Sentenza 22 gennaio 2007, n.64
TAR Abruzzo. Sentenza 22 gennaio 2007, n. 64: “Obiezione di coscienza e revoca del porto d’armi”
IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO PER L’ABRUZZO
Sezione staccata di Pescara
composto dai magistrati:
-Antonio CATONI presidente
-Miclele ELIANTONIO consigliere
-Dino NAZZARO consigliere relatore
ha pronunciato, ai sensi degli artt. 21, comma 10^, e 26 L. 1034/1971, la seguente
SENTENZA
Nel giudizio proposto con ric. n. 7 del 2007, da B. L., costituito con l’avv. Giulio CERCEO, come in ricorso;
CONTRO
IL MINISTERO DELL’INTERNO – Prefettura di Pescara – Questura di Pescara, quali rappresentati, in giudizio con l’Avvocatura dello Stato;
PER L’ANNULLAMENTO
-del decreto prefettizio di revoca del porto d’armi (24.11.2006 prot. N. PEUTG00516492006) e del divieto di detenzione di armi e munizioni (5.12.2006 prot. N. PEUTG00536972006);
visto il ricorso, la costituzione dell’Avvocatura, le memorie ed i documenti depositati;
udito alla camera di consiglio dell’11 gennaio 2007 il consigliere Dino NAZZARO e gli avv. G. CERCEO e L. DI BARTOLOMEO;
visto le conclusioni rassegnate;
ritenuta la causa per la decisione, previo avvertimento alle parti della possibilità di una sentenza immediata, con ordine di relativa verbalizzazione, e considerato, quanto segue, in
FATTO e DIRITTO
-il ricorrente, guardia giurata in servizio presso un istituto di vigilanza privata, si è visto revocare la licenza, relativa alla pistola di servizio, in quanto è stato, a suo tempo, obiettore di coscienza. Si sostiene che la richiesta e la concessione della licenza importava anche il superamento dello stato di obiettore e che quanto mai opportuno era nella fattispecie l’avviso dell’avvio del procedimento di revoca.
L’Avvocatura dello Stato ricorda che si è in presenza di un atto “vincolato” (art. 15, comma 6^) e che l’obiezione di coscienza non può avere una funzione strumentale.
***
– La questione è meritevole di considerazione, ponendo in posizione conflittuale il diritto di libertà di coscienza (artt. 19, 21 e 22 cost.) con quello allo svolgimento del “lavoro scelto” (art. 4 cost.).
La legge n. 230/8.7.1998, che ha abrogato la L. n. 772/15.12.1972 (art. 23), configura l’obiezione di coscienza come l’esercizio di un diritto di libertà, parificando il servizio civile sostitutivo al “dovere costituzionale di difesa della Patria”; essa, peraltro, pone delle preclusioni ai soggetti che siano titolari di autorizzazioni all’uso delle armi (artt. 28 e 30 T.U. L. P.S., r.d. n. 773/18.6.1931), precisando (art. 2, lett. a) che il rilascio del porto d’armi comporta rinuncia ad esercitare il diritto di obiezione di coscienza; esso rappresenta un ammonimento per coloro che sono ancora soggetti all’obbligo di leva, mentre, se l’interessato ha già svolto il servizio civile sostitutivo di quello militare, al medesimo è vietato detenere ed usare le armi; all’autorità di pubblica sicurezza, inoltre, è fatto divieto di rilasciare o rinnovare qualsiasi autorizzazione relativa all’esercizio delle attività con uso di armi, così come ai medesimi è inibita la partecipazione ai concorsi per le FF.AA., Arma dei Carabinieri, Polizia dello Stato, Corpo di polizia penitenziaria e Corpo forestale dello Stato o per qualsiasi impiego che comporti l’uso delle armi (art. 15, comma 6^ e 7^ L. 230/98).
Tale parte preclusiva della normativa ha a presupposto il persistere della qualità di obiettore di coscienza, che, invero, dovrebbe venir meno in base alla semplice richiesta di parte di essere autorizzato al porto d’armi.
La Corte costituzionale (sent. n. 141/7.4.2006), nel respingere la questione di costituzionalità della normativa di specie, ha ritenuto che il divieto dà effettività e serietà alla scelta fatta in punto di “ripudio delle armi” e, quindi, la inibizione delle attività, che hanno ad oggetto un uso delle stesse contro altro eventuale soggetto, si pone su un piano di coerenza logica.
La Corte non ha affrontato la problematica relativa al “diritto al lavoro” ed alla stessa libertà di pensiero che è “ambulatoria usque ad supremum exitum vitae”; la possibilità di un cambiamento di idee e/o di rinuncia “postuma” alla stessa obiezione di coscienza, non è, pertanto, esclusa ed essa, se non implica la vanificazione dell’espletato servizio civile (factum infectum fieri nequit), comporta la sottoposizione dell’interessato agli effetti ulteriori di cui all’art. 15 comma 4^, L. n. 230/98 (richiamo alle armi per mobilitazione per i soggetti per i quali sono sopravvenute le condizioni ostative, per l’obiezione di coscienza, di cui all’art. 2 della stessa legge).
