Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 9 Aprile 2010

Sentenza 22 febbraio 2010, n.1011

Consiglio Stato, sez. VI, sentenza 22 febbraio 2010, n. 1011: "Autorizzazione all'alienazione di bene di interesse storico-artistico di proprietà di un ente ecclesiastico"

Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente

DECISIONE

Sul ricorso numero di registro generale 7945 del 2008, proposto da: (…) in persona del legale rappresentante, rappresentato e difeso dagli avv. Angelo Clarizia e Piero Petrillo, presso quest'ultimo selettivamente domiciliato in Roma, piazza Risorgimento 59;

contro

Ministero Beni e Attività Culturali in persona del ministro in carica e Direzione regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici dell'Emilia – Romagna in persona del direttore in carica, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria in Roma, via dei Portoghesi 12;

nei confronti di
Comune di Misano Adriatico;

per la riforma

della sentenza del TAR LAZIO – ROMA Sezione II Quater n. 04114/2008, resa tra le parti, concernente AUTORIZZAZIONE PER ALIENAZIONE CONVENTO.

Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio delle amministrazioni intimate;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 15 dicembre 2009 il Consigliere Roberta Vigotti e uditi per le parti l'avvocato Clarizia e l'avv.to dello Stato Paola Saulino;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

I) L'(…) chiede la riforma della sentenza con la quale il Tar del Lazio ha respinto il ricorso proposto per l'annullamento del provvedimento con il quale la direzione regionale per i beni culturali e paesaggistico dell'Emilia Romagna ha autorizzato l'alienazione del convento di San Girolamo (riconosciuto di interesse storico-artistico ai sensi dell'art. 10 comma 1 e dell'art. 12 d.lgs. N. 42 del 2004), imponendo una destinazione d'uso ed una serie di prescrizioni che l'istituto ricorrente ritiene non pertinenti.
L'appellante sottolinea che il combinato disposto degli artt. 56 e ss. D.lgs. n. 42 del 2004, nel testo vigente all'epoca, condiziona l'autorizzazione ministeriale all'alienazione di beni culturali appartenenti a persone giuridiche private senza fini di lucro alla verifica che dall'alienazione non derivi un grave danno alla conservazione o al pubblico godimento dei beni medesimi, e non riconosce al ministero il potere di subordinare l'autorizzazione a particolari condizioni o prescrizioni, come invece consente il successivo art. 55 per i beni immobili appartenenti al demanio culturale. Il Tar ha invece ritenuto che tale ultima disposizione non escluda che l'indicazione delle destinazioni d'uso possa essere contenuta anche nel provvedimento di autorizzazione all'alienazione di beni appartenenti a persone giuridiche private, traendone conferma dall'art. 57 comma 5 d.lgs. cit. e sulla base della considerazione che il convento di cui trattasi, in forza della dichiarazione del suo interesse storico-artistico, soggiace alle previsioni di cui al successivo art. 20, secondo il quale i beni culturali non possono essere adibiti ad usi non compatibili con il loro carattere storico-artistico. Al contrario, secondo l'appellante, la facoltà di imporre limitazioni al mutamento di destinazione d'uso, per i beni appartenenti alle persone giuridiche private, non può essere esercitata fin dall'atto autorizzativo dell'alienazione, appartenendo alla successiva fase della valutazione dei concreti interventi sull'immobile considerato.
Inoltre, nel caso di specie, l'originale funzione del complesso conventuale, riconosciuta nel parere della soprintendenza per i beni architettonici e per il paesaggio reso nel procedimento, consisteva essenzialmente in una struttura ricettivo-residenziale sul modello delle colonie estive, capace di garantire la convivenza della funzione religiosa e dell'attività ricettiva destinata a terzi attraverso l'organizzazione spaziale dei diversi volumi: l'antico convento, già da tempo immemorabile, era quindi utilizzato per l'attività ricettiva di terzi e non solo per l'abitazione delle suore, ed errato è quindi il convincimento del Tar secondo il quale l'originaria funzione del complesso ne preclude l'uso tanto commerciale che residenziale privato, che non introduce maggiore invasività per l'integrità del bene rispetto agli usi di tipo collettivo ai quali era originariamente destinato, anche perché il convento è stato ritenuto meritevole di tutela con decreto del 25 luglio 2005 in quanto espressione di intrinseci valori storico-artistici riscontrabili unicamente nella chiesa e nell'abbazia.
Neppure l'inibitoria di ogni destinazione d'uso per attività industriali e commerciali dei due corpi di fabbrica che delimitano la chiesa, contenuta nel provvedimento impugnato, è legittima, in quanto non tiene conto che le antiche celle delle suore sono state demolite già negli anni sessanta, e che gli attuali corpi di fabbrica non presentano particolari elementi di decoro o architettonici degni di interesse, visto che nella relazione della soprintendenza allegata alla dichiarazione non sono neppure menzionati a tal fine. Infine, l'amministrazione non avrebbe potuto imporre le ulteriori prescrizioni e limitazioni agli interventi da operare sull'immobile, che esulano dalla ratio e dalle finalità proprie degli artt. 56 e 57 d.lgs. n. 42 del 2004, estranee al regime della utilizzazione del bene considerato e sull'effettiva futura fruizione dello stesso.

