Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 2 Dicembre 2003

Sentenza 27 aprile 1993, n.4953

Cassazione. Prima Sezione Civile. Sentenza 27 aprile 1993, n. 4953.

(Rossi; Berruti)

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo il ricorso lamenta la violazione dell’art. 2697 c.c., nonché l’omissione di motivazione su di un punto decisivo della causa. Afferma infatti che la Corte di merito, attribuendo alla sentenza ecclesiastica una portata ulteriore a quella relativa alla sola nullità del matrimonio, e capovolgendo l’onere della prova, anziché richiedere al Daccò di provare che il suo affermato stato morboso era noto alla Coppi, hanno invece erroneamente ritenuto che incombesse alla medesima la prova che il marito le aveva nascosto tale stato.

La doglianza infondata. Va premesso che l’art. 129 bis c.c., sebbene formulato in modo lessicalmente diverso dall’art. 139 c.c., comprende, nella sua portata sicuramente piú ampia, anche l’ipotesi disciplinata da quest’ultima norma, costituita dalla conoscenza della causa di nullità e dall’onere di comunicarla all’altra parte. Pertanto, per l’affermazione della responsabilità in questione e, prima ancora, dell’imputabilità richiesta dalla norma, non sufficiente la pura e semplice riferibilità oggettiva della causa di invalidità, e neppure la consapevolezza di essa. Occorre invece, oltre alla consapevolezza di quei fatti che, con giudizio ex post, vengono definiti invalidanti, anche quella della loro attitudine invalidante. E la prova di tale consapevolezza e del comportamento omissivo o commissivo del responsabile, incombe, secondo le regole generali, su chi afferma l’esistenza di tale imputabilità (Cass. n. 2862 del 1984 e Cass. n. 4649 del 1986).

Ciò premesso va osservato che la Corte di merito, facendo corretta applicazione del cennato principio, ha concluso per l’inesistenza in atti della prova della conoscenza da parte del Daccò del fatto di trovarsi in una situazione psicologica invalidante il matrimonio. Il giudice di merito, utilizzando la sentenza ecclesiastica in modo legittimo, ha accertato che il Daccò si trovava, al momento della prestazione del consenso matrimoniale, in uno stato morboso tale da renderlo inabile all’assunzione dei doveri della vita matrimoniale, e che era in preda a psicosi al limite dello stato dissociativo, con manifestazioni fobiche ed ossessive. La Corte, analogamente, ha accertato che il Daccò ignorava la propria malattia, e quindi ignorare che essa potesse essere causa di nullità del matrimonio (vedi al foglio 16 della sentenza impugnata). Tale accertamento di fatto appartiene al potere del giudice di merito, e poiché stato condotto in modo rigoroso, e motivato con argomenti compiuti e persuasivi, esenti da vizi, incensurabile in questa sede.

2. Con il secondo ed il terzo motivo, che possono essere esaminati insieme perché contengono doglianze in parte identiche ed in parte complementari, il ricorso lamenta piú violazioni della norma dell’art. 2727 c.c., nonché i vizi di illogicità e di incompletezza della motivazione. Afferma infatti che la Corte di merito prevenuta alla conclusione criticata perché ha utilizzato male l’istituto della presunzione, valorizzando indizi secondari e non concludenti ed omettendo di considerare l’insieme delle risultanze. In tal modo essa non avrebbe rilevato che il Daccò non ebbe mai ad informare la moglie del suo stato, tanto che la stessa, nel giudizio ecclesiastico, aveva sempre sostenuto la sua perfetta sanità mentale. Afferma pure che il fatto che il Daccò, successivamente, si sia nuovamente sposato, dimostra che il suo preteso stato morboso non era comunque riscontrabile dai terzi, tanto che altra donna, come dapprima la ricorrente, ha per l’appunto contratto con lui un matrimonio.

Anche queste censure, alla luce ed in conseguenza del principio richiamato nella disamina del primo motivo, sono infondate. Infatti nella ricerca dell’imputabilità di cui all’art. 129 bis c.c. rileva essenzialmente la conoscenza dello stato invalidante da parte del coniuge che all’invalidità stessa ha dato luogo. Nella specie dunque rileva, come si detto, la conoscenza o non da parte del Daccò, dell’attitudine invalidante del suo stato verso il matrimonio. E tale conoscenza stata esclusa dal giudice del merito.

