Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 27 Luglio 2006

Sentenza 23 novembre 1967

Corte di Cassazione. Sezione III penale. Sentenza 23 novembre 1967: “Critica dispregiativa della benedizione di mezzi bellici e reato di vilipendio alla religione”

Pres. D’Amario – Est. Odorisio – P.MI. Ponzi (conf.) – Ric P.M. c. N. e S.. Cassa Trib. Piacenza 10 marzo 1966.

FATTO. — Il 31 maggio 1964 ci svolse a Piacenza una manifestazione, organizzata dal prof. P. S. del “gruppo di azione diretta e non violenta” di Milano, con l’oggetto “la libertà di coscienza, di opinione e di espressione” e nel corso dalla stessa tu distribuito ai cittadini presenti un volantino con il titolo “appello di un pacifista non violento alla Chiesa cattolica”, compilato da E. N. e ciclostilato dal S..
Il compilatore dello scritto, premesso che la sua voleva essere una voce religiosa che parlava alla Chiesa cattolica conformemente al messaggio di amore e di pace di Cristo ed ai principi dalla stessa professati, ed in particolare al comandamento (“non uccidere”), domandava perché la Chiesa predetta insegnasse che un fratello può uccidere un fratello per ragioni politiche e non pronunciasse una condanna della guerra atomica e della fabbricazione di tale arma, in modo da non dare adito, a causa dei suo silenzio, al dubbio di militare contro Dio a fianco del male e dell’odio.
Affermava, inoltre, che una simile condotta è una manifestazione di ateismo e dimostra che la Chiesa ha perduto l’amore di Dio e dell’uomo, come si desume dalle benedizioni di navi da guerra lancia-missili con testate atomiche: benedizioni e silenzio da considerarsi omicidi.
Indicava i servizi resi alla guerra, elencando, tra l’altro:
1)la benedizione delle armi, definita orribile sacrilegio
2)le preghiere per i reparti militari, qualificate vere bestemmie;
3)la professione della pagana dottrina della guerra giusta e l’omessa condanna della violenza con un esplicito giudizio, doveroso da parte di chi afferma la propria infallibilità nelle questioni morali;
4)l’offerta di riti per le celebrazioni militari.
Concludeva con un incitamento alla Chiesa cattolica a compiere il miracolo del disprezzo di sé stessa per amore di Dio, dichiarandosi Chiesa di pace e dimenticando il passato, per il quale doveva chiedere perdono all’Umanità.
Il N. e lo S., denunziati dalla Questura di Piacenza venivano condannati dal locale Pretore, con sentenza 25 ottobre 1965, ciascuno alla pena di due mesi di reclusione quali colpevoli, ai sensi dell’art. 402 cod. pen., del reato di vilipendio della religione cattolica.
A seguito di gravame degli imputati, il Tribunale di Piacenza, con sentenza 10 marzo 1966, li assolse perché il fatto non costituisce reato sul riflesso che nel contenuto del volantino non venivano in questione né la Fede né i principi, cui essa s’ispira, ma soltanto talune scelte dell’autorità ecclesiastica e l’applicazione ad alcune fattispecie del rituale religioso, e che l’intento era soltanto polemico e diretto a stimolare l’azione della Chiesa nei riguardi del movimento per la pace.

Ricorre per cassazione il Procuratore generale della Repubblica, denunziando:
a) la violazione dell’art. 402 cod. pen. e l’inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, perché le espressioni usate investono i riti della religione;
h) la violazione degli artt. 43 C 402 cod. pen. e l’erronea e contraddittoria valutazione dell’elemento soggettivo, perché il Tribunale, pur riconoscendo che molte espressioni sono irriguardose, ha sostenuto che l’intento degli imputati era polemico e non di vilipendere la religione cattolica, senza considerare che dal contenuto del volantino appare manifesta la volontà di schernirla e disprezzarlo.

