Sentenza 25 marzo 2003, n.8/SSRR/QM
Corte dei Conti. Sezioni Riunite.
Sentenza 25 marzo 2003, n. 8/SSRR/QM
Presidente – Castiglione Morelli
Est. – Di Salvo
(omissis)
Considerato in Diritto
1. Nel corso di un giudizio sull’appello in materia pensionistica proposto dal Ministero dell’economia e delle finanze avverso una sentenza della Sezione giurisdizionale regionale per l’Emilia Romagna con la quale è stato riconosciuto il diritto di una cittadina italiana appartenente alla comunità ebraica a conseguire l’assegno vitalizio di benemerenza previsto dall’art. 4 della legge 24 aprile 1967 n. 262 come sostituito dall’art. 3 della legge 22 dicembre 1980 n. 932, è stata rimessa a queste Sezioni riunite, con ordinanza del giudice d’appello, la risoluzione della seguente questione di massima: «se le misure concrete di attuazione della normativa antiebraica (tra cui i provvedimenti di espulsione dalle scuole pubbliche) debbano considerarsi mera soggezione alla legislazione razziale, o, all’opposto, possano in astratto ritenersi idonee a concretizzare una specifica azione lesiva proveniente dall’apparato statale e intesa a ledere la persona colpita nei suoi valori inviolabili».
Nell’evidenziare il contrasto giurisprudenziale realizzatosi nella subiecta materia, il giudice remittente ha fatto riferimento, da un lato, a una pronuncia che ha ritenuto il rifiuto di iscrizione alla scuola pubblica azione lesiva utile sic et simpliciter a concretizzare uno dei presupposti previsti dalla legge per il conferimento dell’assegno di benemerenza (Sezione prima giurisdizionale centrale d’appello, 27 novembre 2002, n. 418), e ha richiamato – sul contrapposto versante restrittivo – pronunce che, pur non escludendo parimenti e con uguale fermezza la lesività («gravissima» e «deprecabile») di valori inviolabili della persona derivante dalla generalizzata applicazione delle cc.dd. «leggi razziali» (ivi inclusi i provvedimenti di espulsione dalla scuola pubblica), tuttavia hanno escluso la rilevanza di tale «generica» lesività al fine pratico del riconoscimento del diritto all’assegno di benemerenza previsto dalla legge in favore dei perseguitati razziali, ravvisando la necessità che a tale scopo sia comprovato caso per caso un quid pluris rispetto alla «semplice produzione degli effetti generalmente derivanti a danno di tutti i cittadini di religione ebraica», così negando l’allargamento della nozione di violenze e di sevizie prevista dalla legge alle violenze morali derivanti dalla pedissequa, ancorchè fisicamente non lesiva, esecuzione della normativa antiebraica da parte di persone alle dipendenze dello Stato o appartenenti a organi dello Stato o del regime fascista (Sezione prima giurisdizionale centrale d’appello, 1° novembre 2002, n. 392 e 15 luglio 2002, n. 240; Sezione terza giurisdizionale centrale d’appello, 26 febbraio 2002, n. 57, menzionate nell’ordinanza di remissione).
2. Prima di passare all’esame di merito, va rilevato – con riferimento alle questioni di legittimità costituzionale (nella specie, peraltro, asserite ma non formalizzate) cui hanno fatto riferimento su contrapposti versanti argomentativi sia la difesa dell’appellata sia l’Avvocatura generale dello Stato – che, come più volte sostenuto da queste Sezioni riunite, il giudizio per la risoluzione delle questioni di massima, in quanto concernente norme dell’ordinamento quali vigenti e applicabili, non è la sede propria nella quale possano trovare ingresso questioni di legittimità costituzionale, di stretta competenza del giudice di merito (cfr. Sezioni riunite, 24 febbraio 2003, n. 5/QM; 10 maggio 1999, n. 11/QM; 4 giugno 1996, n. 32/QM; 16 gennaio 1996, n. 24/QM).
3. Ciò premesso, va osservato che, per il suo contenuto valutato nel contesto degli atti del giudizio originante, pendente in grado di appello, il quesito di cui innanzi postula una disamina d’ordine applicativo che, oltre all’astratta questione posta dal remittente in ordine alla scelta della qualificazione da attribuire alle «misure concrete di attuazione della normativa antiebraica (tra cui i provvedimenti di espulsione dalle scuole pubbliche)», non può che essere estesa in via mediata anche all’eventuale idoneità o meno di tali «misure» afflittive, in quanto tali, a fondare il controverso diritto della cittadina appellata all’assegno di benemerenza di cui all’art. 4 della legge 24 aprile 1967 n. 262 (così come sostituito dall’art. 3 della legge 22 dicembre 1980 n. 932), incluso il connesso punto di diritto – che invero il giudice remittente sostiene essere già stato pacificamente risolto dalla giurisprudenza ma che va qui esaminato in quanto imprescindibile per un’esauriente soluzione della proposta questione di massima – relativo alla sussistenza del limite temporale dell’8 settembre 1943 quale data ultima di consumazione degli atti di violenza che possono essere fatti valere da cittadini italiani perseguitati per motivi d’ordine razziale al fine del conseguimento del predetto assegno di benemerenza.
