Sentenza 23 dicembre 2010, n.26009
Corte di Cassazione, Sez. II Civile, Sent.enza 23 dicembre 2010, n. 26009: "Donazione di un immobile in favore della parrocchia e mancata prova della sopravvenuta interversione del possesso".
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE – SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ODDO Massimo – Presidente
Dott. MAZZIOTTI DI CELSO Lucio – Consigliere
Dott. MIGLIUCCI Emilio – Consigliere
Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere
Dott. CARRATO Aldo – rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso (iscritto al N.R.G. 9224/05) proposto da:
N.M., rappresentato e difeso, in forza di procura speciale a margine del ricorso, dagli Avv. Giavaldi Enrico, Giovanni G. Bocchi e Manzo Tommaso, elettivamente domiciliato presso lo studio del terzo in Roma, via Cicerone, n. 28;
– ricorrente –
contro
PARROCCHIA SS. TRINITA' in (OMISSIS), rappresentata e difesa dagli Avv. Guerriero Livio, Cattaneo Cesare e Rueca Gualtiero in virtù di procura speciale apposta in calce a controricorso, ed elettivamente domiciliata presso lo studio del terzo in Roma, Largo della Gancia, n. 5;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte di appello di Brescia n. 875/2004 depositata il 21 ottobre 2004.
Udita la relazione della causa svolta nell'udienza pubblica del 26 ottobre 2010 dal Consigliere relatore Dott. Aldo Carrato;
udito l'Avv. Livio Guerriero per la controricorrente;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Scardaccione Eduardo Vittorio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 19 marzo 1998, il sig. N. M. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Brescia la Parrocchia SS. Trinità – ente ecclesiastico civilmente riconosciuto con sede in (OMISSIS), esponendo di avere acquistato, in virtù di usucapione, la proprietà di un fabbricato ad uso abitativo nel Comune di (OMISSIS), che la proprietaria, G.E., sua zia, deceduta il (OMISSIS), gli aveva assegnato in eredità con testamento del (OMISSIS), evidenziando, peraltro, che la zia, poco prima di morire (e, cioè, in data 26 settembre 1997), aveva donato lo stesso immobile alla predetta Parrocchia; chiedeva, pertanto, dichiararsi sia la nullità dell'intervenuta donazione in favore dell'anzidetta Parrocchia (sul presupposto che la donante dovesse ritenersi incapace al momento della disposizione dell'atto a titolo di liberalità), sia l'avvenuto acquisto per usucapione del predetto immobile, oltre che la validità del testamento in suo favore risalente al (OMISSIS). In seguito all'avvenuta costituzione della convenuta Parrocchia SS. Trinità (che aveva instato per il rigetto della domanda) e all'espletamento della fase istruttoria, il tribunale adito rigettava tutte le domande proposte dal N..
In virtù di rituale appello interposto dallo stesso N.M., la Corte di appello di Brescia, nella resistenza della suddetta Parrocchia, con sentenza n. 875 del 2004, rigettava il gravame, condannando l'appellante alla rifusione delle spese del grado.
A sostegno dell'adottata sentenza, la Corte territoriale, valorizzando le risultanze istruttorie già acquisite in primo grado, aveva rilevato che non era emersa in giudizio la sussistenza delle condizioni per far luogo all'accoglimento della domanda di usucapione, soprattutto considerandosi che, nella specie, sarebbe occorsa necessariamente la prova da parte del N., invero mancata, di una "interversio possessionis" da opporre ai proprietari del bene immobile dedotto in controversia (ritenendo assorbite le rimanenti questioni della nullità della donazione alla richiamata Parrocchia che della relativa accettazione derivante – secondo la prospettazione dell'appellante – dada circostanza che l'atto di disposizione proveniva "a non domino", nel mentre la questione della nullità del testamento successivo doveva ritenersi abbandonata).
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione N. M., articolato su quattro motivi, al quale ha resistito con controricorso la Parrocchia SS. Trinità.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente ha censurato la sentenza impugnata per assunta violazione dell'art. 75 c.p.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, per aver la Parrocchia S.S. Trinità resistito in giudizio senza la prescritta autorizzazione ovvero la necessaria licenza vescovile prevista dal canone 1288 del codice di rito canonico.
