Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 4 Marzo 2004

Sentenza 27 febbraio 1992, n.1347

Pretura di Torino. Sentenza 27 febbraio 1992, n. 1347.

(omissis)

Fatto

Con ricorso in opposizione a decreto ingiuntivo emesso dal Pretore di Torino in data 17.9.90 in favore dell’INPS, decreto col quale si ingiungeva all’opponente di pagare l’importo di £. 556.540.572 per contributi Cuaf, oltre a sanzioni interessi e spese, si costituiva in giudizio la Congregazione delle Suore Domenicane di S. Caterina da Siena, insegnanti ed infermiere, in persona del procuratore speciale dr. José Parrella, chiedendo la revoca del decreto ingiuntivo opposto, e che comunque venisse dichiarata infondata la pretesa dell’INPS, sulla base di una serie graduata di osservazioni.

Veniva preliminarmente eccepita la prescrizione, sia decennale sia quinquennale, quest’ultima specifica per la contribuzione Cuaf. Inoltre veniva eccepita l’illegittimità del decreto ingiuntivo per mancanza di motivazione. Quanto al merito della pretesa dell’INPS, la congregazione opponente osservava: che la Casa di Cura Suore Domenicane, con sede in Torino – Via Villa della Regina n. 19 – non aveva soggettività giuridica, né autonomia operativa, essendo queste ravvisabili solo in capo alla Congregazione delle Suore Domenicane di S. Caterina da Siena, che della Casa di Cura era l’ente proprietario e il gestore diretto; che la congregazione opponente, a norma del proprio statuto, esercitava ed esercita opere di religione e di culto, e (senza fine di lucro) opere di istruzione, educazione ed assistenza infermieristica, nonché opere di assistenza sociale in tutte le sue varie forme, e di beneficenza; che la Casa di Cura pertanto doveva considerarsi filiale della congregazione e semplice mezzo con il quale la congregazione stessa realizzava i suoi fini statutari, in particolare quelli di assistenza infermieristica e sociale; che la congregazione, sempre con riferimento alla sua Casa di Cura in Torino, non aveva stipulato convenzioni dirette con le istituzioni sanitarie locali, né assumeva un rapporto diretto di cura nei confronti dei pazienti ricoverati, poiché questi ultimi avevano il proprio medico curante privato; che l’opponente, sin da periodi anteriori al 1974 e a tutt’oggi, aveva sempre provveduto ad erogare a proprio carico al personale dipendente i trattamenti spettanti per carichi di famiglia, in conformità ed in misura non inferiore alla normativa Cuaf, assoggettando tali erogazioni a contribuzione, secondo quanto disposto dall’INPS; che, in conclusione, ci si trovava in presenza di un ente ecclesiastico il quale, in coerenza con statuto e legge, erogava, senza fini di lucro e tramite la Casa di Cura di sua proprietà (e da esso ente direttamente gestita), prestazioni di assistenza sanitaria e sociale, assumendosi inoltre il carico dei trattamenti di famiglia spettanti ai dipendenti, con la conseguente insussistenza dell’obbligo di iscrizione e di contribuzione alla Cuaf.

Sotto il profilo più strettamente normativo veniva in proposito osservato: che l’inesistenza di un obbligo di iscrizione di tal fatta doveva innanzitutto ricavarsi dalla norma fondamentale in materia, e cioè dagli artt. 33 e 34 del D.P.R. 797/1955, poiché le attività espletate dalla congregazione tramite la sua Casa di Cura non potevano ricondursi all’elencazione categoriale di cui al citato art. 33, in assenza di specifici decreti del Ministero del Lavoro richiamabili ex art. 34; che in ogni caso, quand’anche avesse dovuto ritenersi in qualche modo riconducibile al citato art. 33 anche l’attività espletata presso la Casa di Cura de qua, non avrebbe potuto comunque negarsi nella fattispecie la sussistenza della specifica esenzione prevista dall’art. 23 del D.L. n. 663/79 convertito con la L. n. 33/80, nella parte in cui dispone: “Agli istituti, enti ospedali e presidi delle USL che istituzionalmente erogano prestazioni del servizio sanitario nazionale o di assistenza sociale, anche in regime convenzionale, si applicano le norme di cui all’art. 7 della L; n. 252/74 purché non abbiano fini di lucro ed assicurino un trattamento per carichi di famiglia non inferiore a quello previsto per gli assegni familiari dal D.P.R. n. 797/75”; e poiché l’art. 7 citato dispone espressamente l’esenzione dell’assicurazione e contribuzione Cuaf nei confronti di partiti politici, organizzazioni sindacali, istituti di patronato e di assistenza sociale, associazioni nazionali di rappresentanza del movimento cooperativo, tale articolo avrebbe conseguentemente dovuto applicarsi anche all’opponente, proprio per effetto del richiamo di cui all’art. 23 bis; circa la portata dell’estensione, la congregazione osservava che l’esenzione stessa doveva decorrere sin dall’entrata in vigore della L. n.252/1974, e ciò sia per il richiamo espresso a tale legge effettuato dalla L. n. 33/80, sia perché, in caso contrario, sarebbe emersa una macroscopica disparità di trattamento tra i soggetti di cui alla L. del 1974 e gli enti ecclesiastici e collegati, con palese violazione dell’art. 3 della Costituzione.