Infatti i pur marcati caratteri di astrattezza e di generalità che lo stesso giudice remittente individua nel quesito formulato e pone a base del deferimento, non escludono, anzi, presuppongono, al fine di una positiva delibazione in punto di ammissibilità, che la soluzione richiesta risulti sul piano operativo concretamente funzionale alla definizione del giudizio nel quale la questione a stata sollevata (Sezioni riunite, 4 ottobre 1999, n. 24), dovendo fornire dunque queste Sezioni riunite, nella fattispecie, una risoluzione della proposta questione di massima processualmente utile nonchè motivata anche sotto i peculiari e controversi profili storicocronologici che necessariamente attengono alla questione stessa, la quale
– giova ricordare – non può ritenersi in questa sede pregiudicata dalle argomentazioni contenute nell’ordinanza di remissione, per sua natura priva di valenza decisoria.
4. Accedendo più specificamente al merito della questione, va anzitutto considerato che, ai sensi della disposizione di legge di cui si controverte nella fattispecie pendente innanzi al giudice remittente, e cioè l’art. 4 della legge 24 aprile 1967 n. 261 nel testo sostituito dall’art. 3 della legge 22 dicembre 1980 n. 932, e prevista la concessione, in favore dei cittadini italiani che siano stati perseguitati «nelle circostanze di cui all’articolo 1 della legge 10 marzo 1955, n. 96, e successive modificazioni», di un assegno vitalizio di benemerenza, reversibile ai familiari superstiti, pari al trattamento minimo di pensione erogato dal fondo pensioni dei lavoratori dipendenti, nel caso in cui i beneficiari abbiano raggiunto il limite di età pensionabile o siano stati riconosciuti invalidi a proficuo lavoro.
Detto assegno non è peraltro cumulabile – nemmeno in sede di reversibilità – con l’omologo assegno previsto dall’art. 1 citato.
A sua volta detto art. 1 della legge 10 marzo 1955 n. 96, nel testo vigente successivamente alle modifiche apportate dall’art. 1 della legge 24 aprile 1967 n. 261, dall’art. 1 della legge 3 aprile 1961 n. 284 e dall’art. 1 della legge 22 dicembre 1980 n. 932, così recita:
«Ai cittadini italiani, i quali siano stati perseguitati, a seguito dell’atti¬vità politica da loro svolta contro il fascismo anteriormente all’8 settembre 1943, e abbiano subito una perdita della capacità lavorativa in misura non inferiore al 30 per cento, verrà concesso, a carico del bilancio dello Stato, un assegno vitalizio di benemerenza in misura pari a quello previsto dalla tabella C annessa alla legge 10 agosto 1950, n. 648, compresi i relativi assegni accessori per il raggruppamento gradi: ufficiali inferiori.
Tale assegno sarà attribuito qualora causa della perdita della capacità lavorativa siano stati:
a)la detenzione in carcere per reato politico a seguito di imputazione o di condanna da parte del Tribunale speciale per la difesa dello Stato o di tribunali ordinari per il periodo anteriore al 6 dicembre 1926, purchè non si tratti di condanne inflitte per i reati contro la personalità internazionale dello Stato, previsti dagli artt. da 241 a 268 e 275 del Codice penale, le quali non siano state annullate da sentenze di revisione ai sensi dell’art. 13 del decreto legislativo luogotenenziale 5 ottobre 1944, n. 316;
b)l’assegnazione a confino di polizia o a casa di lavoro, inflitta in dipendenza dell’attività politica di cui al primo comma, ovvero la carcerazione preventiva congiunta a fermi di polizia, causati dalla stessa attività politica, quando per il loro reiterarsi abbiano assunto carattere persecutorio continuato;
c)atti di violenza o sevizie subiti in Italia o all’estero ad opera di persone alle dipendenze dello Stato o appartenenti a formazioni militari o paramilitari fasciste, o di emissari del partito fascista;
d)condanne inflitte da tribunali ordinari per fatti connessi a scontri avvenuti in occasione di manifestazioni dichiaratamente antifasciste e che abbiano comportato un periodo di reclusione non inferiore ad anni uno;
e)la prosecuzione all’estero dell’attività antifascista con la partecipazione alla guerra di Spagna ovvero l’internamento in campo di concentramento o la condanna al carcere subiti in conseguenza dell’attività antifascista svolta all’estero.
Un assegno nella stessa misura sarà attribuito, nelle identiche ipotesi, ai cittadini italiani che dopo il 7 luglio 1938, abbiano subito persecuzioni per motivi d’ordine razziale».
L’assegno di benemerenza spettante ai perseguitati politici antifascisti o razziali in forza del menzionato art. 4 della legge n. 261 del 1967 riveste dunque la stessa natura di quello previsto dall’art. 1 della legge n. 96 del 1955, ponendosi peraltro, rispetto a quest’ultimo, in funzione integratrice e succedanea, prevedendo innovativamente la spettanza del diritto anche in favore di soggetti che non abbiano riportato alcuna invalidità in conseguenza della subita persecuzione.