1.1. Il motivo è infondato e deve, pertanto, essere respinto.
Premesso, in generale, che le parrocchie sono da considerarsi (cfr. Cass. 11 settembre 2003, n. 13380) enti ecclesiastici riconosciuti, ai sensi della L. 20 maggio 1985, n. 222, art. 4, con decreto del Ministro dell'Interno, con effetto anche ai fini civilistici (a differenza delle Chiese, che hanno, invece, rilievo esclusivamente per il diritto canonico), il ricorrente, con il richiamato motivo, ha inteso, in effetti, far valere il difetto dell'autorizzazione a stare in giudizio della intimata Parrocchia SS. Trinità, cosi deducendo un vizio attinente alla sua capacità processuale. Tuttavia, questa doglianza è stata superata per effetto della produzione, unitamente al deposito del controricorso, della necessaria autorizzazione rilasciata dall'Ordinario della competente diocesi di (OMISSIS), la quale risulta confermata anche da quella ulteriore, in data 4 marzo 2009 (allegata alla memoria illustrativa ex art. 378 c.p.c.), specificamente riferita al giudizio intentato dal N.M. unitamente alla dichiarazione di ratifica dell'attività giudiziaria svolta dal parroco responsabile dinanzi al Tribunale e alla Corte di Brescia. In conseguenza di tali adempimenti, il collegio ritiene che la controricorrente abbia idoneamente comprovato la sua capacità a stare in giudizio, essendo possibile che la relativa documentazione venga allegata, nel giudizio di cassazione, prima della celebrazione dell'udienza di discussione (cfr. Cass. 30 maggio 2000, n. 7190), così rimanendo convalidata l'attività processuale svolta in precedenza, sicchè il vizio di autorizzazione deve intendersi sanato con effetto retroattivo (Cass. 28 novembre 1994, n. 10127, e Cass. 3 febbraio 2000, n. 1166).
2. Con il secondo motivo il ricorrente ha – nonostante la sua impropria intitolazione – dedotto l'assunta violazione e falsa applicazione dell'art. 345 c.p.c. in ordine all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, rappresentando che, a suo avviso, il giudice di appello aveva erroneamente rilevato che egli, nel corso del giudizio di primo grado, non aveva prospettato la sua qualità di donatario nel rivendicare l'immobile per cui era controversia, essendosi limitato a sostenere di aver usucapito il bene, senza alcun riferimento alle modalità ovvero al titolo di provenienza, così pervenendosi illegittimamente a ritenere che la domanda di usucapione fondata su tale qualità costituisse una "mutatio libelli", trascurando, tuttavia, di considerare, sul presupposto che la proprietà e gli altri diritti reali di godimento appartengono alla categoria dei cosiddetti "diritti autodeterminati", che gli doveva essere consentito di dedurre e provare, anche in appello, l'avvenuto accordo per una donazione in suo favore (senza, perciò, incorrere nel divieto sancito dall'art. 345 c.p.c.).
2.1. Anche questo motivo è da ritenersi infondato e, quindi, da rigettare. Diversamente da quanto assunto dal ricorrente, la sentenza di appello ha rilevato la deduzione della nuova questione relativa alla donazione di fatto dell'immobile (invero allegata per la prima volta in secondo grado) non per valutarne l'inammissibilità in quanto tale ma per desumerne la preclusione alla prova di essa in grado di appello. Pertanto, pur essendo i diritti reali riconducibili nell'ambito della categoria dei "diritti autodeterminati", non per questo (attraverso, cioè, tale qualificazione) si può pervenire ad ammettere una deroga al sistema delle preclusioni che regola l'ammissibilità della prova in grado di appello, la quale rimane assoggettata alla disciplina stabilita dall'art. 345 c.p.c., che vieta l'ordinaria ammissione di nuovi mezzi di prova, salva la valutazione dell'eventuale indispensabilità degli stessi da parte del giudice dell'impugnazione o l'emergenza delle condizioni per la rimessione in termini della parte che sia incorsa nella decadenza relativa alla formulazione delle istanze istruttorie per causa alla medesima non imputabili (circostanza, questa, non ricorrente nella specie).
