Sentenza 21 maggio 2003, n.22516
Corte di Cassazione. Sezione I penale. Sentenza 21 maggio 2003, n. 22516.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
RITENUTO IN FATTO
A seguito di citazione diretta Roberto Tucci, Pasquale Borgomeo e Costantino Pacifici sono stati sottoposti al giudizio del Tribunale di Roma in composizione monocratica per rispondere di concorso nella contravvenzione di cui all’articolo 674 c.p. “per aver diffuso, nella qualità di responsabili della gestione e del funzionamento della Radio Vaticana, tramite gli impianti siti in Santa Maria di Galeria, radiazioni elettromagnetiche atte ad offendere o molestare persone residenti nelle aree circostanti, in particolare a Cesano di Roma, arrecando alle stesse disagio, disturbo, fastidio e turbamento”.
Si sono costituiti parte civile: Vas Verdi Ambiente e Società, Cittadinanzattiva – Tribunale dei diritti del malato Onlus, Codacons, Legambiente Onlus, Coordinamento dei Comitati di Roma Nord, nonché Augusto Rossi e Maria Angelone, anche quali esercenti la potestà di genitori sui figli minori Federico e Flavia; Roberto Materia e Paola Scarabotto, anche quali esercenti la potestà di genitori sui figli minori Elena e Davide; Valter Cancheri e Lina Panzanella anche quali esercenti la potestà di genitori sui figli minori Marco e Silvia.
Con sentenza del 19 febbraio 2002 il tribunale ha dichiarato non doversi procedere nei confronti degli imputati per difetto di giurisdizione atteso che, dovendosi qualificare la Radio Vaticana quale ente centrale della Chiesa cattolica, la stessa, a norma dell’articolo 11 del Trattato fra la Santa Sede e l’Italia, stipulato l’11 febbraio 1929, era da considerarsi esente da ogni ingerenza da parte dello Stato italiano (salvo le disposizioni delle leggi italiane concernenti gli acquisti dei corpi morali), nonché dalla conversione nei riguardi dei beni immobili.
Ad avviso del Tribunale, la norma in questione avrebbe sancito una “cessione di sovranità” dello Stato italiano che ha pertanto assunto l’obbligazione patrizia di “non ingerenza”, nei termini su indicati, con conseguente assenza di tutela giurisdizionale per i cittadini anche di fronte ad una lesione di una norma penale dell’ordinamento giuridico interno, a causa di eventi dannosi o pericolosi verificatisi nel territorio dello Stato, ricollegabili a condotte poste in essere nell’ambito spaziale della Santa Sede.
Ha sottolineato, in particolare, il giudice di merito che non si possa parlare di violazione dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale nel caso di difetto di giurisdizione ricollegato a privilegi ed immunità derivanti da una consensuale e consapevole cessione di sovranità, prevista, codificata ed attuata nel rispetto dei principi generali di diritto internazionale e per di più dotata di garanzia costituzionale. A maggior ragione, poi, nel caso che ci occupa, non è sostenibile tale violazione se solo si rifletta sul fatto che la Costituzione italiana è entrata in vigore il 1° gennaio 1948, ossia 19 anni dopo la stipula dei Patti lateranensi che, quindi, non possono non essere stati recepiti in modo giuridicamente consapevole del legislatore costituzionale. Tutto ciò non significa ovviamente che le situazioni di fatto e di diritto siano immutabili, ma che i mutamenti necessari dettati dall’evoluzione sociale ovvero sopravvenuti dalle conoscenze scientifiche vanno realizzati in modo rituale, seguendo cioè i m meccanismi di revisione previsti dall’ordinamento internazionale e/o dall’ordinamento interno.
Avverso la su indicata sentenza hanno proposto ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma e le parti civili Verdi Ambiente e Società, Rossi, Angelone, Materia, Scarabotto, Zangheri e Pantanella.
Il Pm censura l’interpretazione che dell’articolo 11 ha dato il tribunale.
