Sentenza 24 aprile 1975, n.188
Corte costituzionale. Sentenza 24 aprile 1975, n. 188: “Offese alla religione dello Stato mediante vilipendio di persone (art. 403 c.p.) e turbamento di funzioni religiose del culto cattolico (art. 405 c.p.)”.
(Bonifacio; Crisafulli)
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: prof. Francesco PAOLO BONIFACIO;
Giudici: avv.. Giovanni Battista BENEDETTI, dott. Luigi OGGIONI, avv. Angelo DE MARCO, avv. Ercole ROCCHETTI, prof. Enzo CAPALOZZA, prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI, prof. Vezio CRISAFULLI, dott. Nicola REALE, prof. Paolo ROSSI, avv. Leonetto AMADEI, dott. Giulio GIONFRIDA, prof. Edoardo VOLTERRA, prof. Guido ASTUTI, dott. Michele ROSSANO,
ha pronunciato la seguente
Sentenza
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 403 e 405 del codice penale, promosso con ordinanza emessa il 22 gennaio 1973 dal tribunale di Trani nel procedimento penale a carico di Rubino Antonio, iscritta al n. 139 del registro ordinanze t973 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 151 del 13 giugno 1973.
Visto l’atto d’intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 6 maggio 1975 i1 Giudice relatore Vezio Crisafulli;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Giorgio Azzariti, per il Presidente del Consiglio dei ministri.
(omissis)
Considerato in diritto:
1.—L’ordinanza solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 403 cod. pen. (offesa alla religione dello Stato mediante vilipendio di persone) per contrasto: a) con l’art. 3 Cost., stante la diversità di trattamento quoad poenam dei soggetti attivi del reato rispetto a chi sia ritenuto invece colpevole del reato di cui all’art. 406, per gli stessi fatti, se compiuti contro un culto ammesso nello Stato; b) con l’art. 21 Cost., perché introdurrebbe un limite non consentito dalla norma costituzionale alle manifestazioni di dissenso dalla religione cattolica; c) con l’art. 25 Cost., per la indeterminatezza della nozione di vilipendio, che si assume incompatibile con l’esigenza di tassatività e determinatezza delle fattispecie penali.
Solleva altresì, per considerazione identiche a quelle testé riassunte sub a), questione di legittimità costituzionale delI’art. 405 cod. pen. (turbamento di funzioni religiose del culto cattolico), con esclusivo riferimento all’art. 3 della Costituzione.
2.—Quest’ultima questione si rivela, peraltro, manifestamente irrilevante; e ad analoghe conclusioni non può non pervenirsi anche in ordine alle censure all’art. 403, con limitato riguardo al profilo di violazione del principio di eguaglianza: giacché, ove la disparità di trattamento risultante dal raffronto tra gli artt. 403 e 405, da un lato, e l’art. 406, dall’altro, fosse da giudicare priva di giustificazione e quindi costituzionalmente illegittima, la pronuncia di questa Corte non precluderebbe l’applicazione delle norme degli artt. 403 e 405 nel giudizio a quo, avente ad oggetto un caso di offesa alla religione cattolica e di turbamento di funzioni della stessa.
Ed infatti, la formulazione dell’art. 406, che si limita a rinviare agli artt. 403,404 e 405, così per la previsione della condotta criminosa come per la determinazione delle sanzioni, solo aggiungendo che “la pena è diminuita”, impedirebbe comunque di ristabilire l’eguaglianza di situazioni estendendo alle ipotesi degli artt. 403 e 405 (dei quali è attualmente questione) la sanzione “diminuita” dell’art. 406. Una eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale non potrebbe, pertanto, che incidere o sull’art. 406 (peraltro non direttamente denunciato, perché estraneo alla specie) o sugli artt. 403 e 405, nella parte in cui limitano le rispettive previsioni alle offese alla sola religione cattolica ed al solo turbamento di riti della religione medesima: ma, in entrambe le ipotesi (ed a prescindere dagli ulteriori problemi cui, sotto altri aspetti, una siffatta pronuncia potrebbe dar luogo), gli anzidetti articoli resterebbero tuttavia fermi ed applicabili, nella parte (la sola in essi formalmente esplicitata) concernente la religione cattolica. Di guisa che, non soltanto non muterebbe, nel merito, l’esito del giudizio a quo, ma — ed è quel che conta — ad esso si perverrebbe facendo applicazione delle medesime norme denunciate nell’ordinanza del tribunale.
Ciò premesso, la sola questione di costituzionalità che deve ora prendersi in esame è quella dell’art. 403, in riferimento agli artt. 21 e 25 della Costituzione.
