Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 28 Ottobre 2009

Sentenza 24 giugno 2009

Tribunale di Bologna. Sentenza 24 giugno 2009: "Apostasia e sussistenza del reato ex art. 621 c.p."
 

Il Giudice dott. ALESSANDRO GNANI

all'udienza dibattimentale del 18/06/09

Con l'intervento del P.M. Dott. Sgherli (V.PO)

e con l'assistenza del cancelliere Dott.ssa S.

ha pronunciato e pubblicato mediante lettura del dispositivo

la seguente

SENTENZA

Nei confronti di: AK.HA. nato il (…) a Khouribga (Marocco) residente a Bologna – via (…) Domiciliato in Bologna – via (…)

IMPUTATO

del delitto p. e p. dagli artt. 81 c. 2, 612, c. 2 c.p. perché minacciava SB.SO. inviandole diverse lettere per posta elettronica nelle quali, essendo l'indagato e la persona offesa stranieri marocchini di fede islamica residenti in Italia, accusava la persona offesa di essere una musulmana apostata divenuta cristiana circostanza che secondo la tradizione islamica autorizza ogni buon fedele di tale fede, ad eseguire la condanna a morte nei confronti della stessa persona offesa;

Fatto commesso in Bologna il (…).
 

Ak.Ha. era tratto a giudizio per il reato di cui in epigrafe. Si costituiva parte civile la persona offesa. Erano escussi vari testi e poi si procedeva a discussione.

Non vi è dubbio – e la difesa non ha mai negato la circostanza – che i messaggi di posta elettronica allegati alla querela provenissero dall'imputato. Il capo d'imputazione riguarda in particolare l'allegato 5 alla querela, nella sua parte finale, che recita: "allora sei uscita allo scoperto da sola come una massihia". È questa la frase conclusiva di una e – mail che, nel suo complesso, esprime un giudizio di disvalore dell'imputato verso la persona offesa.

La lettera iniziava infatti con un incipit connotato spregiativamente: "tu sei una donna molto cattiva". In questo contesto, la frase finale non può ritenersi neutrale, nel senso di esprimere un giudizio asettico su una determinata fede religiosa (cattolica: indicata dalla parola massihia). Al contrario, anche la chiusa finale (come quella iniziale), ha connotazione negativa: si esprime una valutazione di contrarietà verso la Sb.: ella non è affatto una mussulmana, ma "è uscita allo coperto… come una massihia". Con questa frase, l'imputato voleva indicare che la p.o. – non si comportava ma – era una cristiana. Di più: era "uscita allo scoperto", cioè a dire che – nonostante simulasse di essere mussulmana – in realtà si era definitivamente palesata per quella che era la sua vera fede religiosa, ovvero quella cristiana. Il giudizio di riprovazione è evidente: già in precedenza l'imputato aveva additato la p.o. di non essere una buona mussulmana (di portare i capelli sciolti, di non aver niente a che fare con l'islam; e nella stessa lettera all. 5: di dover pregare maggiormente Allah); questo giudizio culmina nella lettera in questione con la frase oggetto del capo d'imputazione. E tale frase – visto il contesto appena riportato, e considerato anche che in altra occasione l'imputato aveva avvertito la p.o. dicendole: "Allah ti punirà per tutto il male che fai alla gente" – suona allora necessariamente come forte censura, nei confronti di chi finge di essere mussulmana, ma in realtà è cristiana.