Secondo il ricorrente, il divieto d’ingerenza non può essere interpretato come rinunzia dello stato italiano ad esplicare la propria potestà punitiva nei confronti di chi nel suo territorio viola la legge penale, pur se rappresenti (o comunque il suo comportamento sia espressione di) un ente centrale della Chiesa cattolica. Il divieto d’ingerenza dello Stato italiano negli affari degli enti su indicati si riferisce infatti all’attività patrimoniale svolta sul territorio italiano, in particolare per gli effetti civili rilevanti per l’ordinamento statuale. Sotto altro profilo, poi, deve essere pacificamente riconosciuto, nel più ampio rispetto dell’autonomia e dell’indipendenza, il divieto di intromissione nello svolgimento dell’attività istituzionale di detti enti centrali – posto che tra gli stessi possa annoverarsi Radio Vaticana per la sua struttura, la personalità giuridica e l’autonomia patrimoniale di cui è dotata – avuto riguardo all’innegabile svolgimento di un’attività direttamente funzionale alla missione spirituale della Santa Sede nel mondo e quale indispensabile, principale veicolo di trasmissione e amplificazione del linguaggio evangelico nonché di diffusione della parola del Sommo Pontefice.
In tale contesto, ritiene il Pm non pare possa ammettersi che l’attività istituzionale della Radio Vaticana ricomprenda la (eventuale) diffusione di radiazione elettromagnetiche in misura anomala e molesta (o addirittura pericolosa o dannosa) per i cittadini italiani, in violazione della legge penale italiana. L’ambito senza limiti del divieto di ingerenza accolto dalla sentenza impugnata non implicherebbe solo immunità penale dei responsabili a qualsiasi titolo di un ente centrale della Chiesa cattolica ma comporterebbe vera e propria deroga totale alla giurisdizione dello stato italiano.
Optando per tale interpretazione, nel senso cioè di un’esenzione illimitata dalla giurisdizione italiana prevista dall’articolo 11 citato, il Tribunale, che pur ha intravisto l'”assenza di tutela per i cittadini di fronte ad una presunta lesione di una norma penale dell’ordinamento giuridico interno”, ben avrebbe dovuto porsi il dubbio di costituzionalità della norma patrizia introdotta con la citata legge 810/29 nell’ordinamento giuridico italiano. L’articolo 7 comma 2 della Costituzione, riconoscendo allo Stato e alla Chiesa cattolica una reciproca posizione d’indipendenza e di sovranità, non può avere la forza di negare i principi supremi dell’ordinamento costituzionale dello Stato (Corte costituzione sentenza 30/1971).
Dunque, non sottraendosi l’articolo 11 del Trattato lateranense, immesso nell’ordinamento, al sindacato di costituzionalità, seppur limitato e circoscritto al solo accertamento di conformità o meno ai principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale (Corte costituzionale, sentenze 18/1982 e 26/1985), il ricorrente, che in via principale chiede l’annullamento della sentenza impugnata, in subordine chiede che la Suprema Corte dichiari non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 11 del Trattato lateranense in riferimento – tenuto conto anche del reato contestato – agli articoli 1 comma 2, 23, comma 1, 7 comma 1, 24, 25, 32 comma 1, 102 e 112 della Costituzione.
La parte civile Vas deduce la violazione dell’articolo 6 c.p. che ha accolto il principio di territorialità della legge penale: nel caso in esame il reato di cui all’articolo 674 c.p., nella specie permanente, è stato (rectius: si considera) commesso nel territorio dello Stato, essendosi ivi verificato l’evento. In conseguenza, ha errato il tribunale nel ritenere il difetto di giurisdizione sulla base dell’articolo 11 del Trattato fra Italia e Santa Sede, poiché la non ingerenza prevista dalla norma attiene alle guarentigie di carattere reale contenute nei successivi articoli 13, 14, 15 e 16 e non concede pertanto immunità personali. L’articolo 7 della Costituzione, poi, sancisce che lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani, sicché il primo è vincolato a non ostacolare la libera esplicazione dei poteri della seconda, ma tale obbligo sussiste solo in quanto l’attività ecclesiastica non esuli dal campo spirituale e religioso e non invada la sfera di sovranità dello Stato italiano, toccando interessi riconducibili all’ordine proprio di quest’ultimo.
Censura, infine, la ritenuta qualifica della Radio Vaticana quale ente centrale della Chiesa cattolica. Chiede annullarsi l’impugnata sentenza.
