dal legislatore costituente e secondo l’interpretazione data dalla Corte Costituzionale – riconosciuto, col protocollo d’intesa del 29 dicembre 1986, ratificato con legge 22 novembre 1988 n. 516, alla Unione della Chiese Cristiane Avventiste del 7 giorno la piena autonomia (ovvero la “non ingerenza statale”), in ossequio all’art. 8 della Costituzione, in materia organizzativa comunitaria e specificamente in materia “disciplinare e spirituale”, ogni possibilita di sindacato dell’autorità giudiziaria italiana nella dedotta materia si palesa precluso.
In particolare, in riferimento al caso di specie, si palesa precluso ogni sindacato sul provvedimento di espulsione dalla Chiesa avventista, irrogato al M., quale affiliato alla Chiesa stessa, dai legittimi organi rappresentativi di essa.
Trattasi, invero, di un provvedimento di carattere religioso-disciplinare, irrogato al M. “uti fidelis” e non già “uti civis” (non si è trattato indubbiamente di un licenziamento), per cui in subiecta materia (religioso-disciplinare) non è consentito al giudice dello Stato di superare, ai fini di una eventuale indagine in ordine alla legittimità e ritualità del provvedimento emesso nell’ambito dell’ordinamento “interno” della Chiesa Avventista, la barriera posta dal principio di “diritto esterno” di non ingerenza, sancito dalla legge n. 516-88 e dall’allegato protocollo di intesa, i quali, peraltro, all’art. 36 dei rispettivi testi hanno esplicitamente abrogato ogni norma contrastante.
Ritiene, quindi, la Corte che l’Autorità Giudiziaria Italiana non può sindacare ed eventualmente annullare un provvedimento, di carattere religioso e disciplinare, quale quello di espulsione dalla Chiesa Avventista, irrogato al M. dal Pastore della Chiesa medesima, provvedimento che è espressione di piena autonomia istituzionale.
Correttamente, quindi, la Corte d’Appello ha dichiarato la carenza di giurisdizione dell’Autorità Giudiziaria dello Stato Italiano.
Stante il dichiarato difetto di giurisdizione, il terzo motivo di ricorso resta assorbito.
Sussistono giusti motivi per compensare integralmente tra le parti le spese di questo giudizio di cassazione.
P.Q.M
La Corte, a sezioni unite, rigetta il ricorso e compensa le spese tra le parti.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili della Corte Suprema di Cassazione, il 27 gennaio 1994.
Autore:
Corte di Cassazione - Sezioni Unite
Nazione:
Italia
Parole chiave:
Intesa, Giurisdizione, Chiesa avventista, Provvedimenti disciplinari, Espulsione, Autonomia organizzativa, Principio di non ingerenza
Natura:
Sentenza