II) L'appello è fondato.
L'art. 55 del d.lgs. n. 490/1999, nell'assoggettare ad autorizzazione del Ministro l'alienazione dei beni culturali che non facciano parte del demanio storico artistico appartenenti allo Stato, alle regioni, alle province ed ai comuni subordina il titolo autorizzatorio alla condizione che "dall'alienazione stessa non derivi danno alla loro conservazione e non sia menomato il pubblico godimento". Per quanto riguarda l'alienazione di beni della medesima qualità appartenenti a persone giuridiche private senza fini di lucro, l'autorizzazione è concessa (art. 55 comma 3) "qualora non ne derivi un grave danno alla conservazione o al pubblico godimento dei beni".
Il successivo d.lgs. n. 42 del 2004, nel teso vigente all'epoca dei fatti di cui è causa, reca, agli artt. 56 e 57, una disciplina del tutto simile: per i beni di proprietà di persone giuridiche private senza fine di lucro, l'autorizzazione può essere rilasciata qualora dalla alienazione non derivi un grave danno alla conservazione o al pubblico godimento dei beni, laddove per l'alienazione di beni degli enti ed istituti pubblici il limite è l'assenza di danno alla conservazione e di menomazione del pubblico godimento.
La gravità del danno alla conservazione o al pubblico godimento costituisce pertanto il parametro attraverso il quale deve essere indagata la legittimità del provvedimento che autorizza l'alienazione del bene di interesse storico-artistico di proprietà di un ente privato, in comparazione con la totale assenza di qualsivoglia danno che deve connotare l'analogo provvedimento riguardante un ente pubblico.
Come questo Consiglio di Stato ha già osservato (decisione Sez. VI 5 giugno 2007, n. 2984) tali prescrizioni si collegano alla regola primaria in materia di conservazione dei beni culturali che si rinviene all'art. 21, secondo comma, del d.lgs. n. 490/1999, ora trasfuso nell'art. 20 d.lgs. n. 42 del 2004, secondo il quale i beni culturali non possono essere distrutti, danneggiati o adibiti ad usi non compatibili con il loro carattere storico o artistico oppure tali da recare pregiudizio alla loro conservazione.
Nel caso di specie, l'istituto appellante contesta la legittimità delle prescrizioni che la direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici dell'Emilia Romagna ha posto quali condizioni dell'autorizzazione all'alienazione del convento di cui è causa, autorizzazione rilasciata con il provvedimento impugnato in primo grado, e consistenti in specifiche e dettagliate indicazioni circa le modalità di realizzazione delle aperture di ingresso ed uscita per le attività che si svolgeranno nei corpi di fabbrica contermini alla chiesa e gli accessi ai ballatoi; il divieto di alterare la distribuzione planimetrica delle celle e di accorpare più vani; l'esclusione di usi industriali, commerciali e residenziali privati e della frammentazione in un numero di unità autonome non compatibile con la morfologia storica dell'immobile; la necessità del rispetto della compatibilità delle attività con il carattere storico artistico dell'immobile, come prescritto dall'art. 20 d.lgs. n. 42 del 2004 e delle condizioni di pubblico godimento dello stesso.
Trattasi di prescrizioni eterogenee tra di loro, delle quali alcune, derivanti direttamente dalla lettera della legge, sono del tutto pleonastiche: è evidente, infatti, che la necessità del rispetto della pubblica fruizione del complesso, per come si è storicamente determinata, discende direttamente dall'art. 57 comma 5 d.lgs. n. 42 del 2004, che appunto pone quale condizione per l'autorizzazione all'alienazione l'assenza di grave danno al pubblico godimento del bene culturale: si tratta di previsione finalizzata a preservare l'accessibilità da parte della collettività al bene culturale onde consentirne visione e la percezione dei valori storici ed artistici da esso espressi, che resta distinta dalla destinazione d'uso a scopi di interesse pubblico che non è di per sé garantista delle condizioni di accessibilità.
Quanto alle concrete condizioni di accessibilità, che il provvedimento impugnato in primo grado ha inteso tutelare mediante le dettagliate prescrizioni sopra riassunte, tese anche ad assicurare il necessario rispetto delle caratteristiche che hanno determinato il riconoscimento del bene ai sensi degli artt. 10 e 12 d.lgs. n. 42 del 2004, illegittimamente l'amministrazione le ha considerate in sede di autorizzazione all'alienazione: trattasi, infatti, di prescrizioni relative alle caratteristiche costruttive di futuri interventi, che potranno e dovranno essere inserite in sede di autorizzazione alla concreta realizzazione delle opere insistenti sul bene considerato, la cui cura è affidata ad altri organismi ed all'esercizio di diverse potestà pubbliche.
