Sentenza 22 marzo 2006, n.94
TAR Marche. Sezione I. Sentenza 22 marzo 2006, n. 94: “Rimozione del crocifisso dalle aule giudiziarie: inammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo”.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per le Marche (Sezione Prima) ha pronunciato la presente
SENTENZA
Sul ricorso numero di registro generale 00477 del 2004, proposto da:
T.L., rappresentato e difeso dall’avv. Fabio Pierdominici, elettivamente domiciliato in Ancona, alla Via Menicucci n.1, presso l’avv. Corrado Curzi;
contro
– il MINISTERO della GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro-tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Ancona, presso il cui Ufficio, alla Piazza Cavour n.29, è domiciliato ex lege;
– il PRESIDENTE del TRIBUNALE di CAMERINO, non costituito in giudizio;
per la condanna, previa emanazione di misura cautelare, del Ministro della Giustizia e del Presidente del Tribunale di Camerino – previo accertamento della lesione dei diritti soggettivi del ricorrente e la consequenziale illegittimità del rifiuto opposto dal Ministro della Giustizia – a rimuovere dalle aule del Tribunale di Camerino il simbolo religioso del crocifisso, condannando inoltre l’Amministrazione ad eseguire la rimozione senza indugio, con contestuale comminatoria, in caso di ulteriore ritardo, di nomina di commissario ad acta alla scadenza del termine fissato; nonché per la condanna con i motivi aggiunti notificati il 9.7.2005, depositati il 27.7.2005, dell’Amministrazione a rimuovere il simbolo religioso del crocifisso dalle aule di tutti gli uffici giudiziari italiani o, in via gradata, ad esporre a proprie spese in tutte le aule giudiziarie italiane tutti gli altri simboli religiosi, atei ed agnostici, ed in ogni caso la menorà ebraica, in via più gradata, a consentire al ricorrente di esporre altri simboli religiosi, atei o agnostici, in qualsiasi aula giudiziaria italiana.
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero della Giustizia;
Vista la propria ordinanza 23 settembre 2004, n.468;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore, nell’udienza pubblica del giorno 21/12/2005, il dott. Giuseppe Daniele e uditi per le parti i difensori come specificato nel relativo verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:
FATTO
Il dott. L. T., magistrato ordinario in servizio presso il Tribunale di Camerino, con note in data 31.10.2003 e 9.12.2003 rivolte al Presidente del Tribunale di Camerino, al Presidente della Corte d’Appello di Ancona ed al Ministro della Giustizia (la prima) ed al Consiglio Superiore della Magistratura, oltre che alle Autorità sopra menzionate (la seconda) chiedeva che venisse rimosso dalle aule giudiziarie del Tribunale di Camerino il simbolo religioso del crocifisso; il dott. T. motivava la sua richiesta sostenendo che la collocazione del crocifisso nelle aule di udienza contrasta con il principio costituzionale di laicità o di non confessionalità dello Stato italiano, e non è attualmente contemplata da alcuna norma di rango primario, ma soltanto dalla circolare del Ministro di Grazia e Giustizia in data 29 maggio 1926, n.2134/1867, da ritenersi implicitamente abrogata a seguito dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, poiché in palese contrasto con i principi di laicità dello Stato (artt.2, 3, 7, 8, 19 e 20 Cost.), dell’imparzialità della pubblica amministrazione e della giustizia (artt.97 e 111 Cost.), dell’uguaglianza dei cittadini (art.3 Cost.), dell’uguaglianza e pari dignità di tutte le confessioni religiose dinanzi alla legge (art.8 Cost.), della libertà di manifestare il proprio credo religioso (art.19 Cost.) e della libertà di pensiero (art.21 Cost.).
In riscontro alla nota del dott. T. in data 9.12.2003 il Presidente del Tribunale di Camerino, con provvedimento 23.12.2003 prot. n.2113, dopo aver espresso l’opinione che la suddetta circolare del Ministro di Grazia e Giustizia 29 maggio 1926, n.2134/1867 sia tuttora vigente, in quanto non revocata o modificata, né annullata per illegittimità, ne traeva la conseguenza che le istanze presentate dall’interessato non potessero trovare accoglimento.