5. Una prima considerazione da svolgere in ordine ai suddetti testi legislativi è che in essi manca uno specifico ed espresso riferimento alle cc.dd. «leggi razziali», cioè a quel corpus di provvedimenti normativi che introdussero nell’ordinamento plurime e diversificate forme di discriminazione in danno dei cittadini italiani appartenenti alla minoranza ebraica, il che ha comportato contrasti interpretativi circa l’idoneità degli atti adottati in esecuzione di quei provvedimenti normativi discriminatori a integrare l’ipotesi persecutoria prevista sotto la lettera c) dell’art. 1 della legge n. 96 del 1955, che, per tipologia di contenuto, può essere ritenuta l’unica fattispecie di possibile riferimento per le vessazioni subite da appartenenti alla minoranza ebraica specificamente in quanto destinatari delle menzionate «leggi razziali».
Tuttavia può sin d’ora essere osservato che la scelta legislativa dell’inequivoca limitazione della legge n. 96 del 1955 alla provenienza «pubblica» e «politica» degli atti di violenza per i quali lo Stato offre riparazione (con esclusione, quindi, di quegli atti di violenza compiuti da cittadini privi di rapporto organico o politico con pubbliche istituzioni nel generale clima di antisemitismo indotto proprio dalla propaganda di regime e dalle leggi razziali), vale già di per sè a qualificare l’assolutezza, la coercibilità e, quindi, l’ontologica intensità della vis persecutoria presa in considerazione nella predetta legge, in quanto dispiegata da pubblici poteri che furono istituzionalmente legittimati ad attuare le misure persecutorie.
Nè va sottovalutato, per meglio definire la connotazione di assolutezza della predetta vis persecutoria, che la condizione di appartenenza alla Comunità ebraica, ai sensi delle disposizioni dell’allora vigente r.d. 30 ottobre 1930 n. 1731, non era accompagnata da alcuna manifestazione di volontà degli «israeliti», non avendosi dubbi all’epoca sul fatto che gli ebrei appartenessero, per il fatto stesso di avere la residenza legale nel territorio di una Comunità israelitica, alla Comunità stessa in virtù di un affermato principio di appartenenza necessaria e automatica che conseguiva ipso iure alla qualità di israelita ed alla sua residenza nel territorio della Comunità (vedasi Corte costituzionale, 30 luglio 1984, n. 239).
Il concetto di violenza preso in considerazione nella menzionata disposizione va dunque rapportato – oltre che, ovviamente, a qualsiasi condotta ulteriormente lesiva sul piano fisico e su quello morale eventualmente posta in essere dai soggetti attivi ivi contemplati in misura eccedente a quella strettamente necessaria per la «legittima» applicazione delle discriminazioni normativamente imposte – al carattere di generalità, di ineluttabilità e di
autoritarismo istituzionale degli atti «pubblici» di persecuzione in quanto così legittimati dall’ordinamento.
La stessa Corte costituzionale ha significativamente colto la portata afflittiva di tale «istituzionalizzazione», affermando testualmente: «Le discriminazioni nei confronti degli ebrei, lesive dei diritti fondamentali e della dignità della persona, hanno assunto consistenza normativa con un complesso di provvedimenti che hanno toccato i diversi settori della vita sociale: dalla scuola (r.d.l. 5 settembre 1938 n. 1390; r.d.l. 15 novembre 1938 n. 1779), all’esercizio delle professioni (l. 29 giugno 1939 n. 1054); dalla materia matrimoniale (r.d.l. 17 novembre 1938 n. 1728), a quella delle persone, del nome e delle successioni (l. 13 luglio 1939 n. 1055); dall’interdizione all’esercizio di determinati uffici, alle limitazioni in materia patrimoniale e nelle attività economiche (ancora il r.d.l. n. 1728 del 1938).
In questo contesto normativo, la discriminazione razziale si è manifestata con caratteristiche peculiari, sia per la generalità e la sistematicità dell’attività persecutoria, rivolta contro un’intera comunità di minoranza, sia per la determinazione dei destinatari, individuati come appartenenti alla razza ebraica secondo criteri legislativamente stabiliti (art. 8 r.d.l. n. 1728 del 1938…» (sentenza 17 luglio 1998, n. 268).
6.Ciò premesso, va osservato che sull’accezione della locuzione «atti di violenza» riferita alla previsione di cui alla suddetta lettera c) dell’art. 1 della legge n. 96 del 1955 queste Sezioni riunite si sono già pronunciate con la sentenza n. 9/QM del 1° aprile 1998, la quale tuttavia, alla luce della peculiarità del quesito attualmente posto dal giudice remittente, e in base alla problematica evoluzione della cospicua e più recente giurisprudenza di questa Corte nella subiecta materia, va integrata con ulteriori considerazioni.
Appagante e consona a un’interpretazione costituzionalmente corretta della normativa in riferimento è la nozione del concetto di «atti di violenza» già formulata con la predetta sentenza risolutrice laddove gli stessi vengono identificati in tutti gli atti che abbiano concretamente determinato la lesione del diritto della persona in uno dei suoi valori costituzionalmente protetti, in quanto tale accezione, estendendosi anche alle ipotesi di «violenza morale», risponde, come appunto ivi chiarito da queste Sezioni riunite, all’esigenza di non isolare, nell’ambito dei diritti della persona, un unico valore (quello dell’integrità fisica), trascurando tutti gli altri che completano il diritto della personalità.