Per quanto attiene alla pretesa violazione del secondo comma dell’art. 25, che enuncia il principio della legalità dei reati e delle pene, questa Corte ha già avuto più volte occasione di affermare, anche e proprio di recente, in relazione alla nozione del vilipendio (sent. n. 20 del 1974), che non sono, di per sé, in contrasto con il detto principio le fattispecie criminose cosiddette a forma libera, che richiamano, cioè, con locuzioni generiche, ma di ovvia comprensione, concetti di comune esperienza o valori etico-sociali oggettivamente accertabili dall’interprete. Com’è stato rilevato in dottrina, la (necessaria) “tassatività” della fattispecie non si risolve né si identifica nella (più o meno completa) “descrittività” della stessa.
Deve soggiungersi che limiti ben precisi al potere, rimesso in tali casi al giudice, di puntualizzare specificamente il contenuto di riferimenti in apparenza indeterminati, derivano dalla stessa correlazione, interna alla norma incriminatrice, tra la condotta vietata e il bene protetto: da rapportarsi, a sua volta, ai princìpi costituzionali che, garantendo l’esercizio di determinati diritti di libertà, si traducono necessariamente in altrettanti limiti (esterni alla norma, ma sempre interni a sistema) alla individuazione di quel bene e pertanto alla configurabilità dell’illecito consistente nella sua violazione.
4.—I rilievi da ultimo accennati valgono altresì, con le precisazioni che seguono, a dimostrare la infondatezza anche dell’ulteriore censura mossa all’art. 403, per contrasto con il diritto di libera manifestazione del pensiero, solennemente affermato nell’art. 21 della Costituzione.
E’ da premettere che il sentimento religioso, quale vive nell’intimo della coscienza individuale e si estende anche a gruppi più o meno numerosi di persone legate tra loro dal vincolo della professione di una fede comune, è da considerare tra i beni costituzionalmente rilevanti, come risulta coordinando gli artt. 2, 8 e 19 Cost., ed è indirettamente confermato anche dal primo comma dell’art. 3 e dall’art. 20. Perciò il vilipendio di una religione, tanto più se posto in essere attraverso il vilipendio di coloro che la professano o di un ministro del culto rispettivo, come nell’ipotesi dell’art. 403 cod. pen., che qui interessa, legittimamente può limitare l’ambito di operatività dell’art. 21: sempre che, beninteso, la figura della condotta vilipendiosa sia circoscritta entro i giusti confini, segnati, per un verso, dallo stesso significato etimologico della parola (che vuol dire “tenere a vile”, e quindi additare al pubblico disprezzo o dileggio), e per altro verso, dalla esigenza — cui sopra si è accennato — di rendere compatibile la tutela penale accordata al bene protetto dalla norma in questione con la più ampia libertà di manifestazione del proprio pensiero in materia religiosa, con specifico riferimento alla quale non a caso l’art. 19 anticipa, in termini quanto mai espliciti, il più generale principio dell’art. 21. E’ evidente, ad esempio, a tacer d’altro, che non sussisterebbe quella libertà di far “propaganda” per una religione, come espressamente prevede e consente l’art. 19, se chi di tale diritto si avvale non potesse altrettanto liberamente dimostrarne la superiorità nei confronti di altre, di queste ultime criticando i presupposti o i dogmi.
Il vilipendio, dunque, non si confonde né con la discussione su temi religiosi, così a livello scientifico come a livello divulgativo, né con la critica e la confutazione pur se vivacemente polemica; né con l’espressione di radicale dissenso da ogni concezione richiamantesi a valori religiosi trascendenti, in nome di ideologie immanentistiche o positivistiche od altre che siano.
Sono, invece, vilipendio, e pertanto esclusi dalla garanzia dell’art. 21 (e dell’art. 19), la contumelia, lo scherno, l’offesa, per dir così, fine a sé stessa, che costituisce ad un tempo ingiuria al credente (e perciò lesione della sua personalità) e oltraggio ai valori etici di cui si sostanzia ed alimenta il fenomeno religioso, oggettivamente riguardato.
Nei sensi e nei limiti cosi indicati, la questione sollevata in riferimento all’art. 21 deve anch’essa dichiararsi non fondata.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara:
a) inammissibili, per manifesta irrilevanza, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 405 del codice penale, nonché — in riferimento all’art. 3 della Costituzione — la questione di legittimità costituzionale dell’art. 403 dello stesso codice;
b) non fondata la questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 403 del codice penale, sollevata in riferimento all’art. 25 della Costituzione con l’ordinanza in epigrafe;
c) non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale del medesimo art. 403 del codice penale, sollevata in riferimento all’art. 21 della Costituzione con l’ordinanza predetta.
(omissis)
Autore:
Corte Costituzionale
Dossier:
Tutela penale
Nazione:
Italia
Parole chiave:
Disparità di trattamento, Principio di eguaglianza, Vilipendio di persone, Turbamento di funzioni religiose, Culto cattolico
Natura:
Sentenza