Perdurando la presenza del simbolo del crocifisso nelle aule del Tribunale di Camerino, nonostante le istanze formulate dal dott. T., il medesimo ha adito questo T.A.R., con atto notificato il 28.4.2004, depositato il 6.5.2004, chiedendo che – previo accertamento della lesione dei diritti soggettivi di esso ricorrente, e della consequenziale illegittimità del rifiuto opposto dall’Amministrazione della Giustizia – venga disposta la condanna del Ministro della Giustizia e del Presidente del Tribunale di Camerino a rimuovere dalle aule del Tribunale di Camerino il simbolo religioso del crocifisso, condannando inoltre l’Amministrazione ad eseguire la rimozione senza indugio, con contestuale comminatoria, in caso di ulteriore ritardo, di nomina di commissario ad acta alla scadenza del termine fissato.
A fondamento della propria pretesa l’istante ha dedotto che la circolare del Ministro di Grazia e Giustizia 29 maggio 1926, n.2134/1867 (menzionata nel provvedimento 23.12.2003 prot. n.2113 del Presidente del Tribunale di Camerino per giustificare il mancato accoglimento delle istanze del dott. T.) non può ritenersi vigente e produttiva di alcun effetto giuridico, in quanto:
a) la suddetta circolare non è una norma di rango primario, ma un mero atto amministrativo;
b) la medesima circolare è assolutamente incompatibile con sopravvenute norme di legge, addirittura di rango costituzionale, quali gli artt.8 e 21 della Costituzione;
c) l’esposizione del crocifisso viola il principio di parità tra le religioni, poiché quella cattolica non è più la religione di Stato (come si desume dalle sentenze della Corte Costituzionale 10 ottobre 1979, n.117 e 5 maggio 1995, n.149);
d) la presenza del crocifisso è lesiva anche del diritto alla pari dignità delle confessioni religiose;
e) tale presenza lede, inoltre, la libertà di non manifestare alcun credo religioso e di non subire la violenza della imposizione di un simbolo in cui i non credenti o quanti credono in religioni diverse dalla cattolica non si identificano.
Costituitosi in giudizio il Ministero della Giustizia, ha preliminarmente eccepito l’inammissibilità del ricorso, in quanto proposto ben oltre il termine di sessanta giorni dalla partecipazione del diniego della rimozione del crocifisso da parte del Presidente del Tribunale di Camerino, nonché per la mancata impugnazione dell’atto presupposto (la circolare del Ministro di Grazia e Giustizia 29 maggio 1926, n.2134/1867); nel merito, ha dedotto la infondatezza del gravame, sostenendo la persistente vigenza delle disposizioni che prevedono l’esposizione del crocifisso nelle scuole e nelle aule giudiziarie.
Con ordinanza 23 settembre 2004, n.468 il Tribunale ha respinto l’istanza cautelare proposta dall’interessato.
Successivamente, con nota in data 1.5.2005 rivolta al Ministro della Giustizia e per conoscenza al Presidente del Tribunale di Camerino, il dott. T. ha reiterato la richiesta di rimozione del simbolo del crocifisso – estendendone la portata a tutti gli uffici giudiziari italiani – ed ha chiesto in subordine che l’Amministrazione esponesse nelle aule giudiziarie il simbolo della menorà ebraica, oppure che lo autorizzasse ad esporlo a sue spese.
Entrambe le richieste sono state disattese dal Ministro della Giustizia, sicché con decorrenza 9.5.2005 il ricorrente si è rifiutato di tenere le udienze. A seguito di tale iniziativa, il Presidente del Tribunale di Camerino, con nota del 25.5.2005, ha invitato il dott. T., in considerazione della difficilissima situazione venutasi a creare in quell’Ufficio, a tenere le udienze nella sua stanza o in altra priva di detto simbolo religioso; ed il Presidente della Corte di Appello di Ancona, con nota del 27.5.2005, ha espresso l’avviso che “rimedio congruo … (in relazione alle istanze proposte dall’interessato) … possa essere quello di allestire altro idoneo locale, diverso da quelli attualmente destinati ad aule di udienza, dove il dott. T. possa tenere quanto meno le udienze civili e di lavoro”.
