Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 7 Ottobre 2003

Sentenza 27 febbraio 1997, n.1686

Cassazione. Sezioni Unite Civili. Sentenza 27 febbraio 1997, n. 1686.

(Franco Bile, Carlo Bibolini)

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

riunita in camera di consiglio in persona dei sigg. magistrati

FRANCO BILE PRESIDENTE DI SEZIONE

f. f. di PRIMO PRESIDENTE

ROMANO PANZARANI PRESIDENTE DI SEZIONE

ANTONIO IANNOTTA CONSIGLIERE

GAETANO NICASTRO CONSIGLIERE

GIOVANNI OLLA CONSIGLIERE

GIAN CARLO BIBOLINI REL. CONSIGLIERE

MARIO ROSARIO VIGNALE CONSIGLIERE

ERMINIO RAVAGNANI CONSIGLIERE

ETTORE GIANNANTONIO CONSIGLIERE

MOTIVI DELLA DECISIONE.

Sostenendo la violazione delle norme relative alla giurisdizione di cui all’art. 2 della L. 20 marzo 1865 n°. 2248 All. E, e successive modificazioni ed integrazioni, oltre ad omessa e comunque insufficiente motivazione, ai sensi dell’art. 360 n°. 1 e 5 C.P.C., i ricorrenti svolgono le loro argomentazioni in due doglianze, la seconda delle quali variamente articolata.

I°)

Con il primo mezzo di cassazione i ricorrenti deducono l’omessa e comunque insufficiente motivazione, censurando il metodo sommario, definitorio ed astratto seguito dalla sentenza impugnata nel dare fondamento alla pronuncia di difetto di giurisdizione, impedendo così di conoscere il procedimento logico posto a fondamento del giudizio espresso e senza entrare nel merito delle tre diverse e distinte questioni sollevate dagli attori.

II°)

1) In punto specifico di giurisdizione i ricorrenti sostengono che le norme poste a base dell’assunta lesione di un loro diritto soggettivo, erano tipiche norme di relazione.

Ed invero, la causa petendi della domanda di risarcimento danni avanzata, è la lesione da parte della P.A. del diritto soggettivo assoluto alla libertà religiosa e dei diritti supremi all’uguaglianza ed alla non discriminazione, oltre che al rispetto del principio di laicità dello Stato e della scuola, nonché del diritto alla salute.

In particolare le norme che gli attori assumono violate sono l’art. 9 della L. n°. 449/84; l’art. 9 della L. n°. 121/85; gli artt. 2, 3 e 19, 7- I° comma e 8 della Costituzione. Si tratta di norme che non regolano in via diretta l’attività della pubblica amministrazione, ma prendono in primaria e diretta considerazione gli interessi dei cittadini in rapporto alla p.a..

Si tratta, quindi di situazioni enunciate come diritto assoluto alla libertà di coscienza e di religione, diritto assoluto all’eguaglianza ed alla non discriminazione, diritto di vedere rispettato come attori cittadini il principio fondamentale della laicità dello Stato e della Scuola, diritto alla salute anche psichica. Si tratta inoltre di diritti soggettivi costituiti direttamente dall’ordinamento per la cui operatività non è necessaria alcuna attività della p.a. la quale non ha il potere di comprimerli o limitarli.

2) La censura di violazione di norme relative alla giurisdizione si pone anche alla luce del consolidato orientamento secondo cui esistono diritti soggettivi non suscettibili di affievolimento. Tale è il diritto al risarcimento del danno subito alla salute psichica, che Matteo Zoso aveva chiesto in relazione alla prima questione dedotta.

3) La giurisdizione dello A.G.O. andava affermata anche perché è stato contestato che la P.A. avesse nel caso di specie il potere discrezionale di interferire nella sfera giuridica degli attori, limitandola e comprimendola (pag. 17 atto di appello). Essi, in sostanza, hanno eccepito l’illegittimità della norma attributiva del potere per cui il venir meno della fonte del potere determina l’inesistenza del medesimo e ciò non solo quando l’invalidazione sia già avvenuta ma anche quando, denunciandosi l’incostituzionalità della legge e dell’atto legislativo su cui il potere si fonda, si deduce in sostanza che esso non esiste in capo alla P.A…

Poiché nella specie gli attori richiesero la rimessione alla Corte Costituzionale delle questioni di legittimità delle norme attributive del potere, anche sotto questo profilo deve riconoscersi che si verte in materia di diritti.

