Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 17 Luglio 2008

Sentenza 21 dicembre 2007

Corte di Cassazione. Sezione I Civile. Sentenza 21 dicembre 2007 n. 27082: “Assegno divorzile e sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario”.

Pres. Losavio G., Est. De Chiara C.

Svolgimento del processo

Con ricorso al Tribunale di Roma del 19 settembre 1997 il sig. S.G. chiese, ai sensi della L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 9, dichiararsi cessato il suo obbligo di corrispondere alla ex moglie, sig.ra M.C., l’assegno di L. 500.000 mensili posto a suo carico dalla sentenza di divorzio pronunciata nel 1991.

Resistette la sig.ra M. e il Tribunale accolse la domanda sul rilievo che nel 1996 era stata delibata la sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario delle parti.

Il decreto del Tribunale, reclamato dalla soccombente, fu confermato dalla Corte di appello di Roma.

La sig.ra M. propose quindi ricorso per cassazione, accolto da questa Corte con sentenza del 23 marzo 2001, n. 4202, che cassò il provvedimento impugnato con rinvio ad altra sezione della medesima Corte di appello, affermando il principio di diritto secondo cui, anche a seguito della delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario, restano comunque ferme le statuizioni patrimoniali – quale quella relativa all’assegno in favore di uno degli ex coniugi – della precedente sentenza di divorzio passate in giudicato.

All’esito del giudizio di rinvio, la Corte di appello, con “sentenza” del 10 novembre 2003, ha quindi, in riforma del decreto del Tribunale, respinto la domanda del sig. S. e compensato tra le parti le spese dell’intero processo, affermando:

l’infondatezza dell’eccezione, sollevata dallo S., di incostituzionalità delle norme che regolano i rapporti patrimoniali residui tra gli ex coniugi, come interpretate dalla sentenza di cassazione con rinvio;

– l’insussistenza della prova di un miglioramento delle condizioni economiche della sig.ra M. tale da affrancarla, anche parzialmente, dalla necessità dell’assegno, essendo rimaste indimostrate le circostanze dedotte a suo fondamento dall’attore – ossia il possesso di un’autovettura e di titoli per oltre L. 100.000.000 e la titolarità di un reddito da lavoro subordinato ormai fisso – in quanto: l’autovettura era intestata alla figlia, titolare di un proprio reddito; non vi era prova di depositi in denaro o titoli; il reddito di insegnate supplente o incaricata, del quale la sig.ra M. aveva goduto per vari anni, era esiguo (circa 4 o L. 5 milioni annui) e comunque non fisso.

Avverso tale sentenza ricorre il sig. S. per tre motivi, cui resiste la sig.ra M. con controricorso contenente anche ricorso incidentale per un motivo. I due ricorsi sono stati riuniti (art. 335 c.p.c.) con ordinanza resa in udienza.

Motivi della decisione

1. – Con il primo motivo del ricorso principale il ricorrente, denunciando falsa applicazione dell’art. 324 c.p.c. e art. 2909 c.c. ripropone la questione di legittimità costituzionale disattesa dalla Corte di merito, sostenendo che i principi in tema di giudicato, come interpretati nella sentenza di Cassazione con rinvio, violano i principi di ragionevolezza e di eguaglianza (art. 3 Cost.), in quanto, posto che la stessa sentenza di legittimità ha ammesso che la nullità dichiarata dalla sentenza ecclesiastica delibata dal giudice civile produce effetto anche riguardo ai matrimoni che siano già stati oggetto di sentenza di divorzio passata in giudicato, restituendo agli ex coniugi lo stato di “persone libere”, e non di “divorziati”, non possono i rapporti patrimoniali con l’ex coniuge di persone ugualmente “libere” essere disciplinati diversamente – e cioè in base agli artt. 129 e 129 bis c.c. ovvero in base alla L. 1 dicembre 1979, n. 898, art. 5 – a seconda che la sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio sia, rispettivamente, anteriore o successiva al giudicato di divorzio.