In subordine la congregazione chiedeva di non essere assoggettata a sanzioni civili, quanto meno per il periodo anteriore al 1982, tenuto conto che era stato lo stesso INPS ad inquadrare parte opponente tra gli enti senza obbligo di iscrizioni alla Cuaf.

Nell’atto di opposizione, la congregazione formulava domanda riconvenzionale tesa a far dichiarare al Giudice la sussistenza dei requisiti soggettivi ed oggettivi per godere della fiscalizzazione degli oneri sociali, fiscalizzazione prevista a favore di enti, fondazioni ed associazioni senza fine di lucro, che erogano le prestazioni assistenziali di cui al D.P.R. 616/77; veniva inoltre chiesta la condanna dell’INPS, in via subordinata, al rimborso per assegni familiari (e contributi indebiti) a suo tempo erogati ipotizzando la insussistenza dell’obbligo di iscrizione alla Cuaf. La domanda posta in via riconvenzionale – in priorità – e relativa al riconoscimento del diritto alla fiscalizzazione degli oneri sociali ex D.P.R. n. 616/77, con corrispondente rimborso dei contributi a suo tempo versati, veniva rinunciata, sotto il profilo processuale all’udienza del 24.12.1991, e la relativa questione non costituisce piú oggetto del presente giudizio; per il resto, le residuali domande sono riportate in epigrafe.

Si costituiva in giudizio l’INPS, osservando innanzitutto che la eccepita prescrizione non doveva considerarsi decorsa, risultando essa interrotta dagli atti dell’Istituto, e sospesa ai sensi dell’art. 2 comma 19 del D.L. n. 483/83, convertito con la L. n. 638/83. Quanto al merito, veniva osservato che la Casa di Cura Suore Domenicane doveva considerarsi avente una sua autonoma soggettività giuridica, tenuto conto dell’attività svolta dalla medesima, dei rapporti interni che intercorrevano con il personale operante nell’ambito della stessa e considerando altresì i rapporti esterni con i pazienti, che pagavano la retta di degenza proprio alla Casa di Cura; inoltre quest’ultima aveva un proprio codice fiscale, una propria partita IVA, e rilasciava quindi fatture, redigendo autonomi bilanci; e proprio da tale autonomia patrimoniale discendeva l’inquadramento nel settore “commercio”, ai sensi dell’art. 2195 c.c., con conseguente addebito dei contributi dovuti alla Cuaf.

Inoltre l’Istituto avrebbe richiesto all’opponente di fornire gli elementi atti all’inserimento della stessa fra i soggetti destinatari di cui all’art. 23 bis della L. 33/80, elementi che non sarebbero stati forniti, non essendo stata provata in particolare la carenza della finalità di lucro e l’effettiva corresponsione del trattamento per carichi di famiglia ai propri dipendenti. Infine osservava l’Istituto che le domande riconvenzionali dovevano considerarsi inammissibili, non essendo stata seguita la procedura prevista dall’art. 418 c.p.c.

La controversia veniva istruita in numerose udienze comprese tra il 5 febbraio 91 e il 7 gennaio 1992, resesi necessarie per escutere alcuni testimoni e per acquisire la documentazione utile ai fini di causa. All’ultima udienza di cui sopra il Pretore decideva la lite sulla base di quanto esposto nella presente sentenza.

Diritto

Occorre preliminarmente osservare che in effetti il soggetto giuridico legittimato ad impugnare il D.I. opposto è la Congregazione costituitasi in giudizio, che risulta per tabulas titolare della Casa di Cura Suore Domenicane di Torino, e fatte salve le precisazioni che verranno in seguito formulate.