Tuttavia, essendo stato affermato nella citata sentenza n. 9/QM del 1998 che la disposizione in esame – prevedendo che gli «atti di violenza» rilevanti in sede di riconoscimento del diritto all’assegno di benemerenza debbano provenire «da persone» (alle dipendenze dello Stato o appartenenti a formazioni militari o paramilitari fasciste, ecc.) – esclude che a integrare la predetta fattispecie di violenza morale sia sufficiente la «mera soggezione alla normativa antiebraica», e risultando tale affermazione giurisprudenziale oggetto di contrapposte interpretazioni applicative, occorre qui formulare ulteriori precisazioni al riguardo.
7. Vero è che le norme in esame non consentono ai soggetti perseguitati per motivi d’ordine razziale di poter beneficiare dell’assegno di benemerenza solo in virtù della dimostrazione dell’appartenenza alla minoranza oggetto
delle disposizioni discriminatorie (e, dunque, della sussistenza di una mera situazione soggettiva passiva di svantaggio potenziale), ma ciò va collegato non tanto ad un’inverosimile «neutralità» o, addirittura, a una pretesa «indifferenza» del legislatore – per di più proprio in sede di emanazione di norme riparatrici – rispetto all’applicazione «legittima» e incruenta delle «leggi razziali», quanto piuttosto al carattere di astrattezza tipico delle nor-me giuridiche, che rappresentano volontà preliminare all’azione e non volontà concreta riferita ad un’azione particolare o al comportamento di uno specifico soggetto.
La «soggezione» (vieppiù se «mera»), quale categoria giuridica, costituisce infatti solo quella situazione nella quale vengono a trovarsi soggetti nei confronti dei quali l’esercizio del potere ha l’astratta possibilità di produrre modificazioni mediante atti giuridici, e non lo stato di concreta modificazione o estinzione di situazioni giuridiche soggettive determinato dal venire in essere dell’attività del titolare della situazione di vantaggio.
Solo in questo contesto e in questa accezione può ritenersi estranea alla richiamata previsione legislativa del 1955 la «mera soggezione alle leggi razziali» cui si sono riferite queste Sezioni riunite nella sentenza citata, da intendersi dunque, nella fattispecie, esclusivamente quale situazione passiva di attesa nella quale vennero a trovarsi gli appartenenti alla minoranza ebraica dopo che nell’ordinamento dello Stato italiano era stata introdotta una normativa discriminatrice in danno della comunità cui essi appartenevano e prima della concreta e individuale applicazione di tali disposizioni nei loro confronti.
Sotto tale aspetto va confermato che il legislatore ha sostanzialmente sancito l’impossibilita di riconoscimento automatico del beneficio economico di che trattasi in virtù della sola dimostrazione dell’appartenenza del richiedente l’assegno di benemerenza alla minoranza ebraica collettivamente destinataria di norme generali e astratte di tipo persecutorio.
La suddetta automaticità peraltro viene concludentemente ad essere esclusa anche in base al contenuto della già menzionata sentenza della Corte costituzionale 17 luglio 1998, n. 268, laddove il giudice delle leggi ha ritenuto costituzionalmente illegittimo l’art. 8 della legge 10 marzo 1955 n. 96 nella parte in cui non prevede che, della Commissione istituita per esaminare le domande per conseguire i benefici che la legge stessa prevede in favore dei perseguitati politici antifascisti o razziali, faccia parte anche un rappresentante dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, avendo la Corte posto a base di detta declaratoria di incostituzionalità considerazioni in ordine alla complessità delle valutazioni richieste dalla legge, «che implicano anche l’apprezzamento di situazioni in base alla diretta conoscenza ed esperienza delle vicende che hanno dato luogo agli atti persecutori», così implicitamente escludendo un aprioristico automatismo valutativo.
Per contro, la concreta applicazione delle leggi razziali nei confronti dei singoli soggetti passivi, a opera della pubblica amministrazione e a mezzo dei soggetti titolari del relativo potere, interruppe la soggezione quale «stato d’attesa» e determinò l’avvio uti singuli delle attività persecutorie che incisero sulle posizioni giuridiche soggettive dei destinatari delle norme discriminatici concretizzando specifiche azioni lesive provenienti dall’apparato statale e intese a ledere le persone colpite nei loro valori inviolabili.
8. Le predette argomentazioni tuttavia non esauriscono il punto di diritto affrontato, poichè il contrasto di giurisprudenza evidenziato dal giudice remittente è incentrato – peraltro con riferimento alla medesima citata sentenza n. 9/QM di queste Sezioni riunite su entrambi i contrapposti versanti argomentativi – alla valutazione dell’idoneità o meno delle misure discriminatorie quali concretamente poste in essere da «persone» in applicazione delle cc.dd. «leggi razziali» a costituire – anche qualora prive di surplus vessatorio o persecutorio – «atti di violenza» ricadenti nella previsione normativa di cui alla lettera c) del menzionato art. 1 della legge n. 96 del 1955.
Per superare ogni possibile ambiguità espositiva al riguardo, occorre anzitutto considerare, riprendendo e sviluppando un’argomentazione già innanzi svolta (vedi punto n. 5 della motivazione), che la vis publica esercitata con la normativa antiebraica si esplicò attraverso una serie di atti coercitivi esteriori programmaticamente e dichiaratamente diretti a realizzare un «bene politico» precisamente e univocamente individuato: la «difesa della razza italiana, in quanto pura e appartenente alla millenaria civiltà degli ariani», come evincesi dalle rubriche, dai titoli e dal contenuto delle «leggi razziali», fra le quali, non esaustivamente, ma specificamente per quanto qui particolarmente rileva, cfr. r.d.l. 5 settembre 1938 n. 1390, recante «provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista»; r.d.l. 15 novembre 1938 n. 1779, recante «integrazione e coordinamento in testo unico delle norme gia emanate per la difesa della razza nella Scuola italiana»; r.d.l. 17 novembre 1938 n. 1728, recante «provvedimenti per la difesa della razza italiana»).