A ciò aggiungasi che, nel valutare la prospettazione di una pretesa donazione di fatto, nulla ma tale da qualificare diversamente la disponibilità del bene in capo al ricorrente, la Corte di appello di Brescia ha escluso (con una serie di idonee argomentazioni, tra le quali quella inerente la mancata formalizzazione della supposta donazione) che le risultanze in fatto potessero consentire di far ritenere fondato l'assunto del N., ragion per cui quest'ultimo, in ordine a siffatto profilo, avrebbe dovuto, diversamente, censurare un'insufficienza o una contraddittorietà della motivazione in relazione all'art. 360, comma 1, n. 5, circa il fatto controverso del dedotto accordo verbale dal quale sarebbe derivata la donazione di fatto in suo favore (evenienza, però, non configuratasi nel caso concreto).
3. Con il terzo motivo (anch'esso, peraltro, rubricato in modo approssimativo) il ricorrente ha lamentato la violazione e falsa applicazione degli artt. 132 e 345 c.p.c. e il difetto di motivazione dell'impugnata sentenza (in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5) nella parte in cui risultava omessa ogni valutazione sulle ragioni che avevano indotto il giudice di appello al rigetto delle istanze istruttorie dallo stesso dedotte, ancorchè le stesse si dovessero ritenere rilevanti ed indispensabili ai fini della decisione della causa, siccome protese, soprattutto, a riscontrare la circostanza dell'esistenza dell'accordo familiare in forza del quale l'immobile avrebbe dovuto considerarsi donatogli dalla zia e quella del conseguente possesso dal medesimo esercitato "animus rem sibi habendi". 3.1. Anche questo motivo risulta destituito di fondamento e deve, perciò, essere respinto.
In effetti, sulla scorta di quanto rilevato sub 2.1, sul presupposto che la prova orale sulla circostanza (a cui sono rivolti i primi sette capitoli riportati nel ricorso) della riferita donazione di fatto fosse nuova (e, quindi, inammissibile), si deve ritenere che la pronuncia di inammissibilità sia stata idoneamente esternata in modo implicito mediante l'esatto rilievo della novità delle circostanze introdotte in appello (e, del resto, il ricorrente non può ritenersi, sul punto, portatore di uno specifico interesse a sollevare la relativa circostanza in questa sede di legittimità, perchè anche l'eventuale valutazione di fondatezza della stessa non potrebbe giammai determinare l'ammissibilità di una prova nuova in appello). Con riferimento al profilo della considerazione dell'aspetto relativo al pagamento dell'ici (al quale sono riferiti gli ulteriori capitoli di prova nuovamente articolati in ricorso) svolta dalla Corte di appello di Brescia in modo logico e coerente (e senza, quindi, ravvisare l'indispensabilità di ogni ulteriore accertamento), con il proposto motivo il N. tende a sollecitare un riesame della valutazione della relativa circostanza che non è pacificamente consentito in questa sede.
Costituisce, infatti, principio costante nella giurisprudenza di questa Corte che deve reputarsi inammissibile il motivo di ricorso per cassazione con il quale la sentenza impugnata venga censurata per vizio di motivazione qualora con esso si intenda far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, si prospetti un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all'ambito di discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell'apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi de) percorso formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
In caso contrario, infatti, tale motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni del giudice del merito e, perciò, in una richiesta diretta all'ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione (v., da ultimo, Cass. 26 marzo 2010, n. 7394, e Cass. 2 novembre 2010, n. 22298).
4. Con il quarto motivo il ricorrente ha prospettato la violazione e falsa applicazione degli artt. 1158 e 1167 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, con riferimento all'erronea mancata considerazione, nella sentenza impugnata, della valenza della prova offerta a dimostrazione della intervenuta usucapione a favore dello stesso contrapponendo la circostanza che la signora G. E. si era sempre ritenuta nel possesso del bene tanto da considerarsi legittimata a dispone donandolo alla Parrocchia S.S. Trinità di (OMISSIS), nel mentre la condizione soggettiva della sua dante causa avrebbe dovuto qualificarsi come del tutto irrilevante, non incidendo su alcuno degli elementi costitutivi della fattispecie disciplinata dall'art. 1158 c.c. e non essendosi verificati, nell'ipotesi in questione, atti interruttivi del possesso invero esercitato, in via esclusiva, dallo stesso N..