A seguito dell’emanazione della L. n. 33/80, la qualificazione giuridica di parte ricorrente richiede due diversi ordini di considerazioni, con riferimento al periodo antecedente e a quello successivo all’entrata in vigore della citata legge.

L’iter argomentativo è più agevole se si inverte l’ordine cronologico dei periodi stessi, ed il Pretore si accinge quindi ad analizzare la posizione giuridica della Congregazione sotto il vigore della L. n. 33/80.

A) Posizione debitoria di parte ricorrente nel periodo posteriore al 16.3.1980.

Per quanto concerne tale periodo, è in atti la lettera 30.1.1990, redatta dallo stesso Istituto convenuto, con la quale l’Istituto riconosce esplicitamente che “…codesta azienda può avere titolo all’esenzione dal contributo di cui sopra dal 16.3.1980, in virtù dell’art. 23 bis della L. 33/80, in presenza delle seguenti condizioni fra loro concorrenti: 1) assenza nelle attività rese di finalità di lucro; 2) corresponsione al personale dipendente di un trattamento per carichi di famiglia non inferiore a quello previsto per gli assegni familiari dal T.U. approvato con D.P.R. 30.5.1955 n. 797 e successive norme integrative e modificative”.

Non vi è quindi dubbio che, anche per l’esplicito parere dello stesso Istituto convenuto, alla Congregazione opponente, in presenza degli specifici requisiti di fatto richiesti dalla legge, si debba applicare l’art. 23 bis, che esonera appunto dal contributo di cui trattasi. Per quanto riguarda il requisito sopra indicato al punto 2, è sufficiente fare riferimento alle dichiarazioni rese dall’Ispettore INPS, Platé Piercarlo, che ha dichiarato di avere escluso l’esenzione dai versamenti Cuaf, per quanto riguarda la posizione della congregazione opponente, ipotizzando la mancanza del requisito relativo alla finalità di lucro, e avendo viceversa egli accertato la sussistenza del secondo requisito di cui sopra, relativo al trattamento sostitutivo per carichi di famiglia. Ed in proposito può cominciarsi con l’osservare che l’esonero di cui al citato art. 23 bis non si applica agli Istituti, enti, ospedali e presidi in sé, ma solo in quanto non abbiano appunto “fini di lucro”; la questione della finalità di lucro è già stata affrontata in varie decisioni della Corte di Cassazione, allorché si è occupata dell’applicabilità agli enti ecclesiastici dell’art. 18 della L. n. 300/1970, in relazione alla definizione dei soggetti destinatari della normativa stessa sulla base di quanto statuito dall’art. 35 della legge stessa. In particolare già con la sentenza n. 1138/1980 la Corte aveva modo di precisare che “gli enti ecclesiastici regolarmente riconosciuti, che esercitino professionalmente assistenza ospedaliera… hanno la qualità di imprenditore, ove la loro prestazione sia oggettivamente organizzata in modo che essa sia resa previo compenso, adeguato al costo del servizio, potenzialmente produttiva di utili (quale che ne sia poi la destinazione), a nulla rilevando, in concreto, che la gestione del servizio possa eventualmente risultare passiva. Ai predetti enti pertanto, si applica l’art. 18 dello statuto dei lavoratori, in ordine alla reintegrazione nel posto di lavoro dei loro dipendenti”. Tale definizione di attività lucrativa è stata altresì ripresa dalla recente sentenza n. 12039/1990, che ha ribadito che “gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, i quali esercitano professionalmente attività ospedaliera, assumono la qualità di imprenditori, nonostante il fine spirituale o comunque altruistico perseguito, ove la loro prestazione sia oggettivamente organizzata in modo che essa sia resa previo compenso adeguato al costo del servizio – dato che il requisito dello scopo di lucro assume rilievo meramente oggettivo, ed è collegato alle modalità dello svolgimento dell’attività – con la conseguente applicabilità nei confronti di tali enti dell’art. 18 della L. n. 300/1970…”.