Tale finalità, di per se considerata, comporta, all’esito del giudizio di comparazione fra il contenuto del valore pubblico difeso e l’inviolabilità dei valori individuali e collettivi corrispettivamente sacrificati, che ciascuno dei singoli provvedimenti amministrativi di esecuzione della normativa discriminatrice – ancorchè adottato senza alcun quid pluris persecutorio da parte dei soggetti incaricati di tale esecuzione nell’esplicazione di funzioni pubbliche e politiche – va considerato come un’offesa per i valori fondamentali dell’individuo talmente lacerante e così abiettamente motivata da non richiedere alcun altro attributo per ricadere a pieno titolo nell’accezione di «atto di violenza» presa in considerazione dal legislatore del 1955.
Invero le concrete e individuali misure di attuazione della normativa antiebraica (tra cui i provvedimenti di espulsione dalle scuole pubbliche) non solo realizzarono in via immediata la lesione della dignità della persona nei suoi fondamentali diritti (all’istruzione, alla vita di relazione, all’esercizio delle professioni, al matrimonio, ecc.) nel senso deteriore già posto in luce dalla Corte costituzionale con la richiamata sentenza 17 luglio 1998, n. 268, ma racchiudevano in loro lo scopo, mediato e tuttavia immanente ed essenziale, di annientare completamente e sotto ogni possibile profilo della vita civile e di relazione – in quanto costituente «minaccia per la purezza e l’integrità della razza italiana» – l’ancor più presupposto diritto naturale dei cittadini appartenenti alla minoranza ebraica alla loro identità socioculturale, preesistente alla stessa formazione dello Stato ed essenziale per qualsiasi comunità civile.
9. Circa poi l’individuazione dei limiti temporali di riferimento della normativa concernente l’assegno di benemerenza, va in via generale osservato che ogni valutazione giuridica dei presupposti utili per il riconoscimento del diritto a tale beneficio in favore dei perseguitati politici e razziali da un lato non può essere isolata dall’imprescindibile contesto storico en¬tro il quale maturò e si sviluppò la persecuzione in danno di detti cittadini, e dall’altro impone un’esegesi logicamente e cronologicamente corretta delle scelte del legislatore, che, ancor recentemente, con la legge 20 luglio 2000 n. 211, ha esortato in proposito all’imperituro ricordo anche delle «leggi razziali» e della «persecuzione italiana dei cittadini ebrei», ponendo significativamente l’accento sull’imprescindibile valore storico da attribuire a tali eventi, in rilievo nel presente giudizio.
10. Ciò premesso in via generale, va inoltre più specificamente considerato che il richiamo del legislatore nell’ultimo comma dell’art. 1 della legge 10 marzo 1955 n. 96 alle «identiche ipotesi» già previste con riferimento alle cause di perdita della capacità lavorativa di cittadini italiani perseguitati per aver svolto attività politica contro il fascismo, a sintatticamente e logicamente limitato alla sola descrizione delle fattispecie persecutorie ivi elencate e non si estende ai limiti temporali posti nei confronti dei perseguitati politici, sia perchè per i perseguitati «per motivi di razza» lo stesso ultimo comma introduce una previsione cronologica autonoma secondo il senso fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la loro connessione (art. 12, primo coma, delle disposizioni sulla legge in generale), sia perchè l’elemento temporale in sè, per come abbinato nella consecutio del contesto lessicale alle singole categorie di beneficiari in ciascuna delle due diverse fattispecie considerate nella norma, più che limitare in realtà qualifica e definisce le due categorie di soggetti perseguitati nella loro precisa, autonoma e differente collocazione storica.
Nè, coerentemente con la predetta interpretazione e con la effettiva voluntas legis che può ricavarsi nella specie, fu introdotta o richiamata dal legislatore alcuna previsione di dies ad quem per gli atti persecutori d’ordine razziale allorquando – sulla base di considerazioni storicamente riferibili alla sola categoria dei perseguitati politici – l’originario dies a quo del 28 ottobre 1922, giorno della «marcia su Roma» e di inizio dell’«era fascista», fu tramutato nel dies ad quem dell’8 settembre 1943, data di annuncio dell’armistizio (vedasi primo comma dell’art. 1 della legge n. 96 del 1955 quale sostituito dall’art. 1 della legge 24 aprile 1967 n. 261).
Infatti tale modifica assume un significato sistematico solo per i «perseguitati politici», non potendosi riconoscere detta qualifica con riferimento ad attività svolta contro il regime fascista dopo la sua caduta, atteso che le diverse condizioni storiche sussistenti prima e dopo la suddetta data dell’8 settembre 1943 hanno implicato nei confronti di tali soggetti scelte diversificate del legislatore, che per altro verso ha riconosciuto, con svariate norme risarcitorie emanate nel tempo, come l’opposizione politico-militare successiva all’8 settembre 1943 era precipuamente finalizzata alla lotta di liberazione, con conseguente collocamento delle relative provvidenze riparatrici anche nella legislazione pensionistica di guerra.