4.1. Anche quest'ultimo motivo (erroneamente rubricato con riguardo all'art. 360 c.p.c., n. 3, prospettandosi, piuttosto, riferibile, nella sua articolazione, al vizio di motivazione di cui allo stesso art. 360, n. 5) è privo di pregio e va, quindi, rigettato.
La Corte di appello di Brescia, con motivazione immune da vizi logici ed errori di diritto (e, perciò, insindacabile in sede di legittimità: cfr. Cass. 7 luglio 2000, n. 9106, e Cass. 11 maggio 2010, n. 11410), ha accertato che (a prescindere dal calcolo del ventennio necessario ad usucapire e dall'individuazione dei termini iniziale e finale di esso) il ricorrente non aveva instaurato una vera e propria condizione possessoria sull'immobile oggetto di domanda di usucapione (la quale era rimasta in capo alla zia G. E., che lo aveva continuato ad esercitare, ancorchè "solo animo") poichè, alla stregua delle risultanze dell'esperita istruzione orale e della valutazione delle intervenute acquisizioni documentali, si poteva, tutt'al più, ritenere che egli avesse esercitato un potere di fatto riconducibile a quello di un detentore, senza, tuttavia, che fosse stata comprovata la sussistenza dei presupposti (alla quale era onerato lo stesso ricorrente) per ravvisare una sopravvenuta interversione del possesso. Quest'ultima, infatti, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (v., per tutte, Cass. 4 aprile 2006, n. 7817, e Cass. 29 gennaio 2009, n. 2392), non può aver luogo mediante un semplice atto di volizione interna, ma deve estrinsecarsi in una manifestazione esteriore, dalla quale sia consentito desumere che il detentore abbia cessato di esercitare il potere di fatto sulla cosa in nome altrui e abbia iniziato ad esercitarlo esclusivamente in nome proprio, con correlata sostituzione al precedente "animus detinendi" dell'animus rem sibi habendi"; tale manifestazione deve, peraltro, essere rivolta specificamente contro il possessore, in maniera che questi sia posto in grado di rendersi conto dell'avvenuto mutamento, e, quindi, tradursi in atti ai quali possa riconoscersi il carattere di una concreta opposizione all'esercizio del possesso da parte sua, precisandosi che non risultano idonei, a tal fine, gli atti che si traducano nell'inottemperanza alle pattuizioni in forza delle quali la detenzione era stata costituita (verificandosi in questo caso una ordinaria ipotesi di inadempimento contrattuale) ovvero si concretino in meri atti di esercizio del possesso (verificandosi, in tal caso, una ipotesi di abuso della situazione di vantaggio determinata dalla materiale disponibilità del bene). In sostanza, sulla scorta delle conferenti ed adeguate valutazioni operate dalla Corte territoriale in ordine ai riscontri probatori emersi, la semplice disponibilità dell'immobile dedotto in controversia con i poteri del detentore non poteva valere, in difetto di un'idonea prova rilevante ai sensi dell'art. 1141 c.c., comma 2, a dimostrare il passaggio dalla detenzione al preteso possesso "animo domini", valido agli effetti dell'acquisto per usucapione (per il quale, oltretutto, sarebbe stato necessario il riscontro di un possesso effettivo, continuato ed incontestato di durata ultraventennale).
5. In definitiva, il ricorso del N.M. deve essere rigettato con sua conseguente condanna, in quanto soccombente, al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 2.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori come per legge.
Autore:
Corte di Cassazione - Civile
Dossier:
Enti religiosi, Italia, CESEN
Nazione:
Italia
Parole chiave:
Enti ecclesiastici, Parrocchia, Beni immobili, Donazione, Usucapione, Atto di liberaliità
Natura:
Sentenza