Ritenendo tali proposte discriminatorie e ghettizzanti, l’interessato ha nuovamente adito questo T.A.R., con motivi aggiunti notificati il 19.7.2005, depositati il 27.7.2005, chiedendo la condanna dell’Amministrazione a rimuovere il simbolo religioso del crocifisso dalle aule di tutti gli uffici giudiziari italiani o, in via gradata, ad esporre a proprie spese in tutte le aule giudiziarie italiane tutti gli altri simboli religiosi, atei ed agnostici, ed in ogni caso la menorà ebraica, in via più gradata, a consentire al ricorrente di esporre altri simboli religiosi, atei o agnostici, in qualsiasi aula giudiziaria italiana.
Reiterando le argomentazioni contenute nell’atto introduttivo del giudizio, il dott. T. censura il comportamento dello Stato italiano, che si ostina ad esporre il solo simbolo del crocifisso nei Tribunali italiani (e nei pubblici uffici in genere) in tal modo contravvenendo all’obbligo della laicità ed altresì violando i diritti di uguaglianza e libertà religiosa dei cittadini atei o credenti in religioni diverse da quella cattolica.
Con memoria depositata in prossimità dell’udienza di discussione il dott. T. ha illustrato ed ampliato le tesi già esposte nei precedenti scritti difensivi, insistendo per l’accoglimento delle prese conclusioni.
DIRITTO
1.- Ritiene anzitutto il Collegio di verificare la sussistenza della propria giurisdizione in materia (anche in relazione alle specifiche domande proposte con il ricorso) atteso che la controversia in esame è stata incardinata dinanzi al giudice amministrativo avendo ad oggetto – secondo la prospettazione dell’interessato – diritti soggettivi assoluti, strettamente correlati al rapporto di pubblico impiego che lega il dott. T. alla pubblica Amministrazione, ed in considerazione del fatto che, anche dopo la c.d. “privatizzazione” del pubblico impiego, restano devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie relative al rapporto d’impiego dei magistrati ordinari, ai sensi del combinato disposto degli artt. 63, comma 4 e 3, comma 1, del D.Lgs. 30 marzo 2001 n.165.
2.- Per ragioni di ordine logico ritiene il Collegio di esaminare, in primo luogo, la domanda proposta con i motivi aggiunti, con la quale il dott. T. chiede che, previo accertamento dei diritti soggettivi da lui rivendicati, venga disposta la condanna dell’Amministrazione a rimuovere il simbolo religioso del crocifisso dalle aule di tutti gli uffici giudiziari italiani o, in via gradata, ad esporre a proprie spese in tutte le aule giudiziarie italiane tutti gli altri simboli religiosi, atei ed agnostici, ed in ogni caso la menorà ebraica, nonché in via più gradata, a consentire ad esso ricorrente di esporre altri simboli religiosi, atei o agnostici, in qualsiasi aula giudiziaria italiana.
Il Collegio ritiene che una domanda così formulata esuli palesemente dalla giurisdizione del giudice amministrativo.
Si deve osservare, in proposito, che la giurisdizione del Giudice amministrativo (analogamente a quella civile, ed a differenza di quella costituzionale e penale) è una giurisdizione di diritto soggettivo (volta cioè alla tutela di interessi individuali) e non di diritto oggettivo (in cui il fine diretto ed immediato è quello di tutelare l’osservanza della legge), nell’ambito della quale la parte antagonista dell’Amministrazione non tende all’affermazione del diritto oggettivo (si potrebbe dire, altrimenti, all’affermazione della verità, secondo quelli che sono i principi stabiliti dalla vigente normativa), bensì a tutelare una propria situazione giuridica soggettiva rilevante per l’ordinamento, che si ritenga in qualche modo incisa dalla pubblica Amministrazione, sia che si verta in materia di interessi legittimi, o di diritti soggettivi in senso proprio. Ciò è confermato dalla circostanza che, nella giurisdizione amministrativa, il processo è sempre promosso dal soggetto titolare dell’interesse particolare che viene azionato, e dalle disposizioni che prevedono la piena disponibilità del giudizio; dovendo quindi ritenersi, in ultima analisi, che scopo immediato della giurisdizione amministrativa è la tutela degli interessi particolari (di qualunque natura, siano essi direttamente o indirettamente riconosciuti dall’ordinamento) in qualche modo incisi dall’azione della P.A..
