Sentenza 23 marzo 2005, n.6316
Corte di Cassazione Civile. Sezione tributaria. Sentenza 23 marzo 2005. n. 6316: “Esenzione dall’ICI degli immobili adibiti a sede vescovile”.
(Omissis)
Con tempestivo ricorso l’Arcidiocesi di Chieti-Vasto impugnava innanzi alla Commissione tributaria provinciale di Chieti l’avviso di accertamento notificato ad istanza del comune di Vasto con il quale si chiedeva il pagamento della differenza dell’Ici per l’anno 1996 relativamente ad un immobile che l’Arcidiocesi sosteneva, invece, essere esente dall’imposta ai sensi dell’art. 7, comma 1, lettera i), del D.Lgs. n. 504/1992 in quanto destinato ad episcopio. La Commissione adita, con sentenza n. 52/04/01, rigettava il ricorso, ritenendo che la parte ricorrente non avesse provato la sussistenza delle condizioni che legittimano l’esenzione ai sensi della richiamata normativa. La decisione veniva riformata dalla Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo (L’Aquila-Sezione staccata di Pescara), la quale, con la sentenza in epigrafe, accoglieva l’appello dell’Arcidiocesi ritenendo sufficiente ai fini dell’esenzione contestata la destinazione dell’immobile a “palazzo vescovile”.
Avverso tale sentenza il comune di Vasto, con atto notificato il 17 marzo 2004, propone ricorso per cassazione con unico motivo. Resiste l’Arcidiocesi con controricorso notificato il 30 aprile 2004.
Entrambe le parti hanno prodotto memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Occorre preliminarmente risolvere l’eccezione di inammissibilità del controricorso per tardività, sollevata dalla difesa del comune ricorrente nella memoria ex art. 378 del codice di procedura civile: sostiene, infatti, la parte ricorrente che, essendo stato il ricorso notificato in data 17 marzo 2004, deve ritenersi tardivo, ai sensi dell’art. 370, comma 1, del codice di procedura civile, il controricorso notificato il 30 aprile 2004.
L’eccezione non è fondata. Si deve ritenere, infatti, che, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 477 del 2002, sia rintracciabile nell’ordinamento una regola di diritto positivo, che sancisce il principio della scissione soggettiva del momento perfezionativo del procedimento notificatorio: per quanto riguarda il notificante, tale procedimento si perfeziona alla consegna dell’atto da notificare all’ufficiale giudiziario; per quanto riguarda il destinatario, invece, il perfezionamento della notificazione avviene solo alla data di ricezione dell’atto. Nel caso di specie, risulta indubitabile che la parte controricorrente abbia affidato all’ufficiale giudiziario l’atto da notificare – il controricorso – entro il termine previsto dall’art. 370, comma 1, del codice di procedura civile, termine che scadeva il giorno 26 aprile 2004 (ossia quaranta giorni dopo l’avvenuta ricezione il 17 marzo 2004 del ricorso per cassazione): infatti, l’ufficiale giudiziario certifica di aver tentato di notificare il controricorso (che con tutta evidenza gli era già stato affidato dalla parte controricorrente) in data 26 aprile 2004, all’indirizzo indicato nel ricorso per cassazione come domicilio eletto dalla parte ricorrente – e cioè in via G. n. 29 presso lo studio dell’avv. ==== – con esito negativo, “perché sconosciuto all’indicato domicilio come da informazioni assunte”.
Solo aliunde era possibile alla parte controricorrente accertare che nel ricorso per cassazione il comune ricorrente aveva erroneamente indicato il numero civico dello stabile ove era collocato il domicilio eletto, in quanto lo studio dell’avv. ====, era situato sì in via G., ma al numero civico 96 e non al numero civico 29, come riportato nel ricorso.
Pertanto, essendosi la effettiva notificazione del controricorso verificata (il 30 aprile 2004 al corretto numero civico 96 della via G.) oltre il termine di cui all’art. 370, comma 1, del codice di procedura civile, per fatto non imputabile alla parte controricorrente – anzi essendo tale ritardo dovuto unicamente ad una errata indicazione contenuta nel ricorso per cassazione in ordine al luogo in cui si trovava il domicilio eletto – il controricorso non può ritenersi tardivo.