All'atto della valutazione dell'autorizzabilità dell'alienazione, l'amministrazione avrebbe, invero, dovuto considerare unicamente la compatibilità della destinazione d'uso indicata dall'interessato e del programma degli interventi conservativi necessari, che l'art. 57 d.lgs. n. 42 del 2004 indica quali necessario corredo della richiesta di autorizzazione: per tornare al caso di specie, l'istituto ricorrente aveva dichiarato che la destinazione futura del bene si sarebbe collegata "ad una destinazione residenziale e/o di soggiorno per consentire la diffusione della cultura del particolare sito" e che l'utilizzazione dell'immobile avrebbe previsto "destinazioni opportunamente integrate -storico, culturale, residenziale, turistico", e unicamente in relazione alla dichiarazione così resa (alla quale il titolare dell'autorizzazione resta vincolato, ai sensi del più volte richiamato decreto legislativo), l'amministrazione avrebbe dovuto valutare l'autorizzabilità o meno della alienazione, con conseguente irrilevanza degli usi commerciale ed industriali, non ipotizzati dal richiedente.
In relazione alla destinazione residenziale, l'unica, si ripete, prospettata dall'istituto e, quindi, valutabile in sede autorizzatoria, l'illegittimità del provvedimento impugnato in primo grado si manifesta nella parte in cui ha inteso inibire l'utilizzazione privata della residenza: ciò, sia per le considerazioni già espresse da questo Consiglio di Stato nella decisione citata, e che fanno leva sulla irragionevolezza della distinzione effettuata dall'amministrazione in ordine alle qualità soggettive dell'utilizzatore, a seconda che si tratti di un soggetto pubblico o di un privato, dovendo formare oggetto di apprezzamento la tipologia d' uso in sé, in relazione ai riflessi sulle caratteristiche storiche ed artistiche del bene ed all'assenza di pregiudizio alle condizioni di conservazione; sia perché, comunque, un tale giudizio deve essere condotto alla stregua della concrete caratteristiche dell'immobile, per come si è andato modificando nel corso del tempo: e il complesso di cui si tratta, come emerge dalla stessa relazione della soprintendenza resa nel procedimento per la vendita, "consisteva essenzialmente in una struttura ricettiva residenziale sul modello delle colonie estive", essendo i due volumi che delimitano l'aula delle chiesa strutturati in "piccoli ambienti (celle) destinati al riposo degli ospiti delle colonie estive". Non quindi solo abitazione per le suore del convento, ma vera e propria struttura ricettiva di terzi: nella parte in cui l'amministrazione non ha considerato tale concreta destinazione, assunta dal complesso immobiliare nel corso del tempo, sta l'illegittimità della valutazione operata con riferimento all'unico uso prospettato dall'istituto a corredo dell'istanza di autorizzazione.
Per riassumere, il provvedimento oggetto del giudizio erra nell'escludere la destinazione residenziale privata, per le ragioni appena dette; erra nel considerare, per vietarli, gli usi commerciali ed industriali, dei quali il richiedente non aveva prospettato la concreta attuazione; erra nell'imporre precise e minute prescrizione in ordine alle caratteristiche costruttive degli interventi di modifica dell'immobile, poiché tali valutazioni sono demandate alla sede di futuri procedimenti, in relazione a concreti progetti da parte degli aventi titolo. Poiché, peraltro, il provvedimento stesso non trova nelle parti suddette la propria essenziale giustificazione, non può condividersi quanto sostenuto dal Tar, secondo il quale l'illegittimità delle condizioni e delle prescrizioni impugnate, in quanto presupposto essenziale dell'autorizzazione, comporterebbe l'annullamento dell'intero provvedimento, che, al contrario, mantiene sufficiente ragione d'essere anche depurato degli errori sopra evidenziati.

III) In conclusione, l'appello deve essere accolto, e la sentenza impugnata deve essere riformata nei sensi di cui in motivazione, ma le spese di causa possono essere compensate tra le parti per giustificati motivi, anche per questo grado del giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di stato in sede giurisdizionale, sezione VI, definitivamente pronunciando sull'appello in epigrafe indicato, lo accoglie, e, per l'effetto, in riforma della sentenza impugnata, accoglie nei sensi di cui in motivazione il ricorso di primo grado.
Spese compensate.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 15 dicembre 2009 con l'intervento dei Signori:
Claudio Varrone, Presidente
Paolo Buonvino, Consigliere
Domenico Cafini, Consigliere
Roberto Chieppa, Consigliere
Roberta Vigotti, Consigliere, Estensore

DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 22 FEB. 2010.