Le parti civili Rossi, Materia e Zangheri, premesso che le onde elettromagnetiche emesse dall’impianto di Radio Vaticana sulle loro abitazioni hanno provocato molestie continue e persistenti, compromettendone la tranquillità anche per la non ingiustificata preoccupazione per la salute propria e dei figli minori, si dolgono della negativa incidenza della sentenza sul loro diritto di agire in giudizio per il risarcimento dei danni per la lesione del diritto fondamentale al rispetto della vita privata e familiare, costituzionalmente presidiato. Sottolineano che erroneamente non è stato ritenuto che la “specialità” del diritto di origine concordataria non produce deroghe a norme costituzionali, cui rimane sott’ordinato (vedi articoli 2, 3, 7 comma 1 e 24 della Costituzione).
A fronte della specifica previsione (articolo 7 della Costituzione) della sovranità e indipendenza reciproca dello Stato e della Chiesa nei rispettivi ordini, la corretta interpretazione dell’articolo 11 del Trattato lateranense non può estendere il principio della non ingerenza al punto tale da sottrarre ogni attività degli enti centrali ecclesiastici a qualunque controllo e sindacato giurisdizionale dello Stato italiano, fornendo immunità assoluta a tutti i soggetti che con quell’ente entrino in rapporto stabile od occasionale, sì da rinunciare alla potestà di reprimere reati ravvisabili nella condotta posta in essere da tali soggetti.
Per altro verso, si prosegue, non è accettabile l’assunto del tribunale circa la rilevanza per l’ordinamento italiano di disposizioni precettive unilateralmente emanate da organi costituzionali dello Stato della Città del Vaticano, Stato estero, miranti a svolgere una funzione di interpretazione autentica additiva della norma dell’articolo 11 del Trattato e tese a limitare l’esercizio di una funzione tipica della sovranità dello Stato italiano: quella giurisdizionale.
L’espressione “Enti centrali” non ha rispondenza nell’ordinamento canonico e in quello italiano anteriore al 1929 e l’articolo 11 citato non indica specificamente quali siano gli organi centrali garantiti dal divieto d’ingerenza e nemmeno rimette ad una diversa fonte normativa di derivazione patrizia l’onere di specificarli. Né sembra legittimo un mero rinvio “per relationem” alle norme dello Stato della Città del Vaticano, piuttosto che all’emanazione di norme attuative, con l’indicazione analitica degli enti che fruiscono del divieto di ingerenza, ovvero, all’applicazione di parametri certi, oggettivamente valutabili. Un rinvio “per relationem” si traduce pertanto in una norma in bianco la cui applicazione risulterebbe suscettibile di variazioni a seconda delle determinazioni unilaterali dello stato estero, con conseguente violazione della sovranità e indipendenza dello Stato italiano.
Chiedono, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata e, in subordine, eccepiscono l’incostituzionalità dell’articolo 11 della legge 810/29 in riferimento agli articoli 2, 3, 13 e 24 della Costituzione.
Con memoria del 31 marzo 2003 la difesa degli imputati, nel sottolineare la corretta interpretazione dell’articolo 11 del Trattato lateranense data dal Tribunale di Roma, ne condivide l’impostazione argomentativi, evidenziando tra l’altro l’immunità funzionale configurata dalla norma in questione quale espressione del principio consuetudinario di diritto internazionale generalmente riconosciuto e inserito dal legislatore nell’articolo 10 della Costituzione.
Una memoria è stata altresì depositata dalle parti civili (non ricorrenti) Codacons e Coordinamento dei Comitati di Roma Nord, con la quale si sostiene che chiaramente la non ingerenza di cui all’articolo 11 riguarda la sola autorità amministrativa e non l’autorità giudiziaria, in particolare modo in campo penale, regolato da norme inderogabili. L’interpretazione data dal tribunale di norma in discorso comporta di conseguenza un conferimento d’immunità di carattere personale a tutti coloro che agiscono in nome della Chiesa cattolica, contrario ad ogni norma di diritto e in violazione dei trattati internazionali sui diritti dell’uomo e dell’articolo 2 della Costituzione che pone a base dell’ordinamento la sovranità del popolo italiano e quindi dello Stato. Immunità penale personale nella specie non sorretta da valide argomentazioni giuridiche né specificamente individuata pattiziamente.