Tale essendo in estrema sintesi il tenore della doglianza proposta in punto di giurisdizione, occorre innanzi tutto riaffermare, secondo l’orientamento costante di questa Corte, che la regola del riparto tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa, non si fonda sulla base del solo petitum, ma del c.d. petitum sostanziale, determinato dal contemperamento della domanda con il titolo giuridico in base al quale viene proposta l’azione; titolo giuridico, inoltre, da valutare, al di là della prospettazione della parte, nella sua effettività e concretezza, in quanto ai fini di determinare la giurisdizione la domanda deve essere esaminata non soltanto in relazione a ciò che la parte letteralmente chiede, ma in relazione al vero oggetto della controversia quale risulta dalla stessa natura della materia dedotta in giudizio.

Nell’alternativa tra l’esercizio di un potere inesistente da parte della pubblica amministrazione nella singola situazione, quale fonte di lesione di un diritto del privato ed oggetto della giurisdizione ordinaria, e l’erroneo esercizio del potere pur sussistente quale oggetto di giurisdizione amministrativa se fonte di pregiudizio, le situazioni dedotte in controversia delineano la violazione di diritti primari, derivanti dallo stesso disposto costituzionale, rispetto ai quali nessun potere di sacrificio può individuarsi da parte della pubblica amministrazione. Non esiste alcun organo dello Stato (eccezion fatta per il Parlamento con le modalità e la procedura di modifica costituzionale) che possa incidere in maniera pregiudizievole sui diritti assoluti in cui si esprimono le libertà fondamentali costituzionalmente garantite. Se neppure al legislatore ordinario è consentito derogare ai principi costituzionali, a maggior ragione detta deroga non è consentita, neppure in via provvisoria, alla pubblica amministrazione che, in presenza di situazioni giuridiche di tale genere e della loro lesione, concretizza non l’erroneo esercizio di un potere astrattamente esistente, ma l’esercizio di un’attività per la quale il potere non è individuabile istituzionalmente. Non per nulla la sentenza 11 aprile 1989 n°. 203 della Corte Costituzionale, nella materia oggetto di controversia, ha ritenuto che l’esercizio di un diritto di libertà costituzionale non è degradabile ad opzione tra equivalenti discipline scolastiche e la successiva sentenza 11 gennaio 1991 n°. 13 ha ritenuto che sul diritto di avvalersi, o non dell’insegnamento della religione cattolica non è contestabile la giurisdizione del giudice ordinario vertendosi in materia di diritto soggettivo.

Esaminando, quindi, la situazione dedotta in controversia secondo lo schema logico ora delineato, non si ritiene che tutte le doglianze proposte dai ricorrenti individuino correttamente ed esattamente diritti assoluti e primari, costituzionalmente garantiti, in quanto tali, incomprimibili e comunque non degradabili dalla Pubblica Amministrazione ad interessi protetti.

In particolare non sembra correttamente dedotta la violazione del “diritto alla salute, anche psichica” del minore, in quanto detta situazione non era oggetto specifico della domanda, come proposta nel primo grado di giudizio. Nell’atto introduttivo del giudizio, infatti, il danno, sotto una delle varie prospettazioni, era individuato nel mancato “libero e pieno sviluppo della personalità del minore Matteo Zoso nell’ambito della formazione sociale rappresentata dalla scuola” nonché nella “diminuita crescita, sia culturale che umana e psicologica, della personalità” che sarebbe stata, inoltre, fonte di maggiore impegno da parte dei genitori per sopperire alle carenze della scuola. Situazioni, quindi, di asserito pregiudizio non giunto al livello di ledere la salute del minore, tanto che il maggiore impegno educativo dei genitori avrebbe potuto neutralizzarlo, qualora sussistente.

