Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 4 Dicembre 2003

Sentenza 23 marzo 2001, n.4202

Cassazione. Prima Sezione Civile. Sentenza 23 marzo 2001, n. 4202

(G. Olla; F. Felicetti)

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il ricorso si denuncia la violazione degli artt. 2909 cod. civ., 324 c.p.c., 129 bis cod. civ. e 8 della legge 28 marzo 1985, n. 121.

Si deduce in proposito che l’art. 8 della legge n. 121 del 1985, che ha reso esecutivo l’accordo di revisione del concordato fra lo Stato italiano e la S.Sede del 18 febbraio 1984, condizionando la dichiarazione di efficacia della sentenza ecclesiastica nell’ordinamento italiano all’accertamento della sussistenza delle “condizioni richieste dalla legislazione italiana per la dichiarazione di efficacia delle sentenze straniere” e rinviando all’art. 797 c.p.c., ha abrogato la riserva di giurisdizione all’autorità ecclesiastica in materia di matrimoni concordatari ed ha stabilito il criterio di prevenzione in favore della giurisdizione civile. Ne deriverebbe che una sentenza di divorzio, quale quella che aveva riconosciuto ad essa ricorrente l’assegno di divorzio, passata in giudicato anteriormente alla sentenza di nullità pronunciata dall’autorità ecclesiastica, non può essere posta nel nulla dalla successiva delibazione della sentenza ecclesiastica.

La tesi sarebbe suffragata, altresì, dalla previsione, da parte dell’art. 129 bis, cod. civ., di una provvisionale in favore del coniuge più debole, quando non vi sia stata un’anteriore statuizione in sede civile, cioè prima di una sentenza di divorzio.

1. Il motivo è fondato nei sensi appresso indicati.

Questa Corte, a SS .UU., con sentenza 13 febbraio 1993, n. 1824, ha affermato il principio secondo il quale, a seguito dell’accordo di revisione del concordato lateranense stipulato il 18 febbraio 1984, ratificato e reso esecutivo con legge 25 marzo 1985, n. 121, è stata abolita la riserva di giurisdizione in favore dei Tribunali ecclesiastici sulle cause di nullità dei matrimoni concordatari, in precedenza stabilita dall’art. 34, comma 4, del concordato del 1929, con la conseguente concorrenza della giurisdizione dei giudici italiani.

Le SS. UU. di questa Corte sono pervenute all’affermazione di tale principio attraverso una motivazione complessa ed elaborata, il cui nucleo essenziale è costituito dalla considerazione, per un verso che nell’accordo del 1984 non si rinviene alcuna disposizione che sancisca il carattere esclusivo della giurisdizione ecclesiastica in materia matrimoniale, quale era contenuta nell’art. 34 del concordato del 1929, mentre per altro verso l’art. 13 dell’accordo stabilisce che le disposizioni non riprodotte si intendono abrogate, salvo quanto previsto all’art. 7, n. 6, non concernente la materia matrimoniale.

Più specificamente le SS. UU. hanno sottolineato che l’accordo di revisione del 1984 non contiene alcuna disposizione dalla quale la giurisdizione in materia matrimoniale appaia come una prerogativa dell’ordinamento canonico e non come espressione della sovranità riconosciuta concorrentemente a entrambi gli ordinamenti, né in esso vi è più alcun accenno al recepimento del matrimonio canonico nella sua sacramentalità, con la conseguenza che detta mancata previsione, in correlazione con il disposto dell’art. 13 dell’accordo, abrogativo delle disposizioni non riprodotte, e in correlazione con la disciplina complessivamente dettata sul matrimonio concordatario, implica l’abrogazione della riserva di giurisdizione.

Tale interpretazione dell’accordo del 1984 è stata contraddetta dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 421 del 1993, che ha dichiarato la inammissibilità di una questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione alla legge di esecuzione del concordato del 1929 – senza peraltro che la diversa interpretazione appaia correlata né a una diversa esegesi del nuovo accordo, né a motivazioni di ordine costituzionale che la impongano e ad una questione di legittimità costituzionale che, in relazione alla opposta interpretazione, dovrebbe ritenersi fondata – mentre l’interpretazione datane dalle SS.UU. è stata recepita da questa sezione nelle sentenze 18 aprile 1997, n. 3345, 19 novembre 1999, n. 12867 e 16 novembre 1999, n. 12671.

In particolare, successivamente alla sentenza delle SS.UU. sopra citata questa sezione, traendo le conseguenze dell’essere venuta meno la esclusività della giurisdizione dei Tribunali ecclesiastici sulle cause di nullità dei matrimoni concordatari, con la citata sentenza 18 aprile 1997, n. 3345 ha ritenuto che, una volta formatosi il giudicato (in quel caso interno) in ordine alla spettanza dell’assegno di divorzio, poiché le parti possono ormai dedurre nel processo per la cessazione degli effetti civili del matrimonio la nullità del vincolo matrimoniale, in forza del principio secondo il quale il giudicato copre il dedotto e il deducibile, la sentenza di divorzio, pur non impedendo la delibazione della sentenza di nullità del matrimonio pronunciata dai Tribunali ecclesiastici, impedisce che la delibazione travolga le disposizioni economiche adottate in sede di divorzio.

Questo collegio ritiene che non vi siano ragioni per statuire diversamente, in ordine alla intangibilità delle disposizioni economiche della sentenza di divorzio passata in giudicato, a seguito della successiva delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario.