In sostanza, a parere del Pretore, ed ancorché le decisioni citate siano state emesse in relazione alla qualifica imprenditoriale o meno degli enti de quibus, qualificazione rilevante ai fini dell’applicabilità dell’art. 35 L. n. 30/1970, la definizione di “finalità di lucro” non può che assumere determinante rilievo anche nel caso di specie, poiché, a ben vedere, in tanto l’art. 23 bis (esonerativo della contribuzione) può applicarsi ad un Istituto, ente, ospedale o presidio, in quanto tale ente non sia imprenditore; in sostanza, il coordinamento fra il citato art. 23 bis e l’art. 7 della L. 252/1974 consente l’esonero dalla contribuzione non solo ai soggetti dell’art. 1 di quest’ultima legge (e cioè ai partiti politici, alle organizzazioni sindacali, agli istituti di patronato e assistenza sociale e associazioni nazionali di rappresentanza, assistenza e tutela del movimento cooperativo riconosciute) ma anche ai citati istituti, enti, ospedali e presidi che eroghino prestazioni del servizio sanitario nazionale o di assistenza sociale, purché non siano “imprenditori”, e cioè purché “non abbiano fini di lucro”. Nel caso di specie, proprio alla luce delle definizioni fornite dalla S.C., e utilizzate per le ragioni accennate anche in questo caso, la finalità di lucro sembra senz’altro sussistere nelle modalità operative e organizzative con le quali esplica la sua funzione la struttura costituita dalla “Casa di Cura Suore Domenicane” ubicata in via Villa della Regina 19 in Torino. é infatti risultato vero quanto accertato dall’Ispettore Platé Piercarlo, che ha dichiarato in proposito: “per quanto concerne la finalità di lucro, ebbi modo di accertare che il servizio di tipo ospedaliero era reso mediante compenso degli assistiti, era rivolto alla generalità dell’utenza (e cioè non solo nei confronti di alcune categorie di utenti, ad esempio persone bisognose). Non ho avuto modo di analizzare la contabilità della Casa di Cura: mi sembra che comunque le rette corrispondessero ai valori di mercato”. In realtà può considerarsi accertato in istruttoria (per averlo affermato anche la teste Giovanna Fazzini, superiora pro tempore della Casa di Cura Suore Domenicane) che la Casa di Cura offre un servizio di assistenza sanitaria a chiunque chiede di essere ricoverato, senza che cioè venga individuata una specifica categoria di beneficiari, eventualmente in stato di bisogno; è in proposito previsto il pagamento di una retta per la degenza, del seguente ammontare: per la camera singola £. 270.000 giornaliere; per la camera doppia con accompagnatore £. 380.000 giornaliere; per un posto singolo in camera doppia £. 180.000, sempre giornaliere; tali somme comprendono sia l’ospitalità alberghiera sia l’assistenza infermieristica; non comprendono invece i costi delle operazioni che sono stabiliti con i singoli chirurghi. La teste Fazzini ha inoltre affermato che comunque la direzione decide in merito all’esonero del pagamento della retta in favore di religiosi, anche di altri ordini, e in favore di persone indigenti, oppure in caso di parenti dei medici che lavorano abitualmente presso la clinica; pur non avendo saputo precisare come era stato a suo tempo individuato il valore della retta, la testimone ha comunque dichiarato che attualmente i valori giornalieri vengono aggiornati in base agli indici ISTAT di anno in anno, chiarendo che l’incasso annuo è pari circa ad un miliardo e mezzo, mentre i costi di gestione risultano pari a circa un miliardo. Ebbene, proprio alla luce della citata giurisprudenza, ritiene il Pretore di non poter fare a meno di osservare che, nel caso di specie, lo scopo di lucro, sotto il profilo meramente “oggettivo”, sussiste indubbiamente, e deve essere riscontrato appunto nelle modalità con le quali si svolge l’attività assistenziale della clinica; infatti, non solo è assicurato un servizio di assistenza a chiunque ne faccia richiesta, ma le rette, indicizzate ogni anno, risultano, a parere del Pretore, senz’altro adeguate ai valori di mercato della prestazione fornita, con riferimento cioè alla mera prestazione alberghiera più l’assistenza infermieristica; ed in tale giudizio concorda il Pretore con quanto a suo tempo valutato dall’ispettore dell’INPS; che venga chiesta una retta corrispondente al valore di mercato della prestazione fornita, si ricava anche dall’affermazione di Suor Giovanna Fazzini, che ha fatto riferimento ad un incasso annuo pari al 150% circa dei complessivi costi di gestione, il primo corrispondendo ad un miliardo e mezzo di lire ed il secondo ad un miliardo; da notare che, a fronte di 33 dipendenti regolarmente stipendiati, prestano la loro attività nella clinica circa tredici suore, che non sono considerate come dipendenti: e poiché anche un’ipotetica valutazione del costo di mercato della prestazione fornita da queste tredici suore non sarebbe certo sufficiente a rendere conto dell’eccedenza di mezzo miliardo annuo, resta pur sempre ampiamente accertata la corrispondenza fra le rette richieste per i servizi resi e i costi di gestione sopportati; il margine di utili, ripetesi, è certamente reso piú esiguo da (ma altrettanto certamente non esclusivamente determinato da) una prestazione gratuita fornita dalle tredici suore, che con la loro attività collaborano a rendere massime le entrate nette della Casa di Cura, per poterle poi destinare alle vere finalità della Congregazione. Del pari, il margine di “utile” ottenuto dalla Casa di Cura nell’espletamento della sua attività assistenziale dimostra che criteri “sanamente lucrativi” sono stati adottati nella quantificazione del corrispondente pecuniario del servizio reso (e cioè della retta), in maniera tale da poter coprire eventuali prestazioni, gratuitamente rese in favore di religiosi o indigenti (l’incidenza quantitativa nell’economia generale della gestione della Casa di Cura di tale ultimo aspetto, questo sì di carattere caritativo, è rimasta peraltro non accertata in sede istruttoria, nessuno avendo formulato particolari istanze in proposito).