DIRITTO. — Il ricorso è fondato.
L’art. 21 della Costituzione riconosce il diritto alla libera manifestazione del pensiero, ma, in un’ordinata convivenza democratica, il concreto esercizio di tale diritto non può non incontrare limiti perché, in caso diverso, si dovrebbe per venire alla conclusione, per più motivi non soddisfacente, di ammettere il sacrificio di interessi e di valori di pari rilievo personale e sociale.
Il problema della determinazione di tali limiti è complesso, ma è indubbio che, oltre quello del buon costume indicato nell’ultimo comma dello stesso precetto costituzionale, ne ricorrono altri tra cui il limite derivante dalla posizione della religione cattolica nell’ordinamento giuridico.
Infatti la Corte Costituzionale e del resto anche il Supremo Collegio ha ritenuto la compatibilità dell’art. 402 cod. pen., il cui oggetto è la più intensa tutela della religione cattolica, con i principi fondamentali proclamati dalla Costituzione sotto il profilo che la religione predetta, quale espressione del sentimento della quasi totalità del popolo italiano, trova proprio nella Carta costituzionale il riconoscimento della posizione di privilegio, in quanto i Patti lateranensi, nel cui art. i tale posizione e sancita, sono richiamati esplicitamente dall’art. 7 della Costituzione, senza però attribuire allo Stato italiano carattere confessionale.
Il diritto alla libera manifestazione del pensiero incontra, quindi, un limite a livello costituzionale ed il contrasto che, ovviamente, può sorgere tra i predetti opposti interessi, costituzionalmente garantiti. trova, come in ogni libera e civile convivenza, soluzione nei contemperamento delle opposte esigenze, senza che i diritti stessi siano privati del loro essenziale contenuto.
Per il caso di specie, non può disconoscersi il diritto di critica della religione cattolica, quale causa di esclusione dell’antigiuridicità del comportamento, quando esso sia contenuto nel rispetto di tale sentimento etico-spirituale della collettività, mentre deve ritenersi che la manifestazione del pensiero perda ogni tutela quando trascenda nell’abuso.
Per la delimitazione del confine tra il diritto di critica, quale libera manifestazione del pensiero nel rispetto del diritto altrui, e l’abuso dello stesso dedurre la nozione di vilipendio, elaborata, nella carenza di una definizione nel codice, dalla giurisprudenza della Suprema Corte, che l’ha individuata nel comportamento di colui che addita con scritti, parole od altro qualsiasi mezzo idoneo allo scherno od al disprezzo l’istituzione, dimostrando di tenerla a vile.
Con particolare riferimento alla religione cattolica, il vilipendio, secondo la richiamata giurisprudenza, si concreta, attraverso un giudizio offensivo, in una manifestazione dispregiativo dei valori etico—spirituali della religione predetta nella sua interezza del in rapporto ad almeno una delle componenti fondamentali. Tali valori s’identificano incontestabilmente con tutto quanto si sublima nella Fede, cioè con le credenze fondamentali, i dogmi, i Sacramenti ed i riti, tenendo presente che in questi ultimi rientrano le preghiere e le benedizioni, che ottengono ai rapporti tra gli un mini e la Divinità e sono, quindi, manifestazioni spirituali della religione stessa.
Premessi tali indispensabili concetti, va rilevato che il Tribunale ha ritenuto che il giudizio cipresso dal N. nello scritto in ordine alle benedizioni ed alle preghiere concernenti i reparti militari ed i mezzi bellici agli stessi apprestati non ha per oggetto la religione cattolica, ma soltanto l’applicazione dei predetti riti a talune fattispecie.
Proprio tale ultima argomentazione dimostra l’erroneità della conclusione cui e pervenuto il giudice di merito.
Non può infatti disconoscersi al magistrato della Chiesa cattolica il concreto esercizio dei riti, ed in particolare la facoltà, connessa al culto, di indirizzare il potere propiziatorio a determinate situazioni umane e terrene, quale quella del cittadino-soldato (anche in relazione ai mezzi bellici posti a sua disposizione), la cui esclusione dai riti della religione, per il fatto che egli assolve un inderogabile obbligo verso la collettività nazionale, sarebbe contrario, oltre che al sentimento della comunità dei fedeli, la quale in quella situazione postula con più intensità la protezione della Divinità, alla stessa concezione della religione cattolica.
Pertanto, qualunque sia l’applicazione che di tali riti viene fatta nell’esplicazione del magistero ecclesiastico, la critica espressa in formi dispregiativo della predetta manifestazione spirituale investe necessariamente l’essenza stessa del rito e, quindi, la religione cattolica, di cui esso, come si è detto, è una componente fondamentale.
Accertato che oggetto del giudizio espresso nel volantino è, per le stesse considerazioni fatte dal Tribunale, la religione cattolica, con riguardo all’applicazione di taluni riti, peraltro rispondente allo concezione della medesima di assistere i fedeli in qualsiasi situazione si trovino per loro volontà o per cause ad essa estranee, l’indagine doveva essere diretta ad accertare, in termini di logica adeguatezza, se il giudizio è contenuto nei limiti di una critica lecita o trascende in una manifestazione dispregiativa.
Il giudice di merito si è sottratto a tale obbligo, limitandosi a qualificate genericamente il predetto giudizio offensivo e l’offesa “apparentemente grave”, e, pertanto, non solo non ha completato la doverosa indagine, ma non ho dato nemmeno conto del ragionamento logico-giuridico attraverso il quale è pervenuto alla suesposta superficiale qualificazione delle espressioni usate.
Il Tribunale avrebbe dovuto considerare, con un adeguato e logico esame critico, che la qualifica di omicidi, sacrileghi e bestemmie attribuita a taluni riti, in quanto indirizzati o determinate fattispecie, anche se il giudizio è abilmente presentato con la veste di appello di un cattolico alla Chiesa cattolica e suggestivamente inquadrato nel generico richiamo ai messaggio di Cristo ed al problema, invero complesso, della pace nel mondo, può esprimere sostanzialmente, e non solo apparentemente, il disprezzo dell’ agente per la religione cattolica e, quindi, accertare in concreto l’idoneità delle espressioni ad integrare, anche sotto il profilo della manifestazione dispregiativa, quel comportamento che configura l’ipotesi criminosa ex art. 402 cod. pen..

I suesposti. rilievi sono sufficienti a dimostrare, anche in relazione all’elemento soggettivo del reato, l’erroneità e le lacune del ragionamento logico-giuridico, che ha determinato il convincimento del Tribunale, per cui ogni altra considerazione deve ritenersi superflua ed assorbita.

La sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio, perché il reato rientra tra quelli di cui all’art. 1 lett. a) D.P.R. 4 giugno 1966, n.332, non ricorrendo alcuna ipotesi di esclusione dal beneficio.