Con memoria dell’8 marzo 2003 le parti civili Rossi, Angelone, Materia, Scarabotto, Zangheri e Panzanella esplicitano quanto dedotto col ricorso in maniera più articolata. In particolare, con riferimento a norme costituzionali e alla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, evidenziano l’imprescindibile possibilità di “un’attività giudiziaria minima finalizzata alla realizzazione concreta di posizioni sostanziali giuridicamente garantite e, in primo luogo, di quelle inviolabili”, così prospettando una interpretazione dell’articolo 11 costituzionalmente orientata, sicché lo “ius singolare” che caratterizza la natura delle norme della legge di esecuzione dei Patti lateranensi non ha capacità di derogare alle norme costituzionali, cui è sott’ordinato. Conseguentemente, la non ingerenza non può che limitarsi alle attività istituzionali degli enti centrali della Chiesa ma non può comportare la rinuncia alla tutela giurisdizionale per fatti penalmente rilevanti sì da impedire il perseguimento di condotte contrastanti con l’ordinamento e pregiudizievoli dei diritti fondamentali dei cittadini.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Va premesso che la contestazione in oggetto attiene all’esistenza o meno di fatti (da accertare) eventualmente produttivi di eventi di pericolo o di danno nel territorio dello Stato italiano (articolo 6 c.p.) ad una generalità di persone e, in caso positivo, all’accertamento di responsabilità a carico di tutti o di alcuni degli imputati cui il reato (articolo 674 c.p.) è stato ascritto con riferimento a specifiche posizioni di garanzia. La precisazione è importante onde escludere “ictu oculi” che la contestazione attinga materie riservate all’autonomia decisionale della Chiesa cattolica in quanto inerenti alla sua missione d’insegnamento e di evangelizzazione.
L’esame va, dunque, svolto in direzione della violazione o meno dell’obbligo di non ingerenza che lo Stato si è assunto nei confronti degli enti centrali della Chiesa cattolica ai sensi dell’articolo 11 del Trattato lateranense, per stabilire, nel caso concreto, se l’autorità giudiziaria italiana abbia il potere/dovere di intervenire a tutela di diritti e interessi lesi da condotte poste in essere nel territorio della Santa Sede ma i cui effetti si siano prodotti nel territorio italiano con eventi costituenti illecito penale.
2. Il Trattato stipulato l’11 febbraio 1929 fra la Santa Sede e l’Italia è stato reso esecutivo, unitamente ai quattro allegati annessi e al Concordato di pari data, con la legge 810/29. Le successive modifiche al Concordato sono intervenute con l’Accordo del 18 febbraio 1984 (reso esecutivo con la legge 121/85) che all’articolo 13 n. 1 stabilisce che – salvo le specifiche eccezioni di cui all’articolo 7 n. 6 – le disposizioni del Concordato non riprodotte nel testo sono abrogate.
L’articolo 11 del Trattato prevede che “gli enti centrali della Chiesa Cattolica sono esenti da ogni ingerenza da parte dello Stato (salvo le disposizioni delle leggi italiane concernenti gli acquisti dei corpi morali), nonché dalla conversione nei riguardi dei beni immobili”.
S’impone di stabilire pertanto se lo Stato italiano, che pur all’interno si è riservato il monopolio in materia penale (articolo 25 comma 2 e 3 Costituzione), circoscrivendole le fonti alla legge o agli atti aventi forza di legge, abbia pattiziamente abdicato alla propria sovranità nei confronti della Chiesa, con la conseguente esclusione della tutela giurisdizionale di situazioni sostanziali dei cittadini (diritti e interessi protetti, anche a livello costituzionale, quali la salute, la famiglia, l’ambiente (articoli 2, 3 9, 24, 29, 30, 31, 32 Costituzione) attinte da comportamenti illeciti i cui effetti si siano verificati sul suolo italiano.
3. La norma in esame ha il suo referente storico nell’articolo 8 della “legge delle guarentigie” (legge 214/1871 poi abrogata dall’articolo 26 del Trattato lateranense) che sanciva il divieto di procedere a visite, perquisizioni o sequestri di carte, documenti, libri o registri negli “uffizi” o “Congregazioni pontificie” rivestititi di attribuzioni meramente spirituali. Il divieto, secondo la lettera della legge, riguardava ingerenze di carattere civile o amministrativo dello Stato italiano ed era finalizzato alla tutela dell’indipendenza e dell’autonomia della Chiesa da intromissioni statuali.