Nella presente controversia, al contrario, il dott. T. chiede – mediante la domanda formulata con i motivi aggiunti – che una volta accertata la violazione del principio di laicità e dei diritti di uguaglianza e libertà religiosa dei cittadini atei o credenti in religioni diverse da quella cattolica, poste in essere dallo Stato italiano mediante l’esposizione del (solo) simbolo del crocifisso negli uffici giudiziari, e negli altri pubblici uffici in genere, questo Tribunale condanni il Ministero della Giustizia a rimuovere il simbolo religioso del crocifisso dalle aule di tutti gli uffici giudiziari italiani o, in via gradata, ad esporre a proprie spese in tutte le aule giudiziarie italiane tutti gli altri simboli religiosi, atei ed agnostici, ed in ogni caso la menorà ebraica.
Trattasi, come ognuno vede, di una domanda che prescinde dal rapporto di pubblico impiego del ricorrente e travalica manifestamente le attribuzioni del Giudice amministrativo, quali configurate dal vigente ordinamento, poiché il dott. T. invoca, per un verso, la verifica di questo Tribunale sull’azione amministrativa, in nome di un astratto sindacato di legalità, svincolato cioè dalla tutela di un interesse proprio di esso ricorrente (tanto è vero che la controparte sembra essere individuata non soltanto nel Ministero della Giustizia, ma addirittura nello Stato italiano, e la statuizione richiesta è riferita anche ad uffici giudiziari diversi da quello in cui il dott. T. espleta la propria attività lavorativa, ed anzi a tutti gli uffici giudiziari siti nel territorio nazionale) e per altro verso chiede l’emanazione di una pronuncia con effetti generalizzati ed “erga omnes” che presuppone la delibazione circa la legittimità e la vigenza delle norme che impongono l’esibizione del crocifisso negli uffici giudiziari, ed in genere negli uffici pubblici.
Ne deriva che, in disparte ogni ulteriore rilievo circa la sussistenza dell’interesse a ricorrere, la domanda in argomento deve essere dichiarata inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.
3.- Si deve quindi esaminare la domanda proposta con l’atto introduttivo del giudizio, con la quale il dott. T. chiede la condanna del Ministero della Giustizia alla rimozione dalle aule del Tribunale di Camerino del simbolo religioso del crocifisso. Trattasi di domanda in linea di principio ammissibile, perché connessa al rapporto di pubblico impiego del ricorrente (che espleta la propria attività lavorativa presso gli uffici di quel Tribunale) e concernente in maniera immediata e diretta la sua posizione giuridica.
3.1.- Osserva peraltro il Collegio che, nelle more del presente giudizio, è intervenuta la sentenza della Corte Costituzionale 6 luglio 2004, n.204, con la quale è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo, per contrasto con gli art.24, 25, 100, 102, 103, 111 e 113 Cost., l’art.34, comma 1 D.Lgs. 31 marzo 1998 n.80, come sostituito dall’art.7 lett. b) L. 21 luglio 2000 n.205, nella parte in cui prevede che sono devolute alla giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo le controversie aventi per oggetto “gli atti, i provvedimenti e i comportamenti” anziché “gli atti e i provvedimenti” delle pubbliche amministrazioni e dei soggetti alle stesse equiparati, in materia urbanistica ed edilizia. Infatti, la norma, nel comprendere nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, oltre “gli atti e i provvedimenti” attraverso i quali le pubbliche amministrazioni (direttamente o attraverso “soggetti alle stesse equiparati”) svolgono le loro funzioni pubblicistiche in materia urbanistica ed edilizia, anche i “comportamenti”, la estende a controversie nelle quali la P.A. non esercita, nemmeno mediatamente, cioè avvalendosi della facoltà di adottare strumenti intrinsecamente privatistici, alcun pubblico potere.