Sempre alla luce delle definizioni date nelle sentenze citate della S.C., il Pretore non ravvisa nessuna difficoltà nel ritenere senz’altro attendibili le dichiarazioni rese per iscritto da Suor Irma Deoto, in qualità di economa generale della Congregazione delle Suore Domenicane di Santa Caterina da Siena insegnanti ed infermiere, con sede a Roma, Via Massimi 114, secondo le quali il bilancio della Congregazione risulta complessivamente deficitario di alcune centinaia di milioni, quanto meno relativamente agli anni 1988, 1989 e 1990, poiché gli utili conseguiti dalla Casa di Cura di Torino, “… oltre che a sanare i disavanzi delle altre strutture assistenziali e scolastiche gestite in Italia, a mantenere l’attività di culto e di religione, e ad essere utilizzati per la formazione delle giovani aspiranti alla vita religiosa della Congregazione stessa, servono anche a sostenere le attività missionarie in Pakistan, in Nigeria e in Argentina, ove operano le religiose” (vedi dichiarazione senza data a firma di Suor Irma Deoto). E qui si ricade senz’altro nella “mancanza di finalità di lucro di tipo meramente soggettivo”, mancanza che il Pretore non ha alcuna difficoltà a riconoscere, poiché sembra francamente escluso che l’utile ricavato dalla gestione della Casa di Cura Suore Domenicane, organizzata certo imprenditorialmente e secondo sani criteri di mercato, venga poi utilizzato per il godimento dei singoli componenti della Congregazione stessa; tale utile, in realtà, non solo serve certamente a finanziare disavanzi di altre strutture, di tipo “oggettivamente non lucrativo”, ma addirittura anche alla formazione di giovani aspiranti alla vita religiosa ed ad attività missionarie in partibus infidelium.

Ma in proposito si è visto che tale destinazione “spirituale” o comunque altruistica, ancorché ben più remunerativa sotto un profilo forse oggi troppo negletto, non fa venir meno la qualità imprenditoriale al soggetto operante, quanto meno con riferimento alla struttura operativa considerata (certamente autonoma sotto il profilo organizzativo ex art. 2555 c.c.), ove appunto il compenso per il servizio fornito sia quantificato in misura adeguata al costo del servizio stesso, talché, come dice la Cassazione citata in precedenza, vi sia una potenziale produttività di utili (nel caso di specie anche attuale).