Con l’espressione “Enti centrali della Chiesa cattolica”, che figura nell’articolo 11 citato, la Santa Sede ha chiaramente inteso, d’accordo con lo Stato, di non limitare il “privilegio” della non ingerenza ai soli enti spirituali, estendendola anche agli enti centrali temporali e a quelli misti: ma, anche alla luce del citato referente storico, nulla autorizza a ritenere – contro la lettera e lo spirito della norma – che pattiziamente lo Stato italiano abbia rinunziato alla giurisdizione, in particolare a quella penale, in relazione ad eventi illeciti verificatisi sul suolo nazionale e causati da condotte poste in essere in spazi extraterritoriali della Santa Sede.
Come la più attenta dottrina ha posto in evidenza, la denominazione “Enti centrali della Chiesa cattolica” non ha rispondenza nel diritto canonico: trattasi di una figura civilistica introdotta dal citato articolo 11 che ha il fine di ampliare, appunto, l’incidenza delle garanzie della legge 214/1871. Gli stessi vanno individuati nelle congregazioni, nei tribunali e negli uffici che costituiscono la Santa Sede in senso lato e hanno personalità giuridica. Per converso, non ogni ente che abbia personalità giuridica e autonoma patrimoniale è classificabile come ente centrale (arg. Anche dalla legge 222/85). Gli enti centrali sono organismi che costituiscono la Curia romana e provvedono al governo supremo, universale della Chiesa cattolica nello svolgimento della sua missione spirituale nel mondo.
Un ente, sia pur dotato di personalità giuridica e di autonomia patrimoniale qual è la Radio Vaticana, creato nell’anno 1932 con funzione meramente strumentale di comunicazione al servizio del ministero della Chiesa, il cui messaggio evangelico soprattutto attraverso la parola del Sommo Pontefice diffonde nel mondo, non pare possa essere qualificato “Ente centrale” nel senso accennato, proprio sulla base di quanto esplicitamente proclama la Costituzione Apostolica Pastor Bonus sulla Curia romana emanata dal Papa Giovannei Paolo II (28 giugno 1988).
Nella citata Costituzione la Radio Vaticana è indicata come un istituto, collegato con la Santa Sede, che non fa parte della Curia romana ma è solo connesso “in qualche modo” alla stessa e “presta” un servizio necessario ed utile al Sommo Pontefice, alla Curia e alla Chiesa universale (articolo 186), allo stesso modo del servizio prestato dal Centro televisivo vaticano, dalla Biblioteca apostolica, dalle diverse Accademie pontificie, dalla Tipografia poliglotta, dalla Librerie editrice vaticana e da varie pubblicazioni tra cui l'”Osservatore romano”. Entità tutte dipendenti dalla Segreteria di Stato (che l’articolo 39 della normativa indica come coadiutrice del Pontefice nell’esercizio della sua missione) o da altri uffici della Curia romana secondo la rispettive leggi (articolo 191).
Deve, dunque, prendersi atto che è la legislazione della Chiesa che non comprende la Radio Vaticana fra gli enti centrali; sicché tale conclusine già esclude in radice l’applicabilità della disciplina dell’articolo 11.
4. Un’esegesi più penetrante dell’articolo 11 consente di pervenire, comunque, a conclusioni diverse da quelle alle quali è pervenuta la sentenza impugnata col ritenere che lo Stato italiano si sia spogliato della giurisdizione nei confronti degli enti centrali della Chiesa cattolica.
Si è già fatto cenno ai precedenti tentativi di risolvere la “questione romana”. Con i Patti lateranensi del 1929 (e col successivo Accordo del 1984) le parti hanno stabilito la non intromissione dell’Italia nella sovranità e nella giurisdizione esclusiva della Santa Sede sulla Città del Vaticano e in generale sui territori – quali sono le aree di S. Maria di Galeria e di Castel Romano in cui sono installati gli impianti della Radio Vaticana – appartenenti a tale Stato estero. Ma che lo Stato italiano non abbai inteso in alcun modo abdicare alla propria sovranità giurisdizionale, ma solo al controllo dell’attività patrimoniale degli enti centrali della Chiesa, come l’eccezione relativa agli acquisti e il richiamo delle norme sulla conversione dei beni immobili contenuti nell’articolo in esame come eloquentemente confermato (vedi anche l’articolo 7 n. 5 dell’Accordo), è stato chiaramente espresso all’epoca dei Patti lateranensi dall’allora Guardasigilli (vedi Atti della commissione mista 211) che ha in maniera in equivoca puntualizzato come l’esenzione da ogni ingerenza dello Stato si riferiva all’amministrazione dei beni della Chiesa, senza che potesse invocarsi l’obbligo negativo assunto come una rinuncia statuale comportante la dispensa dall’osservanza delle norme penali e di diritto pubblico in genere, la cui indisponibilità resta sempre assoluta in conseguenza della loro obbligatorietà e inderogabilità sul territorio dello Stato. Ciò ha poi avuto la consacrazione costituzionale nel principio d’indipendenza e sovranità dello Stato italiano nel proprio ordine (articolo 7 comma 1 Costituzione) a condizione di reciprocità con la Chiesa cattolica. Corollario di tale principio è che ove sussista una potestà d’imperio dello Stato è esclusa ogni sovranità e indipendenza della Chiesa, alla quale d’altra parte resta riconosciuta l’assoluta autonomia nell’esercizio del suo altro ministero, ovunque si esplichi.
