Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

Olir

Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 14 Ottobre 2003

Sentenza 26 marzo 1993, n.3635

Cassazione. Prima Sezione Civile. Sentenza 26 marzo 1993, n. 3635.

(Borruso; Bonomo)

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso il P.M. denuncia violazione di norme di diritto, in relazione agli art. 797 n. 4 cod. proc. civ. ed all’art. 4 lett. b n. 2 del Protocollo addizionale all’accordo ratificato con legge 25 marzo 1985 n. 121 per essere stata la sentenza ecclesiastica di primo grado prodotta solo in epoca successiva alla deliberazione della sentenza della Corte d’appello.

Poiché la sentenza ecclesiastica di cui si chiede la declaratoria di efficacia la sentenza di primo grado, confermata in secondo grado e munita del visto di esecutorietà del superiore organo ecclesiastico di controllo, entrambe le sentenze avrebbero dovuto essere prodotte per consentire alla Corte di appello di verificare l’intervenuta esecutività secondo il diritto canonico, ai sensi del citato art. 4.

Il motivo non appare fondato.

É opportuno premettere un esame della normativa in materia.

La dichiarazione di efficacia nella Repubblica italiana delle sentenze di nullità di matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici regolata dall’art. 8 dell’Accordo del 18 febbraio 1984, di revisione del Concordato Lateranense del 1929, e dall’art. 4 del protocollo addizionale, resi esecutivi con legge 25 marzo 1985 n. 121.

Ai sensi dell’art. 8 n. 2 lett. c) dell’accordo, la Corte d’appello dichiara l’efficacia della sentenza ecclesiastica quando accerti, non solo che sussista la competenza giurisdizionale del giudice ecclesiastico (lett. a) e che nel procedimento ecclesiastico sia stata assicurato alle parti il diritto di agire e resistere in giudizio in modo non difforme dai principi fondamentali dell’ordinamento italiano (lett. b), ma anche che ricorrono le altre condizioni richieste dalla legislazione italiana per la dichiarazione di efficacia delle sentenze straniere.

Tra queste l’art. 797, n. 4, cod. proc. civ. prevede il passaggio in giudicato della sentenza straniera secondo la legge del luogo in cui essa stata pronunciata. E, ai fini dell’applicazione del citato art. 797, l’art. 4, lett. b) del protocollo addizionale stabilisce che i richiami fatti dalla legge italiana alla legge del luogo in cui si svolto il giudizio si intendono fatti al diritto canonico (numero 1) e che si considera passata in giudicato la sentenza che divenuta esecutiva secondo il diritto canonico (punto 2).

Dall’insieme delle disposizioni citate deriva, quindi, che per poter dichiarare l’efficacia della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio la Corte d’appello tenuta ad accertare che essa sia divenuta esecutiva secondo il diritto canonico.

In tale ordinamento vale la regola della doppia pronuncia conforme, per cui la sentenza che ha dichiarato la nullità del matrimonio in primo grado deve essere confermata in grado di appello con un decreto o con una seconda sentenza (canone 1684 § 1).

L’ipotesi della conferma a mezzo decreto estranea al caso in esame, in quanto la sentenza dichiarativa della nullità del matrimonio, resa in primo grado, stata appellata dal difensore del vincolo ed il tribunale di appello, anziché confermare direttamente la decisione, ha ammesso la causa all’esame ordinario del secondo grado (canone 1682 § 2).

La questione sottoposta a questa Corte se, per accertare l’esecutività della pronuncia ecclesiastica in base alla regola sopra menzionata, fosse necessario procedere all’esame della sentenza ecclesiastica di primo grado.

Ritiene il collegio che la questione debba risolversi in senso negativo, potendo la sussistenza della doppia pronuncia conforme in ordine alla nullità del matrimonio ricavarsi dal decreto di esecutività del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica e dalla stessa sentenza di secondo grado, tenuto conto dei riferimenti alla precedente fase del giudizio, in essa contenuti.

Pertanto, essendo pacifico che in atti al momento della decisione vi fossero sia il menzionato decreto che la sentenza di secondo grado, seppure nel testo latino, non incorsa nel lamentato errore di diritto la sentenza della Corte d’appello che ha ricavato l’esecutività della pronuncia ecclesiastica dalla documentazione in suo possesso.

Con il secondo motivo di ricorso si sostiene che il procedimento nullo per violazione dell’art. 123 cod. proc. civ., in quanto la sentenza ecclesiastica di secondo grado prodotta in giudizio era redatta in latino, mentre le copie informi in lingua italiana delle sentenze di primo grado e di secondo grado erano state depositate solo dopo la deliberazione della sentenza della Corte di appello. Poiché la sentenza ecclesiastica non era di chiara e facile comprensione, il P.M. aveva chiesto, ai sensi del citato art. 123, l’acquisizione di una copia in lingua italiana, ma la Corte di appello aveva disatteso la richiesta.

Anche questo motivo non appare fondato.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte il principio della obbligatorietà della lingua italiana si riferisce agli atti processuali in senso proprio e non anche ai documenti prodotti dalle parti e, quando questi ultimi sono redatti in una lingua straniera, il giudice, ai sensi dell’art. 123 cod. proc. civ., ha la facoltà e non l’obbligo di nominare un traduttore, con la conseguenza che il mancato esercizio di tale facoltà, specie se si tratti di un testo di facile comprensibilità sia da parte dello stesso giudice che dei difensori, non può formare oggetto di censura in sede di legittimità (Cass. 19 maggio 1990, n. 4537; nello stesso senso Cass. 9 settembre 1987, n. 7232; Cass. 5 aprile 1984, n. 2217; Cass. 18 febbraio 1982, n. 1013 ed altre). In particolare, con riferimento al processo di delibazione di una sentenza ecclesiastica di nullità di matrimonio stato ritenuto che la circostanza che essa contenesse alcune parti in latino non comporta l’obbligo della traduzione nella lingua italiana, ma solo la facoltà per il giudice di disporla, per il caso in cui non conosca la lingua latina ovvero sia insorta controversia fra le parti sul significato di determinate espressioni della sentenza delibanda (Cass. 12 giugno 1980, n. 3745).

Alla luce di tali principi, che il Collegio condivide pienamente, deve escludersi che la Corte d’appello fosse tenuta ad acquisire una copia in lingua italiana della sentenza ecclesiastica di secondo grado.

Il ricorso va, pertanto, respinto.

(omissis)