A questo punto è opportuno esplicitare un presupposto implicito nell’argomentazione di cui sopra: la Congregazione ricorrente, come può ricavarsi dallo stesso statuto depositato in atti, non persegue certo, come sua finalità, il lucro in sé e per sé; anzi, complessivamente considerata, l’attività della Congregazione non può certo essere considerata “imprenditoriale”, qualificazione che, anche se certo ha oggi perduto la connotazione negativa che ha avuto per un certo periodo negli anni passati, stride tuttora con l’esistenza di finalità caritative, altruistiche o missionarie; e tuttavia, se una ben circoscritta attività della Congregazione (al limite costituente un aspetto marginale rispetto al complesso delle varie attività) viene gestita con criteri “imprenditoriali”, e cioè con finalità di lucro, ecco che, in quest’ottica, non deve stupire che venga imputata al soggetto titolare della specifica attività considerata, la qualifica di imprenditore, poiché tale qualificazione rimane pur sempre circoscritta alla sola attività in questione; ed il caso di specie ben si presta alla esemplificazione: la Congregazione, che pure deve venir considerata come “imprenditore” nell’ottica della gestione della “Casa di Cura Suore Domenicane”, non per questo dovrà essere considerata “imprenditore” anche in occasione dell’espletamento delle altre attività che, costituendo il vero obiettivo “istituzionale” dell’ordine religioso, non perseguono finalità di lucro, anche se eventualmente tali attività richiedano l’impiego di personale dipendente (che, in tal caso sarà sottratto alla normativa sugli assegni familiari…); se ci è concesso il paragone, che sembra calzante in subiecta materia, mentre con riferimento alla prima attività (di tipo imprenditoriale) si tratta di dare a Cesare ciò che è di Cesare, nel secondo tipo di attività, che è quella che realizza la “vera” finalità dell’ente, ben altro è il Destinatario della prestazione. D’altro canto non deve nemmeno stupire che l’attività di tipo imprenditoriale prescelta dalla Congregazione per poter reperire le risorse (gli utili) da destinare alle citate “vere” finalità, venga espletata in un settore merceologico che risulti in qualche modo compatibile con la natura dell’ente stesso, quale appunto la sanità o l’istruzione.

Occorre solo notare ancora, in proposito, che la valutazione data da questo giudice nel caso di specie non si pone in linea conflittuale con quanto stabilito dal Tribunale di Torino con la sentenza n. 3083/1990, poiché nel caso sottoposto al giudizio del Tribunale l’appellato, Don Giuseppe Fassero (nella sua qualità di legale rappresentante della Parrocchia di S. Giacomo, titolare della residenza assistenziale denominata “Casa Margherita”), gestiva una struttura che, come si legge nella citata sentenza: “… si occupa di assistenza agli anziani,… all’epoca del giudizio avanti il Pretore aveva circa 28 ospiti, la cui retta si aggirava sulle seicentomila lire mensili, occupava circa dieci dipendenti e non usufruiva di alcuna sovvenzione pubblica, ma soltanto dei contributi dei parrocchiani, non essendo sufficienti le sole rette degli assistiti”; in quel caso sì che la finalità di lucro doveva essere esclusa, poiché l’utile non solo non sussisteva, ma non era strutturalmente perseguito, i servizi venendo resi a persone che, proprio per la loro posizione socio economica, non potevano comunque erogare una retta che potesse in qualche modo coprire anche solo le spese vive.

Il Pretore ritiene di dover precisare che, con le considerazioni di cui sopra, non si vuol certo sminuire il significato e l’importanza, proprio per restare in un’ottica di tipo umanitario, di un’attività che, “drenando” legittimamente risorse di persone abbienti, quali certo non possono non essere coloro che, di norma, utilizzano le prestazioni assistenziali della casa di cura di cui trattasi, consente poi di poter far confluire le risorse così “acquisite” in attività missionarie e di vera e propria formazione religiosa; con ciò il Pretore vuol solo ribadire che l’indubbia mancanza di una finalità egoistica del lucro (che viceversa è in genere legittimamente presente quale obbiettivo finale di un qualunque imprenditore che desideri incrementare la propria posizione economica) attiene alla mera destinazione finale degli utili perseguiti, e cioè all’aspetto soggettivo della finalità di lucro; mentre nel caso di specie l’unico elemento rilevante è l’oggettiva finalità di lucro, che, come si spera di aver dimostrato, risulta senz’altro individuabile nelle modalità operative e organizzative della Casa di Cura di cui trattasi.

B) Posizione debitoria di parte ricorrente nel periodo anteriore al 16.3.1980.

Per quanto riguarda tale periodo, può cominciarsi con l’osservare che il provvedimento 12.9.85, col quale l’INPS in seguito al riesame della pratica, disponeva il trasferimento della Casa di Cura Suore Domenicane dal ramo enti non soggetti agli assegni familiari al ramo commercio, di per sé non implica una illegittima o inammissibile modifica della classificazione precedentemente adottata; in proposito è infatti chiarissima la statuizione contenuta nella sentenza n. 381/1989, con la quale la Suprema Corte ha affermato che “il potere di inquadramento dell’INPS è delimitato dall’ambito di applicabilità dell’art. 33 del T.U. degli assegni familiari… e pertanto l’inquadramento non si estende al riconoscimento del fatto che un determinato datore di lavoro non è obbligato a pagare gli assegni familiari, riconoscimento che è fondato esclusivamente sulla sussistenza delle condizioni poste dalla legge per l’inapplicabilità di questo istituto… Ne deriva ancora che l’INPS aveva il potere-dovere di annullare il provvedimento in questione, non appena avesse verificato la mancanza dei presupposti necessari per la sua legittimità; e questo senza bisogno di particolari formalità, data la preminenza assoluta del dovere di autotutela, nel caso di atti amministrativi compiuti in violazione di legge.