Ne consegue che la specialità del diritto di origine concordataria, che però non ha la forza di negare i principi supremi dell’ordinamento statuale, lo fa essere necessariamente sott’ordinato alle norme costituzionali, come ripetutamente ha affermato il giudice delle leggi, che ha ammesso la possibilità del sindacato di costituzionalità delle norme di derivazione patrizia rese esecutive in Italia e di conseguenza inserite nell’ordinamento interno, pur limitandone il giudizio di conformità in relazione ai soli lavori essenziali dell’ordinamento costituzionale (sentenze 30, 31 e 32/1971, 16, 17 e 18/1982).
Ineludibile conclusione, considerando il caso in esame, è che non subisce limitazione alcuna l’intervento nella repressione dei fatti illeciti conseguenti a condotte poste in essere da soggetti che non godano di immunità e che siano produttive di eventi verificatisi in territorio italiano rilevanti per il diritto penale.
Qualunque atto di rilevanza esterna comunque riconducibile agli enti centrali citati che interferisca con la vita di relazione e con gli interessi protetti dei cittadini deve, pertanto, assumere il connotato del giuridicamente illecito per l’ordinamento italiano: su ciò concorda la dottrina pressoché unanime.
5. La contraria interpretazione dell’articolo 11 equivale a riconoscere l’esistenza di “immunità” personali generalizzate in capo ai rappresentanti e funzionari degli enti centrali della Chiesa cattolica che i Patti lateranensi e le consuetudini internazionali non contemplano.
È errata, insomma, l’equazione “non ingerenza = immunità”.
La non ingerenza (articoli 11 del Trattato, 2, 19 del Concordato modificato dall’articolo 3 numero 2 dell’Accordo, 27, 30, 39 del Concordato, 7, numero 4 dell’Accordo in riferimento allo stesso articolo 2 del Concordato) si traduce nell’obbligo di non intervento dello Stato, assunto per garantire l’esercizio sovrano, autonomo di attività inerenti all’alto magistero della Chiesa; ma non comporta affatto una rinunzia generalizzata alla sovranità e, quindi, alla giurisdizione.
L’immunità, invece, è una prerogativa di carattere personale (o reale) dettata da ragione di necessità o da opportunità di carattere politico, limitativa dell’efficacia obbligatoria della legge penale sancita dall’articolo 3 c.p.
La dottrina, in verità, è divisa nel ritenere l’immunità come una vera e propria causa di esclusione della pena (e delle misure di sicurezza) per rendere esenti da ogni conseguenza soggetti titolari di funzioni rilevanti in campo costituzionale o internazionale, ovvero nel ritenerle solo come causa di esclusione della giurisdizione, conservando di fatto il carattere dell’illiceità – con ovvie conseguenze ai fini della risarcibilità dei danni prodotti.
Sul punto, peraltro, non appare necessario prendere posizione in questa sede: quel che rileva è che, sia che si attribuisca all’immunità carattere sostanziale sia che si attribuisca alla stessa carattere meramente processuale, il risultato che ne consegue è che lo Stato italiano che la riconosca rinuncia all’esercizio della giurisdizione, contrariamente a quanto avviene nell’ipotesi di assunzione dell’obbligo di non ingerenza.
Nei Patti lateranensi sussistono cause di riconoscimento di immunità personale (articoli 8, 10 comma 3, 12 comma 1 e 2, 19 del Trattato) e casi di immunità reali (articoli 15, 16, 17 del Trattato, articoli 9 del Concordato, e, poi, articoli 5 dell’Accordo del 18 febbraio 1984).