Affermata così l’ammissibilità del controricorso è possibile procedere all’esame del ricorso, con il cui unico motivo, il comune di Vasto denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 7, comma 1, lettera i), del D.Lgs. n. 504/1992, nonché assoluta carenza di motivazione. Ad avviso del ricorrente, fondamento per l’applicabilità dell’esenzione prevista dalla norma di cui si lamenta la violazione e falsa applicazione è che l’immobile per il quale l’esenzione è pretesa sia utilizzato da uno dei soggetti di cui all’art. 87, comma 1, lettera c), del Tuir e sia destinato esclusivamente allo svolgimento delle attività assistenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, nonché delle attività di cui all’art. 16, lettera a), della L. n. 222/1985.
Nel caso di specie, la sentenza impugnata pur avendo riconosciuto che l’immobile di cui è causa è (almeno parzialmente) destinato ad abitazione del vescovo e che ivi si svolgono gli “affari amministrativi e giudiziari della diocesi”, ha ugualmente (e contraddittoriamente) affermato che spetta l’esenzione di cui al richiamato art. 7, comma 1, lettera i), del D.Lgs. n.504/1992, nonostante le predette attività non possano ritenersi, ad avviso del ricorrente, attività di religione e di culto ex art. 16, lettera a), della L. n. 222/1985. Il motivo non è fondato.
Non lo è, in primo luogo, con riguardo alla dedotta “assoluta carenza di motivazione” – censura che, tuttavia, non è poi adeguatamente sviluppata nel motivo di ricorso -, come convince con immediatezza la mera lettura della sentenza impugnata, la quale indica analiticamente gli elementi da cui il giudice ha tratto il proprio convincimento, consentendo la ricostruzione del percorso logico-argomentativo della decisione. Non lo è nemmeno con riguardo alla dedotta violazione di legge. È pacifico in causa che l’immobile di cui trattasi è il palazzo vescovile (episcopio) di Vasto, cioè la sede in Vasto dell’Arcidiocesi di Chieti-Vasto.
È altrettanto pacifico che l’Arcidiocesi di Chieti-Vasto sia uno dei soggetti di cui all’art. 87, comma 1, lettera c), del Tuir (oggi art. 73, comma 1, lettera c), del nuovo Tuir): nè d’altro canto potrebbe esservi dubbio sul punto, in quanto la diocesi è un ente ecclesiastico che fa parte della costituzione gerarchica della Chiesa (regolata dalla parte II del libro II del codice di diritto canonico), per il quale il fine – istituzionale – di religione e di culto è presunto iuris et de iure ai sensi dell’art. 2, comma 1, della L. n. 222/1985.
Quest’ultimo aspetto ha una rilevanza decisiva ai fini della risoluzione della controversia. Infatti, il comma 4 dell’art. 87 del Tuir (oggi art. 73, comma 4, del nuovo Tuir) stabilisce che “L’oggetto esclusivo o principale dell’ente residente” – che ai fini dell’esenzione di cui al comma 1, lettera c), della stessa norma deve essere una attività non lucrativa – “è determinato in base alla legge, all’atto costitutivo o allo statuto, se esistenti in forma di atto pubblico o di scrittura privata autenticata o registrata. Per oggetto principale si intende l’attività essenziale per realizzare direttamente gli scopi primari indicati dalla legge, dall’atto costitutivo o dallo statuto”.
Sicchè alla luce del combinato disposto di cui agli artt. 87, commi 1, lettera c), e 4, del Tuir, 2, comma 1, della L. n. 222/1985 e 7, comma 1, lettera i), del D.Lgs. n. 504/1992, può dirsi sicuramente sussistente una delle condizioni richieste da quest’ultima disposizione per l’applicabilità dell’esenzione Ici, e cioè il fatto che l’immobile in questione è direttamente utilizzato (come è pacifico in causa) da un “ente non commerciale” (cfr. in proposito Cass. n. 18549/2003). Ma alla luce del medesimo combinato disposto può dirsi esistente anche l’altra condizione richiesta dall’art. 7, comma 1, lettera i), del D.Lgs. n.504/1992 per l’applicabilità dell’esenzione Ici, e cioè la destinazione esclusiva ad attività che non siano produttive di reddito, nel caso di specie attività di religione e di culto (cfr. Cass. n. 18549/2003; n.4645/2004).