La resistente perciò non ha da dolersi dello strumento adoperato dall’istituto per correggere la precedente violazione, né degli effetti che ne derivano” (Cass. sopra citata).

Ciò chiarito, si tratta solo di vedere se era giuridicamente fondata la decisione dell’INPS di trasferire dal ramo “enti esonerati” al ramo “commercio” il soggetto (“Casa di Cura Suore Domenicane”) che risultava il datore di lavoro dei dipendenti assicurati presso l’Istituto. Esclusa nel caso di specie l’applicabilità dell’art. 79 della L. n. 797/1955 (e nemmeno parte opponente, per la verità, ha invocato l’applicazione di tale articolo, che dichiara inapplicabili le disposizioni sugli assegni familiari, oltre che alle province e ai comuni, anche alle istituzioni pubbliche di beneficenza e agli altri enti pubblici, e che quindi non concerne la congregazione), si tratta di valutare se la Casa di Cura in questione rientri tra i soggetti tenuti al contributo ex art. 33 della L. n. 797/55, oppure tra i soggetti previsti dall’art. 34, che in tanto dovevano considerarsi tenuti a tale contribuzione, in quanto specificamente individuati con decreto del Ministero del Lavoro.

La questione deve quindi essere ricondotta, a sua volta, alla possibilità di sussumere la clinica fra le “aziende esercenti attività di natura commerciale”, che il citato art. 33 assoggetta alla contribuzione de qua. E poiché le modalità operative ed organizzative con cui la clinica, anche per il periodo antecedente al 1980, espletava la sua attività, non risultano essere state modificate (almeno sulla base degli elementi forniti dalle parti), ritiene il Pretore che, anche per il periodo antecedente, appunto, al 1980, l’INPS abbia correttamente provveduto a correggere il precedente erroneo inquadramento (che implicava l’esonero), riconducendo la clinica gestita dalla congregazione opponente alla tipologia delle “aziende commerciali”. Ed in proposito non ci si può che richiamare a quanto in precedenza argomentato, osservando che la clinica in sostanza ha sempre fornito uno specifico servizio di tipo sanitario-assistenziale, a chiunque ne facesse richiesta e fosse in grado di erogare il pattuito corrispettivo, che abbiamo visto essere stato sempre quantificato secondo una “oggettiva finalità di lucro”, ancorché tale finalità sia stata pregevolmente conseguita in rapporto teleologico con le “vere” finalità della congregazione e cioè la formazione spirituale e il mantenimento di missioni religiose all’estero. Del resto, una oggettiva e “lessicale” coincidenza tra “azienda commerciale” e “imprenditore che eserciti un’attività economica organizzata al fine… dello scambio… di servizi con finalità di lucro” (v. art. 2082 c.c.) è senz’altro rintracciabile in una serie di decisioni della Suprema Corte, ancorché attinenti alle fattispecie più varie; ed in proposito ci si può richiamare alla sentenza n. 446/90, che definisce intrinseca al concetto di imprenditore la finalità di lucro; del pari è proprio individuato nello “scopo di lucro” il carattere commerciale di un’attività scolastica, in contrapposizione ad eventuali finalità filantropiche (Cass. n. 5186/88, Cass. n. 835/88 e Cass. n. 6420/87, quest’ultima particolarmente interessante, perché, sempre riferendosi all’esercizio di attività scolastica, definisce “struttura imprenditoriale esercitata a fine di lucro” lo scambio di determinati insegnamenti contro un corrispettivo tendenzialmente idoneo a ricompensare i fattori produttivi impiegati e ad assicurare un congruo utile, così configurandosi un’attività di natura commerciale, definizione che ben sembra attagliarsi proprio al caso di specie, sol che si sostituisca la prestazione “insegnamento” con quella “assistenza alberghiero-sanitaria”); la imprescindibile connessione fra impresa commerciale e relativo intento di lucro, è affermata altresì dalla Cass. n. 3856/80, anche se con riferimento all’eventuale fallimento di società cooperative con scopo mutualistico. L’accertata “oggettiva” finalità di lucro, in aggiunta al fatto (pacifico) che la Casa di Cura in questione ha sempre offerto prestazioni alberghiero-sanitarie a fronte del pagamento di adeguate rette da parte dei propri clienti, inducono quindi il Pretore a ritenere corretta la valutazione di “impresa commerciale” data dall’INPS nei confronti della “Casa di Cura Suore Domenicane S. Caterina da Siena”, struttura che risulta pacificamente autonoma sotto il profilo meramente organizzativo, rispetto alla piú ampia Congregazione di cui essa, come già detto in precedenza, rappresenta uno strumento (autonomia organizzativa che si ricava dalle stesse missive della Casa di Cura, nelle quali tale si qualificava nei confronti dell’INPS, e tenuto conto del fatto che la Casa di Cura come tale altresì si qualificava nelle denunce per il versamento di contributi dalla medesima inoltrate allo stesso istituto previdenziale). Questa precisazione è necessaria, a parere del Pretore, per ribadire quanto già in precedenza affermato, e cioè che da un lato l’opposizione è stata correttamente formulata dalla Congregazione delle Suore Domenicane di S. Caterina da Siena, soggetto giuridico titolare della Casa di Cura Suore Domenicane, e dall’altro lato che è tuttavia a quest’ultima struttura che si deve fare riferimento, data la sua autonomia organizzativa nello scambio dei servizi di cui trattasi, per valutare la sussistenza o meno del carattere di “impresa commerciale” in capo alla struttura stessa, e quindi, per riverbero, alla Congregazione titolare.

