Sentenza 25 settembre 2006, n.19381
Tribunale di Roma. Sezione terza civile. Sentenza 25 settembre 2006, n. 19381: “Uso del simbolo tradizionale dello scudo crociato”.
Giudice Manzo – Ricorrente Partito della Democrazia Cristiana
Fatto e svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 16 settembre 2002 il Partito della Democrazia Cristiana (in persona del segretario amministrativo Giancarlo Travagin e del segretario politico Angelo Sandri) evocava in giudizio il Partito dei Democratici Uniti – CDU chiedendo che fosse inibito al convenuto di impedire e comunque di ostacolare in qualunque occasione o manifestazione esso attore nell’uso del nome “Democrazia Cristiana” e del simbolo tradizionale dello scudo crociato con scritta “Libertas”.
Vinte le spese.
Si costituiva ritualmente il Partito politico C.D.U. – Cristiani Democratici Uniti – che eccepiva il difetto di legittimazione attiva dell’associazione attrice e l’infondatezza della domanda, posto che il Partito della Democrazia Cristiana si era nel tempo trasformato in P.P.I. e che fra quest’ultimo ed esso convenuto erano intervenuti accordi negoziali, che impegnavano entrambi i contraenti, fra l’altro, ad impedire che terzi assumessero il nome ed il simbolo del Partito della Democrazia Cristiana.
Chiedeva il rigetto della domanda con il favore delle spese e che in accoglimento di domanda riconvenzionale, che spiegava, che fosse inibito al Partito della Democrazia Cristiana l’uso del nome e del simbolo in contestazione.
Intervenivano ad adiuvandum i soggetti indicati in epigrafe.
Veniva emesso in sede di reclamo ex art. 669 terdecies c.p.c. provvedimento d’urgenza in favore del C.D.U., nei termini richiesti con la domanda riconvenzionale.
Nel corso del processo si costituivano per parte attrice con nuovo difensore due diversi soggetti (vedi epigrafe) con la medesima denominazione “Partito della democrazia Cristiana”, ciascuno dei quali si riteneva legittimato a proseguire il processo e chiedeva l’esclusione dell’altro.
Acquisita varia documentazione, all’udienza del 20 marzo 2006 le parti precisavano le conclusioni ed il Giudice, assegnati i termini di cui all’articolo 190 Cpc, riservava la causa per la sentenza.
Motivi della decisione
La domanda principale è fondata e merita accoglimento; quella riconvenzionale è infondata e va rigettata.
Va anzitutto chiarito che unico soggetto legittimato per parte attrice è il Partito della Democrazia Cristiana in persona del segretario politico Giuseppe Pizza e del segretario amministrativo Armando Lizzi, rispettivamente eletti, in sostituzione di Angelo Sandri e di Giuseppe Travagin (che appaiono nella prima costituzione in giudizio con l’atto di citazione) nel congresso nazionale del partito del 5 – 7 dicembre 2003 e nel consiglio nazionale del 17 gennaio 2004, come da documenti in atti non impugnati o disconosciuti.
L’altra formazione politica che ha assunto la medesima denominazione e che sta in giudizio in persona di Palmiro Scalabrin ed Angelo Sandri va quindi estromessa dal processo, sì come parte estranea.
Assume e documenta il CDU che il 18 gennaio 1994 il Consiglio Nazionale della Democrazia Cristiana deliberò l’assunzione della denominazione Partito Popolare Italiano – P.P.I. e che, quest’ultimo aveva legittimamente disposto in favore del C.D.U. (nei termini reclamati con la domanda riconvenzionale) del vecchio nome e del simbolo del partito con atto del 12 ottobre 1999 (cosiddetto patto di Cannes).
Eccepisce l’attore che unico organo del partito che poteva disporre il mutamento del nome del partito era il congresso, avendo il consiglio nazionale solo compiti di indirizzo politico.
Ritiene il giudicante che sia fondata la prospettazione eccezione dell’attore (convenuto in riconvenzione), dal momento che costituendo il nome ed il simbolo patrimonio dell’associazione ed essendo essi fissati dallo statuto, la loro modificazione non poteva che avvenire che per deliberazione dell’assemblea dell’associazione (id est il congresso), ai sensi degli articolo 16 e 21 Cc e che le deliberazioni di altri organi non potevano che assumere il valore di mera proposta al congresso, mai però tenutosi con quell’ordine del giorno.
Consegue che il soggetto politico che assume la denominazione di Partito Popolare Italiano, P.P.I., e che contrasse patti con il C.D.U. non era affatto il partito della Democrazia Cristiana, ma altro soggetto giuridico, che, pertanto, non poteva disporre del patrimonio altrui.
Ad analoghe conclusioni, peraltro, erano addivenuti due diversi organi giurisdizionali, aventi parti parzialmente coincidenti con quelle del presente processo: Il Tar Abruzzo Pescara 284/99 (secondo cui “non risulta innanzi tutto in alcun modo provato che il Partito Popolare Italiano sia sul piano formale e sostanziale il continuatore della Democrazia Cristiana”) e Cassazione Civile sezione lavoro 6393/98, che giunse ad affermare che, in difetto di prova certa dell’estinzione della Democrazia Cristiana, le nuove formazioni politiche che intendevano acquisire l’eredità della Democrazia Cristiana erano in realtà nuovi gruppi costituiti da ex democristiani, che erano reduci dal vecchio partito e che nessun diritto potevano, quindi, vantare.
Se, dunque, non è provato che il Partito Popolare P.P.I. fosse erede in senso formale e sostanziale del partito della Democrazia Cristiana per difetto di deliberazione dell’organo che aveva poteri dispositivi, ossia del Congresso, le conseguenze sono che il Partito della Democrazia Cristiana non si è estinto e che il P.P.I. non poteva disporre del suo patrimonio, sia pure limitatamente al nome ed al simbolo, onde l’atto di disposizione invocato in suo favore dal C.D.U., provenendo a non domino, non vincolo il partito della Democrazia Cristiana, che, pertanto, ha pienamente diritto a farne uso, senza essere molestato da chicchessia.
Conclusivamente va accolta la domanda principale e rigettata quella riconvenzionale, con revoca del provvedimento cautelare emesso in favore del C.D.U.
Le diverse contrastanti pronunce in materia costituiscono giusto motivo per dichiarare integralmente compensate fra le parti le spese processuali.
PQM
Il Tribunale, definitivamente pronunciando, così provvede:
Ordina l’estromissione dal processo del “Partito della Democrazia Cristiana” costituito in persona di Palmiro Scalabrin ed Angelo Sandri.
Accoglie la domanda principale proposta dal Partito della Democrazia Cristiana costituito in persona di Armando Lizzi e Giuseppe Pizza e per l’effetto condanna il partito Cristiani Democratici Uniti – C.D.U. – a cessare ogni molestia nei confronti dell’attore in ordine all’uso in qualunque sede del nome Democrazia Cristiana e del simbolo costituito da uno scudo crociato con scritta Libertas.
Rigetta la domanda riconvenzionale.
Revoca l’ordinanza cautelare collegiale di questo Tribunale del 7 aprile 2004 di inibizione al Partito della Democrazia Cristiana dell’uso del nome e del simbolo.
Dichiara integralmente compensate fra le parti le spese processuali.
Autore:
Tribunale Civile
Dossier:
Italia, Paesi Unione europea, _Simboli religiosi_
Nazione:
Italia
Parole chiave:
Simboli, Partiti politici, Scudo crociato, Democrazia cristiana, Partito popolare italiano
Natura:
Sentenza