È pacifico, invero, nel giudizio de quo, che l’immobile di cui si contesta l’imponibilità ai fini Ici è l’episcopio o “palazzo vescovile”, e cioè la sede della diocesi e della curia vescovile in Vasto: si tratta, in altri termini, dell’immobile destinato all’esercizio del ministero proprio del Vescovo diocesano (canoni 381-402 del codice di diritto canonico) e delle attività istituzionali della diocesi (in particolare attraverso la curia diocesana: canoni 469-494 del codice di diritto canonico), che sono ex lege definite attività di religione e di culto (art. 2, comma 1, della L. n.222/1985), in quanto esercizio dell’attività tipica di un ente che è parte della costituzione gerarchica della Chiesa. Proprio in ragione di questa peculiare situazione non era necessario nel caso di specie che l’Arcidiocesi desse “prova fattuale” – come opportunamente e correttamente nota la sentenza impugnata – della destinazione dell’immobile de quo all’esercizio di attività di religione e di culto, essendo presunte tali ex lege le attività ivi svolte quali inerenti l’esercizio del ministero episcopale (governo della diocesi), una volta accertato, come è stato accertato al che l’immobile di cui si discute fosse la “sede del Vescovo”.
Tale circostanza – l’essere l’immobile la “sede del Vescovo” -, esclude la (stessa) possibilità che ivi si svolgessero “attività oggettivamente commerciali”, il cui esercizio, secondo l’orientamento già espresso da questa Suprema Corte, è la sola condizione che possa escludere l’applicabilità del beneficio di cui all’art. 7, comma 1, lettera i), del D.Lgs. n. 504/1992 per gli immobili posseduti da enti ecclesiastici (cfr. Cass. n. 4645/2004). Peraltro il comune non ha nemmeno dedotto che nell’immobile in questione si svolgessero “attività oggettivamente commerciali”. Il giudice di merito ha dato rilievo al comportamento processuale tenuto dal comune in sede di appello, perché l’ente locale, “non costituendosi, non ha contestato gli elementi dedotti dalla controparte assurgenti a fatti notori”.
Ma, in realtà, il comune nel ricorso proposto avanti a questa Suprema Corte non contesta la destinazione ad episcopio dell’immobile in discussione: mostra, invece, di ritenere che le circostanze che il vescovo abiti nell’immobile de quo, da un lato, e che ivi si trattino gli “affari amministrativi e giudiziari della diocesi”, dall’altro, escludano l’applicabilità dell’esenzione, poichè in entrambi i casi ci si troverebbe di fronte allo svolgimento di “attività non strettamente religiose”.
Questa posizione difensiva non sembra, tuttavia, apprezzabile positivamente. Il fatto che il vescovo “abiti” nel palazzo vescovile, non trasforma in “abitazione privata” del vescovo l’immobile in questione, che rimane la sede istituzionale del vescovo stesso, il quale vi abita proprio per l’esercizio della sua funzione e della sua missione, anche in adempimento dell’obbligo della residenza personale nella diocesi impostogli dal canone 395 del codice di diritto canonico.
Il fatto che nel “palazzo vescovile” si trattino gli “affari amministrativi e giudiziari della diocesi” costituisce il normale esercizio della potestà di governo della diocesi, attribuita al vescovo, che è “attività strettamente religiosa”, in quanto espressione della potestas iurisdictionis di un ente che fa parte della costituzione gerarchica della Chiesa. Pertanto, il ricorso deve essere rigettato. Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese della presente fase del giudizio.
P.Q.M.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Rigetta il ricorso e compensa le spese.
Autore:
Corte di Cassazione - Civile, Sez. Trib.
Dossier:
Enti religiosi
Nazione:
Italia
Parole chiave:
Enti ecclesiastici, Chiesa cattolica, Ici, Attività di religione, Attività di culto, Agevolazioni tributarie, Imposta comunale sugli immobili, Esenzione fiscale, Palazzo vescovile, Episcopio, Curia vescovile
Natura:
Sentenza