A titolo meramente esemplificativo e incidentale si consideri che, mentre già con il d.l.lgt. 4 agosto 1945 n. 467 venne prevista l’estensione delle disposizioni concernenti i reduci ed i congiunti dei caduti in guerra ai reduci ed ai congiunti dei caduti per la lotta di liberazione, con d.l.C.p.S. 16
settembre 1946 n. 372 le disposizioni in materia di pensioni di guerra vennero specificamente estese ai partigiani combattenti (art. 1), nonchè ai cittadini i quali ad opera di forze avverse nazi-fasciste avessero riportato, dopo l’8 settembre 1943, un danno nel corpo o nella salute da cui fosse derivata perdita o menomazione della capacità lavorativa (art. 2), e che la suddetta data a stata posta quale essenziale elemento cronologico di riferimento anche in successivi e connessi provvedimenti normativi concernenti provvidenze per i combattenti della guerra di liberazione, quali il d.l.vo 1° febbraio 1948 n. 93 e il d.l.vo 19 marzo 1948 n. 241, fino alla disciplina unitaria introdotta con l’art. 1 della legge 18 marzo 1968 n. 313, che, innovando rispetto al corpus della legge 10 agosto 1950 n. 648, riconobbe a pieno e diretto titolo fra i soggetti del diritto a pensione di guerra: «i partigiani combattenti per la lotta di liberazione; i cittadini ita¬liani che, successivamente all’8 settembre 1943, hanno partecipato ad operazioni della guerra di liberazione nelle formazioni non regolari dipendenti dalle forze armate italiane od alleate; nonchè i cittadini italiani che hanno partecipato, dopo la predetta data, alla guerra di liberazione anche in territorio estero» (art. 2, lettera c), senza trascurare come – oltre che in favore di partigiani combattenti – siano stati previsti anche in favore dei «patrioti» (così qualificati in relazione al contributo dagli stessi offerto alla lotta di liberazione ai sensi dell’art. 9 d.lgs.lgt 5 aprile 1945 n. 158 e dell’art. 10 d.lgs.lgt. 21 agosto 1945 n. 518) benefici assistenziali (d.lgs.lgt. 25 aprile 1945 n. 369), economici (d.lgs.lgt. 20 giugno 1945 n. 421) nonche pensionistici di guerra (art. 3, lettera c del d.P.R. 23 dicembre 1978 n. 915), oltre a riconoscimenti di carattere morale (d.lgt. 3 maggio 1945 n. 350 e legge 16 marzo 1983 n. 75).
11. La menzione della data dell’8 settembre 1943 in provvedimenti normativi relativi ai perseguitati per motivi d’ordine razziale a invece costantemente riferibile al presupposto dell’intensificazione degli atti persecutori che vennero posti in essere dopo quella stessa data nei confronti della minoranza ebraica, e, pur al di là della semplicistica (ma comunque pertinente) considerazione che anche dopo l’8 settembre 1943 le «leggi razziali» erano pienamente in vigore, non giustifica affatto, sotto alcun aspetto giuridico, storico, cronologico e sistematico, l’utilizzazione di tale data quale termine finale riferibile all’attività persecutoria per motivi d’ordine razziale rilevante ai fini della concessione dell’assegno di benemerenza.
A tal proposito può farsi qui indicativo cenno al d.lgs.lgt. 10 agosto 1944 n. 195 e al d.lgs.lgt. 19 ottobre 1944 n. 306 per quanto concerne la rettifica di atti formati dopo l’8 settembre 1943 sulla base di dichiarazioni non rispondenti al vero allo scopo di sottrarre appartenenti alla minoranza ebraica alle «misure di carattere razziale», e al d.lgs.C.p.S. 11 maggio 1947 n. 364 relativo alla regolamentazione delle successioni delle persone dece¬dute per atti di persecuzione razziale dopo l’8 settembre 1943.
Nè è comunque sostenibile che, avendo il legislatore previsto specifiche provvidenze in favore di chi sia stato colpito, anche per ragioni razziali, da persecuzioni «successive alla caduta del fascismo e per opera del regime nazionalsocialista» (Corte costituzionale, 3 luglio 1996, n. 231), il limite temporale ivi riferito alla «caduta del fascismo» possa costituire anche il termine finale delle ipotesi persecutorie da prendere in considerazione per il riconoscimento del diritto all’assegno di benemerenza in favore dei perseguitati per motivi d’ordine razziale.
Invero, così opinando, rimarrebbero irrazionalmente esclusi dal possibile riconoscimento del diritto a tale assegno quei cittadini appartenenti alla minoranza ebraica che – pur scampati alle misure persecutorie (peraltro non solo di provenienza nazionalsocialista) finalizzate allo sterminio e alla «persecuzione delle vite» che si innestarono sulla già avviata «persecuzione dei diritti» (cfr. Corte costituzionale, 17 luglio 1998, n. 268, cit.) – abbiano tuttavia subito, anche dopo l’8 settembre 1943 (particolarmente in quelle zone dell’Italia centro-settentrionale ove si svolsero, fra le altre, le vicende afflittive personali cui si riferisce la difesa dell’appellata), le misure persecutorie previste dall’art. 1 della legge 10 marzo 1955 n. 96, dovendo per contro essere giustamente valutati – anche dopo la predetta data di discrimine storico – l’aspetto pubblico e istituzionale della permanenza delle «leggi razziali» nell’ordinamento, nonchè la continuazione, con medesimi effetti giuridici, di atti di violenza e di fattispecie persecutorie collegabili a tale disposizioni e all’ideologia vessatoria ad esse sottesa anche laddove non «finalizzati allo sterminio».