IL giudicante, peraltro, ritiene che la presente fattispecie, che vede il ricorrente svolgere l’attività (prettamente civile) di guardia giurata con l’uso di un’arma, non per offendere, bensì per difendere, possa essere decisa senza alcun ulteriore incidente di costituzionalità, mediante una valutazione ermeneutica conforme ai valori costituzionali.
Tralasciando gli aspetti procedimentale – partecipativi (art. 7 L. 241/1990), che trovano superamento da parte dell’art. 21 octies, comma 2^, L. 241/1990, aggiornato dalla L. n. 15/2005 (cd. fase processuale preclusiva dell’annullamento), il discorso va portato sui binari della “ragionevolezza”.
Se è esatto che l’obiezione di coscienza presuppone una precisa scelta ideale, con il rifiuto della violenza e, quindi, delle armi, e che la stessa potrebbe essere utilizzata strumentalmente dal soggetto per svolgere il servizio militare in forma “civile”, fatto da stigmatizzare e punire, non è possibile, una volta che l’obbligatorietà del servizio di leva sia venuto meno, sia pure nella forma della sospensione (art. 2, comma 1^, lett. f, L. n. 331/14.11.2000), con la istituzione del “militare professionalizzato”, fare della “obiezione di coscienza accolta” una “gabbia” limitativa delle possibilità del cittadino, libero di cambiare idee politiche e/o etiche, nonché avente diritto a svolgere l’attività lavorativa che si è scelta; del resto, quel che è essenziale è l’accertamento delle condizioni di legge al momento della richiesta ed ogni altra disposizione ha una validità “rebus sic stantibus”.
Che la normativa non sia così assoluta lo si ricava dal richiamato art. 15, comma 4^, L. 230/1998, che consente di mobilitare in armi anche i cittadini che abbiano prestato servizio civile e poi, nei fatti, si siano comportati in modo diverso, per qualsiasi ragione, ivi compresa la “rinuncia postuma” esplicita e/o per “facta concludentia”, quale appunto la richiesta di porto d’armi (regolarmente accolta e rinnovata senza alcun nascondimento dell’attività da svolgere da parte dell’interessato) ed il tipo di lavoro scelto.
Pur volendo considerare, nonostante fondate perplessità, quello di obiettore di coscienza uno “status” particolare, fondamentale è la possibilità di rinunciarvi e recuperare il proprio diritto costituzionale al lavoro ed alla sua libera scelta; la normativa, come illustrato, consente, sia pure indirettamente, tale possibilità e non pone alcun problema di costituzionalità.
La stessa obiezione di coscienza al servizio militare ha assunto, infine, sul piano socio – politico e giuridico, un ridimensionamento a problema etico individuale con la L. 23.8.2004 n. 226, che ha sospeso, dal 1.1.2005, il servizio di leva obbligatorio nell’ambito di una progressiva trasformazione professionale della figura del militare.
La logica della “coerenza” ha sempre un valore “rebus sic stantibus” e mai assoluto, né può essere vincolata ad atti formali e/o procedurali, essendo sufficiente, per il venir meno della riconosciuta qualità, il porre in essere di situazioni ostative al suo mantenimento; né va dimenticato che l’obiezione di coscienza è riconosciuta dall’ordinamento in maniera tassativa e per prestazioni personali normativamente imposte, risultanti conflittuali con particolari valori morali, meritevoli di salvaguardia anche da parte del diritto secolarizzato.
L’obiezione di coscienza è un diritto di natura personalissima e connesso anche all’evolversi della personalità del soggetto ed al suo spiegarsi nell’ambito sociale e lavorativo; esso, quindi, è nella piena disponibilità dell’interessato, che può farvi rinuncia come e quando ritiene, in forma anche implicita, ponendo in essere comportamenti “non coerenti”, ovvero, come nel caso in esame, intraprendendo un’attività lavorativa di “guardia giurata” e chiedendo alla Prefettura l’autorizzazione al porto d’armi.
La normativa non tratta espressamente della rinuncia all’obiezione di coscienza, proprio perché non ha ritenuto di doverla circondare di formalità, al pari del riconoscimento, essendo sufficiente il sopravvenire di “condizioni ostative” (art. 15, comma 4^, L. 230/1998).
Conclusivamente il ricorso va accolto; la novità della fattispecie, ermeneuticamente complessa, giustifica la compensazione delle spese di causa.
P.Q.M.
Il Tribunale amministrativo per l’Abruzzo, sezione staccata di Pescara,
– accoglie il ricorso in epigrafe e per l’effetto annulla gli atti impugnati;
– spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa e manda alla Segreteria per le relative comunicazioni.
Così deciso in Pescara nella camera di consiglio dell’11 gennaio 2007.
-Antonio CATONI presidente
-Dino NAZZARO consigliere estensore
Autore:
Tribunale Amministrativo
Nazione:
Italia
Parole chiave:
Obiezione di coscienza, Servizio militare, Diritto al lavoro, Porto d'armi, Guardia giurata
Natura:
Sentenza