Va precisato che, ove le parti non introducano espressamente nel giudizio di divorzio, attraverso contestazioni al riguardo, questioni sulla esistenza e validità del matrimonio – che darebbero luogo a statuizioni le quali, incidendo sullo stato delle persone, non possono essere adottate incidenter tantum, ma dovrebbero essere decise necessariamente, ex art. 34 c.p.c., con accertamento avente efficacia di giudicato – di regola la esistenza e la validità del matrimonio costituiscono un presupposto della sentenza di divorzio, ma non formano nel relativo giudizio oggetto di specifico accertamento suscettibile di dare luogo al formarsi di un giudicato.

Per questa ragione la sentenza di divorzio – che ha causa petendi e petitum diverse da quelli della sentenza di nullità del matrimonio – ove nel relativo giudizio non si sia espressamente statuito in ordine alla validità del matrimonio (con il conseguente insorgere delle problematiche poste dalla statuizione contenuta nell’art. 8, comma 2, lett. c dell’Accordo del 18 febbraio 1984), non impedisce la delibabilità della sentenza dei Tribunali ecclesiastici che abbia dichiarato la nullità del matrimonio concordatario, in coerenza con gli impegni concordatari assunti dallo Stato italiano e nei limiti di essi.

Quanto, invece, ai capi della sentenza di divorzio che contengano statuizioni di ordine economico, si applica la regola generale secondo la quale, una volta accertata in un giudizio fra le parti la spettanza di un determinato diritto, con sentenza passata in giudicato, tale spettanza non può essere rimessa in discussione – al di fuori degli eccezionali e tassativi casi di revocazione previsti dall’art. 395 c.p.c., non dedotti nella specie – fra le stesse parti, in altro processo, in forza degli effetti sostanziali del giudicato stabiliti dall’art. 2909 cod. civ.

In proposito va sottolineato che gli impegni assunti dallo Stato italiano con l’accordo del 18 febbraio 1984, si sostanziano, nella materia de qua, secondo la lettera e la ratio dell’art. 8, nell’obbligo per lo Stato italiano – alle condizioni ivi indicate, così come precisate nel protocollo addizionale all’accordo medesimo per un verso di riconoscere gli effetti civili “ai matrimoni contratti secondo le norme del diritto canonico per altro verso di dichiarare efficaci “le sentenze di nullità di matrimonio pronunciate dai Tribunali ecclesiastici, che siano munite del decreto di esecutività del superiore organo ecclesiastico di controllo”, facendo venir meno il vincolo matrimoniale in conformità di esse.

Resta, invece, rimessa alla competenza sostanziale dello Stato italiano la disciplina dei rapporti patrimoniali fra i coniugi derivanti dai conseguiti effetti civili dei matrimoni concordatari, come si evince dal disposto dell’art. 8, comma 1, che sostanzialmente rimanda in proposito alle disposizioni del codice civile, mentre ogni statuizione riguardo al venire meno di tali effetti, con riferimento alla delibazione delle sentenze ecclesiastiche di nullità dei matrimoni concordatari, è rimessa dall’art. 8, comma 2, ultima parte, esplicitamente alla giurisdizione e implicitamente alla normativa dello Stato italiano.

Ne deriva che nessun principio concordatario, a proposito della sopravvenienza – rispetto alla attribuzione con sentenza passata in giudicato di un assegno di divorzio – della delibazione di una sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio, osta alla piena operatività dell’art. 2909 cod. civ. in forza del quale, una volta accertata in un giudizio fra le parti la spettanza di un determinato diritto, con sentenza passata in giudicato, tale spettanza non può essere rimessa in discussione – al di fuori degli eccezionali e tassativi casi di revocazione previsti dall’art. 395 c.p.c. fra le stesse parti.

Conseguentemente, una volta accertato nel giudizio con il quale sia stata chiesta la cessazione degli effetti civili di un matrimonio concordatario, la spettanza a una parte di un assegno di divorzio, ove su tale statuizione si sia formato il giudicato ai sensi dell’art. 324 c.p.c., questo resta intangibile, in forza dell’art. 2909 cod. civ.

Non giova dedurre in contrario che in caso di delibazione della sentenza ecclesiastica di annullamento del matrimonio concordatario le conseguenze economiche dell’annullamento sono disciplinate dagli artt. 129 e 129 bis cod. civ., dettando tali articoli una normativa che, in caso di passaggio in giudicato di una sentenza di divorzio prima della delibazione della sentenza ecclesiastica, ai finì della sua applicabilità ne implica il coordinamento con i principi che regolano il giudicato.

Né giova dedurre che le sentenze di divorzio vengono emanate “rebus sic stantibus”, essendo tale principio correlato al disposto dell’art. 9 della legge n. 898 del 1970 e successive modificazioni, che ne prevedono la modificabilità in relazione alla sopravvenienza di “giustificati motivi”, intesi come circostanze che abbiano alterato l’assetto economico fra le parti, o di relazione con i figli, e non come circostanze che sarebbero state impeditive della emanazione della sentenza di divorzio e dell’attribuzione dell’assegno, le quali non sono idonee ad incidere sul giudicato se non nei limiti in cui sono utilizzabili attraverso il rimedio della revocazione.

Ne consegue che il ricorso deve essere accolto e la sentenza impugnata cassata, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Roma, che deciderà la causa facendo applicazione del principio di diritto sopra enunciato e statuirà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

PER QUESTI MOTIVI

La Corte di cassazione

Accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese ad altra sezione della Corte di appello di Roma.