Analogamente al di fuori di diritti di libertà costituzionalmente garantita si pongono, se autonomamente considerate, sia la collocazione dell’insegnamento della religione cattolica nell’ambito orario ordinario, sia la necessaria richiesta di una scelta esplicita se avvalersi, o non, dell’insegnamento predetto.

Nell’un caso, infatti, una volta che detto insegnamento debba considerarsi facoltativo, vi è una situazione paritaria tra tutti gli alunni in ordine all’insegnamento obbligatorio per cui nessun pregiudizio alla cultura ed alla personalità può vantare il soggetto che dell’insegnamento della religione cattolica non intenda avvalersi.

Né può ragionevolmente sostenersi che si tratterebbe di una situazione pregiudizievole che colpirebbe indiscriminatamente tutti gli alunni, qualunque fosse la loro scelta in materia, in ordine alla sottrazione di materie di insegnamento dal c.d. orario curriculare; sarebbe infatti difficilmente configurabile come diritto assoluto costituzionalmente garantito il diritto ad un certo numero di ore giornaliere di insegnamento, per cui una scelta amministrativa di inserimento dell’insegnamento in esame nell’ambito delle quattro ore giornaliere di attività didattica, configura comunque un potere della P.A., rispetto al quale la posizione del privato si porrebbe come interesse legittimo, il cui accertamento di eventuale illegittimità ricadrebbe comunque nella giurisdizione del Giudice Amministrativo (v. sul punto Corte Cost. sent. n°. 290/92).

Sotto il secondo profilo, la necessità di una dichiarazione in cui si concretizzi una scelta del genitore in relazione all’insegnamento in esame non può essere enfatizzato come situazione discriminante, costituendo la scelta proprio l’esercizio di una libertà rispetto all’accettazione, o al rifiuto, di detto insegnamento facoltativo, con modalità che si impongono per una finalità organizzativa essenziale e prioritaria, al di fuori di qualsiasi intento o funzione di catalogazione dei cittadini secondo principi ideologici e di loro discriminazione. Si tratta, quindi, esclusivamente di una modalità distintiva, determinata proprio dall’esercizio di una libertà fondamentale rispetto ad un servizio facoltativo offerto dallo Stato, ed attuata dalla P.A. per finalità meramente organizzative.

Analoghe considerazioni possono essere svolte in relazione al fatto che, nella specie, l’insegnante della materie ordinarie fosse abilitata anche all’insegnamento della religione e detta attività prestasse per coloro che avessero fatto una scelta in tale senso. E’ pur vero che con detto sistema, anziché con il ricorso ad un distinto insegnante per la materia in discussione, l’insegnante ordinaria ha occasione di una diversa frequentazione con gli alunni i cui genitori avessero effettuato l’una o l’altra scelta; detta situazione, peraltro, non ha di per sì nulla di sanzionatorio o di pregiudizievole per coloro la cui scelta fosse stata nel senso della non frequentazione dei corsi facoltativi, se ed in quanto la loto libertà sia stata rispettata. Perché si individui, infatti, una condotta discriminatoria che attenti ad una libertà fondamentale, non è sufficiente delineare una distinzione di situazioni, volta che la stessa scelta nell’esercizio di una autonomia di comportamento voluta e rispettata dalla legge, è espressione di per sì di una distinzione; è necessario che la distinzione implichi una situazione di pregiudizio, reale o morale, tale da determinare una sofferenza o quanto meno disagio nella scelta e da renderla non più pienamente libera ed in qualche maniera, se non coartata, quanto meno indirizzata. Nulla di tutto questo, peraltro, è individuabile nel fatto che l’insegnante ordinaria sia dedita anche all’insegnamento della materia facoltativa, non individuandosi certamente in questo una scelta di appartenenza o di favore per un gruppo di alunni a detrimento di altri. Chi abbia fatto la scelta della non frequenza del corso facoltativo non viene privato in nulla della sua facoltà di scelta né la sua libertà viene per ciò stesso in qualche maniera condizionata.