Sempre sotto tale profilo va peraltro osservato che il legislatore, proprio nel disciplinare una delle provvidenze previste per i perseguitati poli¬tici e razziali dalla legge 10 marzo 1955 n. 96 – e specificamente per l’attribuzione dei benefici contributivi figurativi di cui all’art. 5 (nel testo sostituito dall’art. 2 della legge 22 dicembre 1980 n. 932) in favore di coloro che abbiano subito atti persecutori «nelle circostanze di cui all’art. 1» della stessa legge (cioè proprio di quelle circostanze utili per la concessione dell’assegno di benemerenza quali richiamate dall’art. 4 della legge 24 aprile 1967 n. 262 come sostituito dall’art. 3 della legge 22 dicembre 1980 n. 932) – ha ivi posto il termine del 25 aprile 1945 quale data ultima di consumazione degli atti di violenza che possono essere fatti valere anche dai perseguitati razziali al fine del conseguimento dei predetti benefici previdenziali, il che assume valore di riferimento storicamente esplicativo ancorchè non sistematico-interpretativo (attesa la diversità ontologica fra benefici previdenziali e assegno di benemerenza).
12. A tutto ciò va aggiunto che il riferimento alla delimitazione temporale dell’8 settembre 1943 contenuto nell’ordinanza della Corte costituzionale n. 231 del 3 luglio 1996 (che, peraltro, non può costituire canone vincolante di generale interpretazione vertendosi nell’ipotesi di decisione interpretativa di rigetto), nell’economia di tale ordinanza – precipuamente diretta a individuare, «nel filone legislativo orientato a riconoscere talune provvidenze a chi sia stato colpito da misure persecutorie nazionalsocialiste», la norma applicabile nei confronti degli ex deportati nei campi di sterminio nazista – costituisce solo l’individuazione dello spartiacque storico fra persecuzioni di impronta fascista e persecuzioni di provenienza nazionalsocialista, ma non è diretta affatto a determinare irrazionalmente nei confronti dei perseguitati per motivi d’ordine razziale l’ambito applicativo della legislazione relativa alla concessione dell’assegno di benemerenza.
Ciò è tanto più evidente laddove si consideri che nella suindicata ordinanza, nell’alinea successivo a quello in cui a contenuto il menzionato riferimento temporale all’8 settembre 1943, viene immediatamente precisato,
in relazione proprio al filone legislativo relativo alla concessione degli assegni di benemerenza originato dalla legge n. 96 del 1955, che «con tale normativa, quindi lo Stato italiano si impegna a una riparazione nei riguardi di coloro che, per aver svolto attività in vario modo contrarie al regime fascista, siano stati vittime di restrizioni e violenze imputabili a quest’ultimo», fornendo una precisazione argomentativa che, da un lato, non può ovviamente essere riferita ai perseguitati per motivi razziali, per i quali manca ogni collegamento con l’attività politica contro il fascismo, e, che, d’altro canto, per come utilizzata in quel contesto lessicale, appare esclusivamente diretta a escludere la possibilità di ricomprendere la deportazione degli ebrei nei campi di sterminio a opera dei nazisti nella categoria delle persecuzioni cui venne sottoposto, per motivi politici, chi svolse attività contraria al regime fascista anteriormente all’8 settembre 1943.
L’impossibilità di accomunare con la predetta unica limitazione temporale le due categorie di soggetti prese in esame dalle norme sull’assegno di benemerenza riceve del resto conferma proprio dalla Corte costituzionale, che, con la successiva e gia menzionata sentenza 17 luglio 1998, n. 268 ha chiarito – stavolta con diretto e specifico riferimento alla categoria dei perseguitati per motivi d’ordine razziale – che «la condizione di chi ha subito persecuzioni per motivi razziali dopo il 7 luglio 1938, delineata dalla stessa legge n. 96 del 1955, presenta, sebbene siano identici i benefici previsti ed il tipo di situazioni lesive cui si e, con tale legge, inteso porre rimedio, caratteristiche diverse. Manca, difatti, per costoro, ogni collegamento con l’attività politica contro il fascismo, mentre assume rilievo, come causa delle situazioni lesive della persona, l’appartenenza alla minoranza ebraica: le persecuzioni sono infatti dovute ad una condizione personale, indipendentemente dalle opinioni e dall’attività politica di chi le ha subite».
13. Per quanto concerne infine le argomentazioni che la giurisprudenza restrittiva svolge nella subiecta materia con riferimento alle disposizioni contenute nella legge 16 gennaio 1978 n. 17, recante «norme di applicazio¬ne della legge 8 luglio 1971 n. 541», che a sua volta estende in favore degli ex deportati e degli ex perseguitati, sia politici che razziali, l’applicazione dei benefici previsti dalla legge 24 maggio 1970 n. 336, vanno svolte le seguenti considerazioni.