Con tale sentenza la Corte Costituzionale ha chiarito che la materia dei servizi pubblici può essere attribuita in via esclusiva alla giurisdizione amministrativa unicamente nei circoscritti limiti dell’azione autoritativa della pubblica amministrazione, giacché l’identificazione delle “particolari materie” menzionate dall’art.103, comma 1, Cost. non può essere ancorata alla pura e semplice presenza, in un determinato settore, di un rilevante interesse pubblico, venendo per contro in rilievo, in luogo del criterio oggettivo (sotteso al criterio di riparto per “blocchi di competenza”) stigmatizzato dalla Consulta, l’esistenza di una situazione d’inestricabile compenetrazione di interessi legittimi e di diritti soggettivi.
Il Legislatore ordinario, pertanto, può ampliare l’area della giurisdizione esclusiva purché siffatta estensione riguardi materie complementari rispetto a quelle sicuramente rientranti nell’ambito della generale cognizione di legittimità del giudice amministrativo e queste ultime sono quelle che contemplano interventi della pubblica Amministrazione in veste di autorità.
3.2.- Con la suddetta pronuncia (ancorché formalmente riferibile alla sola materia dei servizi pubblici) la Corte – con un intervento manipolativo – ha in realtà ridefinito l’ambito di operatività della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, enunciando principi riferibili a tutte le materie rientranti in tale giurisdizione, ivi compresa, per quanto d’interesse nel caso in esame, quella del pubblico impiego, nei limiti in cui essa (art.63, comma 4, del D.Lgs. 30 marzo 2001, n.165) continua a rimanere devoluta al Giudice amministrativo.
Aggiungasi che la sentenza della Corte assume anche specifica rilevanza nel presente giudizio, ai fini della individuazione del giudice competente ad esprimersi sulla domanda proposta dal dott. T., stante l’efficacia sostanzialmente retroattiva (a far data dall’entrata in vigore della norma cancellata dal mondo giuridico) che assiste le pronunce del giudice delle leggi, qualora interferenti su rapporti non esauriti. A questo novero appartengono sicuramente i processi ancora pendenti (come quello che occupa) per i quali è dunque recessivo il contrario principio sancito dall’art.5 del c.p.c..
Alla luce della qualificazione della posizione giuridica azionata in questa sede dal ricorrente, e sulla base del nuovo criterio di riparto di giurisdizione introdotto dalla Corte Costituzionale, si deve quindi valutare se la controversia appartenga o no alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo; se cioè essa, ancorché connessa al rapporto di pubblico impiego del ricorrente, sia “contrassegnata dalla circostanza che la pubblica amministrazione agisce come autorità nei confronti della quale è accordata tutela al cittadino davanti al giudice amministrativo” (così testualmente il paragrafo 3.2. della motivazione della succitata sentenza 6 luglio 2004, n.204).
4.- Il Collegio ritiene che al quesito non possa che essere data risposta negativa. In disparte il rilievo che lo stesso ricorrente deduce nei propri scritti difensivi che l’esposizione del crocifisso nelle aule giudiziarie lede diritti soggettivi assoluti che gli sono riconosciuti dalla Costituzione, quali il diritto soggettivo alla libertà religiosa (art.19 Cost.) e quello all’uguaglianza (art.3 Cost.), osserva il Collegio come non sia revocabile in dubbio che la libertà religiosa, cui in ultima analisi è riconducibile la pretesa azionata dal dott. T. (sia pure nei suoi aspetti negativi, cioè di non subire l’imposizione di obblighi che siano in contrasto con le sue opinioni religiose), costituisce uno di quei diritti fondamentali che assumono un’importanza particolare nel nostro ordinamento, in quanto determinano la posizione fondamentale dell’individuo e delle formazioni sociali nell’ordinamento dello Stato e persino in quello internazionale, e sono inviolabili (anche ai sensi dell’art.2 della Costituzione), da parte di qualunque soggetto, ivi compresa la pubblica Amministrazione.