Non è da omettere, inoltre, il richiamo all’articolo 10 comma 1 della Costituzione, entrato in vigore successivamente (“L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute”); nonché alla Convenzione di Vienna del 1961 di cui la Santa Sede e l’Italia sono parti.
Le prerogative dell’immunità sono previste dal specifiche norme che in maniera tassativa limitano la sovranità dello Stato e non sono in alcun modo estensibili a casi non contemplati, vigendo in materia di accordi internazionali il criterio dell’interpretazione restrittiva di impegni che comportino per uno dei contraenti l’accettazione di limiti della propria sovranità (Corte costituzionale sentenza 169/71; vedi anche articolo 31 della Convenzione di Vienna per l’interpretazione di un trattato internazionale anche nel contesto generale dell’accordo e tenendo conto dell’oggetto e dello scopo).
6. La sentenza impugnata ha considerato la non ingerenza come obbligo includente oltre ogni limite privilegi e immunità conducenti alla cessione della sovranità, quindi anche della giurisdizione, da parte dello Stato italiano, riportandosi al precedente giurisprudenziale più significativo (Cassazione, sezione quinta penale, 17 luglio 1987, ricorrente Marcinkus e altri) col quale è stata annullata l’ordinanza del Tribunale di Milano confermativa del mandato di cattura per fatti di bancarotta. È stato affermato in quell’occasione che gli imputati non potessero essere giudicati in Italia avendo operato non come privati individui ma nella veste di dirigenti ed amministratori dello Ior, qualificato ente centrale della Chiesa cattolica e come tale immune dalla giurisdizione italiana per il principio di non ingerenza secondo l’accordo contenuto nell’articolo 11 citato col quale il contraente assuntore dell’obbligo si sarebbe autodelimitato pattiziamente in favore della controparte di “tutte le pubbliche potestà” tra cui della giurisdizione.
Questo collegio, sulla base delle plurime argomentazioni esposte in precedenza, ritiene di doversi meditatamente discostare da quest’ultima conclusine cui la Suprema Corte è all’epoca pervenuta senza un significativo approfondimento della tematica, interpretando la non ingerenza come una sorta di riconoscimento pattizio di immunità di coloro che funzionalmente operassero per conto degli enti centrali della Chiesa.
Altrettanto non condivisibile si palesa la soluzione allora adottata dal giudice di legittimità che, pur avendo evidenziato gli effetti derivanti dall’indicata valutazione della portata dell’articolo 11, ovverosia la possibile lesione di norme penali dell’ordinamento giuridico statuale, inopinatamente non ha sollevato di ufficio la questione di legittimità costituzionale di detta norma, quanto meno in riferimento all’articolo 7 della Costituzione.
7. Conclusivamente il Collegio ritiene che lo Stato italiano, assumendosi pattiziamente l’obbligo di non ingerenza nei termini e nei limiti suesposti e riconoscendo l’assoluta sovranità e l’indipendenza della Chiesa cattolica in ordine all’attività spirituale e di evangelizzazione (articoli 7 comma 2 Costituzione, 2, 3, 4, 11, 26 del Trattato e poi 1 e 2 dell’Accordo), ha peraltro conservato la propria sovranità nell’ordine temporale, in particolare non subendo limiti all’esercizio della giurisdizione penale per fatti illeciti i cui eventi si verifichino in territorio italiano e siano legati da rapporto di causalità con condotte poste in essere in territorio appartenente alla Santa Sede.
Con la conseguente possibilità di tutela giurisdizionale (civile e penale) di diritti e interessi dei cittadini giuridicamente garantiti da norme ordinarie o costituzionali, lesi da soggetti il cui operato sia funzionalmente riferibile agli enti indicati dall’articolo 11 del Trattato lateranense.
La sentenza impugnata va pertanto annullata con rinvio, affinché il Tribunale di Roma provveda a quanto di competenza nel rispetto dei principi di diritto sopra enunciati.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata e rinvia al Tribunale di Roma per il giudizio.
Autore:
Corte di Cassazione - Penale
Dossier:
Enti Centrali della Chiesa
Nazione:
Stato Città del Vaticano
Parole chiave:
Chiesa cattolica, Enti centrali, Principi supremi, Difetto di giurisdizione, Giurisdizione italiana, Radio Vaticana, Inquinamento elettromagnetico, Ordinamento costituzionale, Santa Sede; Sommo Pontefice, Immunità penale
Natura:
Sentenza