Peraltro, tutto il sistema dedotto in controversia dai ricorrenti, assume una particolare configurazione se posto in relazione all’applicazione, per coloro che abbiano rifiutato l’insegnamento della religione cattolica, e solo per loro, di corsi alternativi sostanzialmente obbligatori.

La Corte Costituzionale (sent. I 1 aprile 1989 n°. 203; sent. 11 gennaio 1991 n°. 13), ha dichiarato l’infondatezza della questione di illegittimità costituzionale dell’ art. 9 n°. 2 della L. 25 marzo 1985 n°. 121 e del punto 5 lett. È) del relativo protocollo addizionale in relazione agli artt. 2, 3 e 19 e 97 della Costituzione, sul presupposto che la legge prevede il carattere meramente facoltativo dell’insegnamento della religione cattolica. Su tale base (condivisibile in via interpretativa della norma ordinaria richiamata) di fronte ad una facoltà, residua, per chi non intenda avvalersi del servizio indicato, una pura e semplice situazione di non obbligo, che può comprendere, purché a scelta degli interessati, o lo svolgimento di diverse attività didattiche e formative, o attività di studio e di ricerca personale con assistenza di personale docente, o ancora nessuna attività senza assistenza di personale docente anche con l’allontanamento dalla scuola; ciò purché si tratti di una scelta liberamente lasciata all’interessato ed a chi eserciti su di lui la potestà in caso di minore.

La previsione, invece, di corsi alternativi riservati unicamente a che abbia fatto la scelta facoltativa della non frequenza ai corsi di religione cattolica, senza alcuna diversa possibilità, finisce per ridurre la facoltatività di detto insegnamento a situazione opzionale ed alternativa. Ciò da un lato viola la disciplina della norma ordinaria richiamata, secondo l’interpretazione sopra indicata; una situazione di tale fatta, inoltre, derivante da provvedimenti dell’autorità amministrativa si pone, rispetto al diritto di libertà relativo, come una situazione discriminante e, come tale, lesiva, rendendo la libera scelta gravata di un onere di prestazione alternativa al di fuori di qualsiasi previsione normativa.

E’ pur possibile che l’insegnamento alternativo sia stato previsto al fine di controbilanciare l’inserimento della materia facoltativa nell’orario ordinario ed al fine di non creare una situazione discriminante inversa, in pregiudizio di chi avesse fatto la scelta favorevole alla frequentazione del corso di religione. Di fatto, peraltro le due situazioni non sono equivalenti, volta che chi abbia fatto la scelta positiva in ordine al tipo di insegnamento facoltativo, vede soddisfatta la sua esigenza e la sua libertà con l’apprestamento dei corsi relativi, mentre chi abbia fatto una scelta diversa vedrebbe onerata la sua libera scelta (che si deve concretizzare in un puro e semplice non obbligo), di una prestazione alternativa che, in quanto fonte di diverso e singolare impegno, finisce per assumere il carattere discriminante e, come tale lesivo di un diritto assoluto rispetto al quale nessun potere della p.a. sussiste. Conseguente è l’attinenza della domanda risarcitoria, nei limiti del profilo indicato, a diritti soggettivi la cui violazione rientra nella giurisdizione dello A.G.O. L’accoglimento per quanto di ragione del ricorso determina la cassazione della sentenza n°. 1029/95 della Corte d’Appello di Venezia. La causa deve essere rimessa al Tribunale di Venezia, il quale a sua volta si era dichiarato carente di giurisdizione, per la pronuncia sul merito e perché provveda anche sulle spese dell’intero giudizio.

P.Q.M.

La Corte, accoglie il ricorso per quanto di ragione; dichiara la giurisdizione della A.G.O. in ordine alla domanda connessa all’obbligo di frequenza alternativa. Cassa in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, al Tribunale di Venezia.

Roma 27 febbraio 1997.

IL PRESIDENTE

FRANCO BILE

IL CONSIGLIERE REL: EST:

GIAN CARLO BIBOLINI

Depositato in Cancelleria Roma, lì 18 novembre 1997 Il collaboratore di cancelleria (ill.)