A tanto consegue che, essendo questa la natura sostanziale della pretesa del ricorrente, la presente controversia non è riconducibile alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, come “ridefinita” dalla sentenza della Corte Costituzionale 6 luglio 2004, n.204, essendo evidente che in materia non sussiste alcuna “situazione d’inestricabile compenetrazione di interessi legittimi e di diritti soggettivi” (per usare le espressioni testuali della Corte), né la pubblica Amministrazione può agire in veste di autorità, esercitando poteri discrezionali, essendo al contrario unicamente tenuta a rispettare e garantire la libertà degli interessati, sia pure entro i limiti fissati dall’ordinamento (ai sensi dell’art.19 Cost. i riti religiosi sono protetti solo se conformi al buon costume). Con la ulteriore conseguenza che ogni controversia in proposito non può che essere attribuita al giudice ordinario, in quanto giudice naturale dei diritti soggettivi, anche nei rapporti tra privati e pubblica Amministrazione.
5.- Si deve quindi concludere che anche la domanda proposta con l’atto introduttivo del giudizio deve essere dichiarata inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.
Si ritiene comunque di evidenziare che anche volendo privilegiare una diversa valutazione circa la natura della situazione giuridica dedotta in giudizio (seguita dal T.A.R. Veneto con la sentenza della Sez.III; 22 marzo 2005 n.1110, che ha deciso una controversia che presenta elementi di somiglianza con quella in esame), che questo Collegio non condivide per le ragioni sopra esposte, e ritenendo che a fronte della potestà organizzativa della P.A. il diritto di libertà fatto valere dagli interessati (utenti di un servizio pubblico o, come nella fattispecie, titolari di un rapporto di pubblico impiego) venga degradato ad interesse legittimo, con conseguente devoluzione della controversia alla giurisdizione amministrativa di legittimità, il ricorso in esame dovrebbe essere ugualmente dichiarato inammissibile. L’interesse legittimo postula infatti che la relativa tutela sia esercitata mediante impugnazione degli atti amministrativi che hanno leso la posizione giuridica del ricorrente, da effettuarsi entro il termine di sessanta giorni previsto dall’art.21 della L. 6 dicembre 1971, n.1034; e nella fattispecie il dott. T., come esattamente eccepito dall’Avvocatura dello Stato, non ha impugnato (o, a tutto voler concedere, ha impugnato tardivamente) il provvedimento 23.12.2003 prot. n.2113 con cui il Presidente del Tribunale di Camerino ha negato la rimozione del crocifisso dalle aule di quell’ufficio giudiziario, e l’atto presupposto del diniego (la circolare del Ministro di Grazia e Giustizia in data 29 maggio 1926, n.2134/1867).
6.- Per le argomentazioni che precedono il ricorso in epigrafe indicato (atto introduttivo, e motivi aggiunti) deve essere dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.
7.- Si ravvisano tuttavia ragioni, anche in considerazione della particolarità e della parziale novità delle questioni trattate, per compensare tra le parti le spese del giudizio.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale delle Marche dichiara inammissibile il ricorso in epigrafe indicato, per difetto di giurisdizione del Gudice amministrativo. Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così deciso in Ancona nella camera di consiglio del giorno 21/12/2005 con l’intervento dei signori:
Vincenzo Sammarco, Presidente
Giuseppe Daniele, Consigliere, Estensore
Liana Tacchi, Consigliere
Autore:
Tribunale Amministrativo
Dossier:
Crocifisso
Nazione:
Italia
Parole chiave:
Libertà religiosa, Simboli religiosi, Crocifisso, Principio di laicità, Aule giudiziarie, Pubblico impiego, Difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, Giurisdizione esclusiva
Natura:
Sentenza