Le suindicate disposizioni di legge, a differenza di quelle, più generali, relative alla concessione dell’assegno di benemerenza e al riconoscimento della relativa qualità di perseguitato politico o razziale, individuano l’ambito dei possibili beneficiari delle provvidenze ivi previste (cc. dd. benefici combattentistici) solo fra i soggetti che, oltre alla qualifica di ex perseguitato politico o razziale secondo gli specifici criteri ivi dettati, siano in possesso dell’ulteriore requisito soggettivo lavorativo previsto dalla 24 maggio 1970 n. 336, sicchè nella specie si ravvisa solo la limitata finalità normativamente perseguita di risarcire nell’ambito lavorativo gli «ex perseguitati, sia politici che razziali» in quanto assimilati agli «ex combattenti, partigiani, mutilati ed invalidi di guerra, vittime civili di guerra, orfani, vedove di guerre, o per causa di guerra, profughi per l’applicazione del trattato di pace e categorie equiparate», gia in precedenza destinatari dei «benefici combattentistici» previsti dalla predetta legge n. 336 del 1970.
Il presupposto per l’attribuzione della qualifica di «ex perseguitato razziale» al fine dell’applicazione della menzionata legge 8 luglio 1971 n. 541 (aver «riportato pregiudizio fisico o economico o morale per effetto di legge oppure in base a norme o provvedimenti amministrativi anche della Repubblica sociale italiana intesi ad attuare discriminazioni razziali»), e dunque, già in base alla predetta precipua e limitata finalità applicativa, insuscettibile di assumere portata interpretativa nell’ambito delle differenti norme che disciplinano la concessione dell’assegno di benemerenza (destinato a diversa finalità riparatrice), attesa l’insindacabilità in questa sede della scelta operata dal legislatore nel definire diversamente i presupposti persecutori validi per l’attribuzione di differenziate provvidenze in virtù del riconoscimento di qualifiche che integrano ciascuna un bene giuridico unitario e autonomo, e ciò pur senza più specificamente valutare se fra le definizioni dei differenti presupposti previsti dalle due diverse ipotesi normative in considerazione per qualificare la figura dell’«ex perseguitato razziale» sussista un rapporto di continenza, di identità, di alternatività ovvero di semplice chiarificazione terminologica.
A ciò va aggiunto che, vertendosi per tutto quanto innanzi detto nell’ipotesi in cui l’interpretazione letterale delle disposizioni che regolamentano la concessione dell’assegno di benemerenza risulta sufficiente ad individuarne, in modo chiaro ed univoco, il relativo significato e la connessa portata precettiva, l’interprete non può ricorrere, nella subiecta materia, al criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca della mens legis merce l’esame del testo di altre e diverse disposizioni normative, specie se, attraverso siffatto procedimento, possa pervenirsi al risultato di modificare la volontà della norma come inequivocabilmente espressa dal legislatore.
Infatti, soltanto qualora la lettera della norma medesima risulti ambigua e si appalesi altresì infruttuoso il ricorso al predetto criterio ermeneutico sussidiario, l’elemento letterale e l’intento del legislatore, insufficienti in quanto utilizzati singolarmente, acquistano un ruolo paritetico in seno al procedimento ermeneutico, si che il secondo funge da criterio comprimario e funzionale a ovviare all’equivocità del testo da interpretare, potendo, infine, assumere rilievo prevalente rispetto all’interpretazione letterale soltanto nel caso, eccezionale – che comunque non si verifica nella fattispecie all’esame di queste Sezioni riunite – in cui l’effetto giuridico risultante dalla formulazione della disposizione sia incompatibile con il sistema normativo (così Corte di cassazione, Sezione prima civile, 6 aprile 2001, n. 5128).
14. Conclusivamente dunque queste Sezioni riunite danno soluzione alla questione di massima ad esse deferite nel senso di ritenere, con tutte le implicazioni applicative in precedenza esposte e illustrate, che le misure concrete di attuazione della normativa antiebraica (tra cui i provvedimenti di espulsione dalle scuole pubbliche) debbono ritenersi idonee a concretizzare una specifica azione lesiva proveniente dall’apparato statale e intesa a ledere la persona colpita nei suoi valori inviolabili.
15. Non è luogo a pronuncia sulle spese.
P.Q.M.
le Sezioni riunite in sede giurisdizionale risolvono la questione di massima ad esse deferita dalla Sezione prima giurisdizionale centrale d’appello con l’ordinanza di remissione n. 090/2002/A del 16 dicembre 2002 nel senso che le misure concrete di attuazione della normativa antiebraica (tra cui i provvedimenti di espulsione dalle scuole pubbliche) debbono ritenersi idonee a concretizzare una specifica azione lesiva proveniente dall’apparato statale e intesa a ledere la persona colpita nei suoi valori inviolabili.
Dispongono che, a cura della Segreteria, il fascicolo processuale sia restituito alla Sezione prima giurisdizionale centrale d’appello per la prosecuzione del relativo giudizio di merito.
Nulla per le spese.
Autore:
Corte dei conti
Nazione:
Italia
Parole chiave:
Discriminazione, Scuole pubbliche, Comunità ebraica, Diritti inviolabili, Persecuzioni, Lesione, Assegno, Espulsione, Razza, Vitalizio, Benemerenza, Leggi razziali, Fascismo
Natura:
Sentenza