3. Con il terzo motivo il ricorso lamenta l’assenza di motivazione su di un punto decisivo della causa. Afferma infatti che la Corte non ha esaminato circostanze specifiche che dimostrerebbero le perfetta normalità sociale del Daccò, date anche la sua partecipazione efficace alla vita accademica quale docente universitario. La doglianza, che, insieme, sembra censurare tanto l’accertamento dello stato psicologico del Daccò da parte del giudice ecclesiastico, quanto ribadire l’impossibilità da parte della Coppi di percepire lo stato morboso del marito, comunque da respingere. Essa infatti tende a reintrodurre nel giudizio una ricostruzione dei fatti che invece, per le ragioni già espresse, non merita alcuna censura.

4. Con il quarto motivo il ricorrente lamenta la violazione dei principi di cui all’art. 116 c.p.c. Afferma infatti che in atti vi la prova dei dubbi del Daccò in ordine al matrimonio e quindi della sua effettiva conoscenza dello stato morboso in questione. Lamenta, quindi, che di tali risultanze istruttorie non vi sia cenno nella motivazione.

La doglianza infondata. Va osservato, in via di principio, che nutrire dubbi sul matrimonio che si sul punto di concludere non , di per sé, segno di conoscenza di una eventuale inattitudine ad assumerne gli obblighi. Ma a parte ciò, il giudice di merito ha tenuto conto dei dubbi suddetti e del continuo ricorso del Daccò, per affrontarli e risolverli, al consiglio di amici e di religiosi. Anzi la Corte li ha considerati (foglio 17) esplicitamente, ed ha rilevato che essi erano per l’appunto dubbi sull’opportunità di concludere le nozze “con una determinata persona”, non tanto sull’istituto del matrimonio, e soprattutto che non implicavano affatto il timore che la propria situazione psicologica fosse tale da renderlo incapace di assumerne gli obblighi. Anche in considerazione, nota appunto la sentenza, del fatto che alle sue richieste di aiuto e consiglio i religiosi che consultava rispondevano consigliandogli le nozze.

5. Con il quinto motivo il ricorrente afferma la violazione dell’art. 129 c.c. Precisa infatti che l’interpretazione fornita dai giudici di merito della norma in questione tradisce lo spirito della legge, che vorrebbe tutelare la lealtà di rapporti tra coniugi, obbligandoli a comunicarsi l’eventuale esistenza di una causa di nullità del matrimonio. E tale spirito, secondo il ricorrente, imporrebbe di individuare la consapevolezza della causa invalidante da parte del Daccò, giacché questi non poteva non conoscere i fatti concreti, costituiti dai suoi dubbi, dai suoi scrupoli e dalla sua estrema incertezza nel decidersi a concludere il matrimonio.

La doglianza, che riecheggia sostanzialmente il motivo conduttore di quasi tutto il ricorso, infondata. Si precisato nell’esaminare il primo motivo, il tipo di consapevolezza che la giurisprudenza della Corte Suprema richiede per individuare la mala fede del soggetto cui si pretende di imputare la nullità del matrimonio. L’elemento che costituisce tale mala fede, ovvero la specifica consapevolezza della natura invalidante di taluni fatti e non dunque dei soli fatti, per quanto oggettivi, stata esclusa dal giudice del merito. Tale esclusione non può essere superata con il rilievo della buona fede della Coppi.

6. Con l’ultimo motivo la ricorrente lamenta la violazione degli artt. 147, 148, 155 c.c., attraverso l’arbitraria riduzione, operata dalla Corte di merito, dell’assegno mensile fissato dal Tribunale, e l’omissione di motivazione sul punto.

Anche quest’ultima doglianza infondata. La Corte d’appello ha provveduto come era suo dovere a riesaminare le situazioni economiche dei due ex coniugi, ed a compararle alla luce del motivo di gravame di cui era investita, ed ha ritenuto che i pesi economici derivanti al Daccò dalla nuova famiglia giustificassero la diminuzione dell’assegno posto a suo carico. La conclusione in parola stata raggiunta sulla base di un accertamento di fatto motivato in modo logico ed esauriente e quindi, anch’esso, incensurabile in questa sede.

(omissis)