Le considerazioni di cui sopra consentono altresì di superare la eccezione di incostituzionalità, formulata in subordine dalla congregazione, e relativa al fatto che l’art. 1 della L. n. 252/74 non comprendeva, oltre ai partiti politici, alle organizzazioni sindacali e agli istituti di patronato e assistenza, anche gli enti ecclesiastici quali quello di cui trattasi; la accertata “oggettiva finalità di lucro” infatti, implica l’inesistenza della ipotizzata disparità di trattamento tra enti che viceversa parte ricorrente opina essere, in coerenza con la sua non condivisibile progettazione, omogenei.

Parte opponente deve quindi considerarsi assoggettata alla normativa sugli assegni familiari, quale azienda commerciale, ex art. 33 L. 797/55, relativamente a tutto il periodo preso in considerazione del decreto ingiuntivo opposto, non ricorrendo nemmeno l’esonero di cui al D.L. n. 663/79, convertito con la L. n. 33/80. L’entità delle somme azionate col decreto ingiuntivo deve però ancora essere quantificata in prosieguo di istruttoria, tenuto conto della eccezione di prescrizione formulata dall’opponente.

Per ciò che concerne la domanda riconvenzionale formulata dalla Congregazione in via subordinata all’accoglimento della tesi dell’INPS, osserva il Pretore che tale domanda è senz’altro ammissibile, non richiedendo essa gli adempimenti di cui all’art. 418 c.p.c., a differenza di quanto ha erroneamente sostenuto l’INPS. é pacifico infatti in giurisprudenza che, mentre al convenuto in opposizione, quale attore sostanziale, è inibita la possibilità di proporre domande riconvenzionali, poiché egli stesso ha delimitato l’ambito del thema decidendum richiedendo uno specifico decreto ingiuntivo, viceversa non è certo inibito all’opponente, convenuto sostanziale, di chiedere l’accoglimento non solo dell’opposizione, ma anche di altre domande, purché connesse con quella principale e senza eccedere la competenza per valore del giudice adito, ex art. 36 c.p.c. (v. Cass. n. 2865/90, Cass. n. 4795/88, Cass. n. 5150/87). E poiché sia l’opposizione che le eventuali connesse “domande riconvenzionali in via sostanziale” devono essere formulate col ricorso introduttivo da parte dell’opponente, non risulta invocabile né sotto il profilo giuridico né sotto il profilo meramente logico (i due profili non necessariamente sempre coincidono) la disposizione che richiede a pena di decadenza l’istanza esplicita di fissazione di una nuova udienza ex art. 418 c.p.c.

Quanto al merito della domanda riconvenzionale formulata in via subordinata, in precedenza ammessa, ritiene il Pretore che la valutazione delle varie componenti in cui essa è articolata richiede un’ulteriore istruttoria, per la quale si è provveduto con separata ordinanza.

(omissis)