Sentenza 21 febbraio 2003, n.17050
Corte di Cassazione. III Sezione Penale.
Sentenza 1° aprile 2003, n. 17050:
“Elemento psicologico del reato di vilipendio di cadavere”.
La Corte Suprema di Cassazione:
III Sezione Penale
composta dagli Ill.mi Signori:
Presidente: Giuseppe Savignano
Consigliere: Nicola Quitadamo
” Vittorio Vangelista
” Alfredo Maria Lombardi
” Mario Gentile
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
Sul ricorso proposto dall’Avv. Giuseppe Romualdi, difensore di fiducia di
Visti gli atti, la sentenza denunziata ed il ricorso;
Udita in pubblica udienza la relazione del Consigliere Dott. Alfredo Maria Lombardi;
Udito il P.M., in persona del Sost. Procuratore Generale Dott. Mario Fraticelli, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
Udito per le parti civili, l’Avv. Emilio Ricci, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
Udito il difensore; Avv. Giuseppe Romualdi, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;
Fatto
Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Milano ha confermato la pronuncia di colpevolezza del
Nella ricostruzione della vicenda la sentenza rileva che le spoglie del
Sulla base degli indicati elementi di fatto la impugnata sentenza ha affermato che il comportamento del
Avverso la sentenza ha proposto ricorso il difensore dell’imputato, che la denuncia con due motivi di gravame.
Diritto
Con il primo motivo di impugnazione il ricorrente denuncia la manifesta illogicità della motivazione della sentenza, nonché la carenza di correlazione tra sentenza e capo di imputazione con violazione dell’art. 521 c.p.p.. Si osserva sul punto che la pronuncia di condanna è fondata su un sostanziale travisamento di fatto, nella parte in cui l’azione posta in essere dal
Si aggiunge in proposito che i giudici di merito hanno volutamente adoperato un linguaggio forte, al fine di suscitare repulsione, affermando che il
Si deduce sul punto che i giudici di merito hanno erroneamente qualificato come oggettivamente ripugnante per la sensibilità di ogni persona civile un comportamento che non è tale, alla stregua di altri analoghi, posti in essere ad esempio per ragioni di studio o di indagini giudiziarie, se contestualizzato nell’ambito del tipo di attività espletata dal
Il ricorso non è fondato.
Il primo motivo di gravame costituisce una censura in punto di fatto, non deducibile in sede di legittimità, dell’accertamento dei giudici di merito in ordine al comportamento tenuto dal
Tale censura, peraltro, è inconferente nella parte in cui ci si duole del linguaggio “forte” adoperato nell’impugnata sentenza per descrivere il comportamento dell’imputato, in quanto il linguaggio adoperato dal giudice di merito nella descrizione del fatto non costituisce un vizio di motivazione del provvedimento emesso, ed è manifestamente infondata in relazione alla denunciata violazione del disposto di cui all’art. 521 c.p.p., oltre che inammissibile per carenza di interesse del ricorrente sul punto.
Ed, invero, l’art. 522 c.p.p. prevede quale causa di nullità della sentenza di condanna il fatto che questa sia pronunciata per un fatto nuovo, per un reato concorrente o per una circostanza aggravante diversi da quelli contestati, essendo, peraltro, limitata la sanzione di nullità solo alla parte della pronuncia di condanna afferente ai predetti elementi che esulavano dalla contestazione originaria, ma non prevede la nullità della sentenza anche nella ipotesi in cui il giudice di merito, pur ritenendo il fatto di maggiore gravità rispetto all’ipotesi di reato enunciato in contestazione, nell’ambito della stessa fattispecie criminosa, abbia pronunciato la condanna limitatamente a questa ultima.
Peraltro, vi è, altresì, carenza di interesse dell’imputato a dolersi per la condanna inflittagli per un fatto più mite rispetto a quello configurato in sentenza dai giudici di merito, allorché, come nel caso in esame la maggiore gravità ravvisata non abbia neppure influito sulla determinazione della pena, inflitta nel minimo di quella edittale.
Il secondo motivo di gravame è infondato.
Osserva la Corte che anche nell’espletamento di attività che rendono necessaria la manipolazione dei cadaveri, quali quelle afferenti all’uso di cadaveri per esigenze di studio o all’espletamento di indagini necroscopiche per l’accertamento dei reati – ricordate dal ricorrente – deve essere evitato l’impiego di modalità, che, essendo estranee alle tecniche richieste dalla natura delle indagini scientifiche o peritali espletate ovvero che siano vietate da prescrizioni regolamentari (art. 82 D.P.R. 285-90 con riferimento alla esumazione parziale del cadavere) – come nel caso in esame -, costituiscano obiettivamente atti idonei ad offendere il sentimento di pietà verso i defunti.
Anche con riferimento alle attività legittime sopra precisate, pertanto, il fatto di porre in essere sui cadaveri comportamenti idonei ad offendere il sentimento di pietà verso i defunti, non resi necessari da prescrizioni tecniche dettate dal tipo di intervento o addirittura vietati, con la consapevolezza del loro carattere ultroneo o incompatibile con le prescrizioni proprie del tipo di attività svolto, integra il reato di cui all’art. 410 c.p..
Infatti, secondo il consolidato indirizzo interpretativo della giurisprudenza di legittimità (cfr. cass. 26.1.1942, D’Attilo in Giust. Pen. 1942, II, 705 m. 1267 ed altre contemporanee, nonché con riferimento al reato di cui all’art. 411 c.p. più di recente sez. III, 198305139, Russo, riv. 159325), che, seppur risalente nel tempo, non è stato mai contrastato da pronunce di segno opposto – come peraltro neppure contestato dal ricorrente – il dolo del reato di cui all’art. 410 c.p. è generico, di talché l’elemento psicologico del reato, nel caso in esame, è integrato dalla consapevolezza del fatto che l’azione posta in essere non è conforme alle prescrizioni o esigenze tecniche afferenti al tipo attività espletata ed è idonea ad offendere il sentimento di pietà verso i defunti.
Orbene, nel caso in esame, i giudici di merito hanno accertato con motivazione del tutto immune da vizi logici la sussistenza degli elementi materiale e psicologico del reato di cui alla pronuncia di condanna, avendo rilevato che il
Sulla consapevolezza del
Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato.
Ai sensi dell’art. 616 c.p.p. al rigetto dell’impugnazione segue a carico del ricorrente l’onere del pagamento delle spese del procedimento nonché della rifusione di quelle sostenute dalle parti civili, che si liquidano come in dispositivo.
In ordine alle conclusioni scritte delle predette parti civili va rilevato che le stesse contengono una inammissibile richiesta di liquidazione di una provvisionale, peraltro già ottenuta con la sentenza di primo grado.
P.Q.M
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente
Così deciso in Roma nella pubblica udienza del 21.2.2003.
Depositata in Cancelleria in data 1 aprile 2003.
Autore:
Corte di Cassazione - Penale
Dossier:
Tutela penale
Nazione:
Italia
Parole chiave:
Inumazione, Sentimento religioso, Offesa, Vilipendio, Cadavere, Esumazione, Spoglie, Mutilazioni, Mineralizzazione, Dolo generico
Natura:
Sentenza