A questo punto non può non affermarsi l'elemento oggettivo della minaccia grave, ovvero minaccia di pena di morte. Ricordato che la minaccia può consumarsi anche con locuzioni verbali che in modo indiretto rappresentino il male minacciato (ed. minaccia implicita), nel caso di specie, l'additare la p.o. di essere in realtà una cristiana, e non una mussulmana come vorrebbe apparire, vale come minaccia di morte. L'istruttoria testimoniale ha infatti acclarato che il mondo islamico riprova fortemente la conversione in fede cristiana di chi dovrebbe appartenere a fede islamica: e tale era certamente la p.o., siccome cittadina marocchina e facente parte di un organo a connotazione politico – religiosa mussulmana. In vari stati islamici – compreso lo stato del Marocco (di certo al tempo della commissione del reato per cui è giudizio) – la conversione religiosa in altra fede (apostasia), compresa la cattolica, è punito con la morte. Ora, considerato quanto sopra detto sul contesto in cui si inserisce la "proclamazione di disvelata cristianità" in capo alla p.o. da parte dell'imputato, non può dubitarsi che detta proclamazione ebbe lo scopo di additare la p.o. come apostata; colei che prima si era indicata come non buona mussulmana, adesso è indicata addirittura come una cristiana. L'islam annovera come conseguenza di ciò la morte, e non può negarsi che essa fosse minacciata dall'imputato, in ragione del contesto di lettere in cui si inseriva la frase. Che la querelle tra l'imputato e la p.o. fosse partita da questioni politico – sociali – la difesa degli immigrati – nulla rileva: non impedisce di affermare che la frase in questione avesse esclusivamente valenza religiosa, e che volesse innescare proprio le sole conseguenze indotte dalla motivazione di natura religiosa. Nemmeno rileva che tale frase sia stata pronunciata da un soggetto che non rivestiva alcun ruolo ufficiale nella comunità islamica (imam o altro). Il tenore delle lettere rendeva infatti evidente che l'imputato era comunque un devoto mussulmano, e tanto basta per far si che – trattandosi di reato di pericolo – le sue parole fossero dotate di credibilità, e che quindi vi fosse il pericolo che lui, o altri per lui (Cass. 8275/86 So.), potessero poi attuare le conseguenze (pena di morte) che quel giudizio di riprovazione (proveniente dal fedele dell'islam) induceva. Non va dimenticato che l'islam è una religione acefala, dove non esiste una guida spirituale unificante che possa dirsi ufficialmente riconosciuta; donde la conclusione per cui anche un soggetto senza particolare qualifica in studi religiosi islamici può aggregare attorno a sé proseliti, eventualmente pronti a tradurre in atto il giudizio di riprovazione (il consulente della difesa riferisce che non potrebbe parlarsi di "fatua" in senso tecnico da parte dell'imputato, non avendone l'autorità). Trattandosi di reato di pericolo, importa che la condotta del soggetto sia obiettivamente idonea a prospettare un male ingiusto – a prescindere dal fatto che la p.o. si sia poi sentita effettivamente coartata (Cass. 47739/08 Gi.) -: e questa situazione di obiettivo pericolo, in ragione delle cennate caratteristiche della religione islamica, deve dirsi sussistente.

Come sussistente è il dolo, che richiede solo la coscienza e volontà di prospettare un male ingiusto diretto ad intimidire, non importando l'effettivo proposito di tradurre in atto il male minacciato (Cass. 7382/85 De.). Ebbene, l'imputato, come detto, è un credente islamico, e dunque non poteva non sapere che l'apostata è passibile di morte secondo la legge islamica. Pronunciando quella frase, egli intendeva riprovare la p.o., al contempo volendo avvertirla di ciò cui poteva andare incontro per il suo essere cristiana. Ovvia l'irrilevanza di ciò che l'imputato dirà in seguito, ovvero di non aver voluto minacciare l'imputata; è ben configurabile quale tentativo di postuma autodifesa verso gli appartenenti alla mailing – list che lo accusavano.

L'aggravante è da considerarsi equivalente ex art. 69 c.p. alle attenuanti generiche, concedibili sia per l'incensuratezza dell'imputato (reato commesso ante novellato art. 62 bis ult. c. c.p.), sia per il fatto che l'imputato ebbe come movente una critica di natura politico – sociale (gestione dell'immigrazione in Italia) la quale non travalicò mai in un completo disprezzo dell'altrui persona (nella stessa lettera all. 5 Ak. afferma di aver difeso la p.o.).

Si stima pena equa pari a Euro 40 di multa ex art. 612, c. 1 c.p. Quanto al danno esso va stimato in Euro 10.000 all'attualità, considerato che il turbamento d'animo e l'influenza sulla tranquillità di vita ordinaria dell'on. Sb. non dovette essere modesto, visto il suo ruolo pubblico (una delle figure simbolo dell'islam moderato) e quindi la sua forte esposizione agli occhi dell'islam più intransigente. Non sussistono giusti motivi per attribuire efficacia esecutiva ex art. 540 c.p.p., al capo sulla condanna civile, data l'evidente disparità di condizioni reddituali tra parte civile e imputato.

P.Q.M.

Visti gli artt. 5533 e 535 c.p.p., concesse le attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante, condanna l'imputato ad una multa di Euro 40; condanna l'imputato a risarcire il danno alla parte civile liquidato in Euro 10.000; lo condanna al pagamento delle spese processuali e delle spese di parte civile, liquidate in Euro 1.200, oltre 12,5%, Iva e Cpa.

Così deciso in Bologna, il 18 giugno 2009.

Depositata in Cancelleria il 24 giugno 2009.