1.1. – Si pone anzitutto il problema dell’ammissibilità di tale motivo, ossia il problema della proponibilità della questione di legittimità costituzionale di una norma, come interpretata nella sentenza di cassazione, nel successivo giudizio di rinvio e, quindi, nel giudizio di legittimità avverso la sentenza del giudice di rinvio.

In origine la giurisprudenza di questa Corte era orientata nel senso che la regola della proponibilità della questione di legittimità costituzionale di una norma in ogni ulteriore fase e grado del processo, senza alcuna preclusione derivante dalla mancata proposizione in precedenza (L. 11 marzo 1953, n. 87 artt. 23 e 24), non soffre deroga nel giudizio di rinvio, ancorchè l’eccezione di illegittimità costituzionale si riferisca alla medesima norma su cui si basa il principio di diritto formulato dalla Corte di cassazione, atteso che l’effetto vincolante di detto principio nel giudizio di rinvio opera con esclusivo riferimento all’interpretazione del contenuto della norma, e il fatto che la Corte, interpretando la norma, l’abbia ritenuta valida non costituisce un giudicato implicito della sua validità costituzionale, la cui attestazione non compete al giudice ordinario (Cass. 1338/1976, nonchè le precedenti Cass. 1011/1974, 1831/1969, 938/1969, 2707/1959).

Di tale orientamento prese atto favorevolmente la Corte costituzionale, la quale, osservato che “la contraria interpretazione contrasta con il chiaro disposto della Legge Cost. n. 1 del 1948, art. 1 e L. n. 87 del 1953, art. 23, secondo cui tali questioni possono essere sollevate nel corso del giudizio, senza alcuna specifica limitazione”, non mancò altresì di precisare che, “altrimenti, la Corte costituzionale non potrebbe pronunciarsi sulle questioni di legittimità costituzionale relative a norme che devono ancora ricevere applicazione nella fase di rinvio, con conseguente violazione della disposizione costituzionale sopra indicata” (Corte cost. 138/1977). Tale convinzione il giudice delle leggi ha poi costantemente ribadito, esplicitamente o implicitamente, sino all’attualità, in sentenze e ordinanze relative a incidenti di costituzionalità insorti in processi sia civili che penali (si vedano Corte cost. 11/1981, 21/1982, 2/1987, 345/1987, 30/1990, 138/1993, 257/1994, 321/1995, 58/1995, 78/2007).

Sennonchè l’iniziale orientamento positivo di questa Corte è successivamente evoluto in senso diametralmente opposto: nel senso, cioè, che avverso la sentenza del giudice di rinvio, che applicando il principio di diritto enunciato dalla sentenza di cassazione abbia disatteso la questione di legittimità costituzionale della norma sottostante, non è ammissibile ricorso per cassazione volto a riproporre la questione di legittimità costituzionale della stessa norma, atteso che il punto deciso dalla Corte di Cassazione, stante la definitività della relativa pronuncia, non è suscettibile di nuova impugnazione e, comunque, di riesame, a meno che non possa farsi valere, anche in virtù di sentenza della Corte costituzionale (di annullamento della norma per incostituzionalità), uno ius superveniens non applicato dal giudice di rinvio (cfr. Cass. 6834/1987, nonchè le successive Cass. 1612/1988, 4058/1990, 7166/1993, 9501/1993, 611/1999, 5769/1999, 5217/2000, 207/2001, 13839/2001, 14022/2002, 6986/2004).

In senso contrario all’ammissibilità, nel giudizio di rinvio, della questione di legittimità costituzionale coinvolgente il principio di diritto enunciato dalla sentenza di cassazione si è orientata anche la giurisprudenza penale di legittimità (si vedano, ad es., Cass. Sesta Sezione penale n. 1992 dep. 3 marzo 1993 e Quinta Sezione penale n. 26649 dep. 14 giugno 2004).

Nel contrasto tra l’attuale orientamento di questa Corte (peraltro non privo di incrinature, rinvenendosi anche decisioni, come l’ordinanza di questa Sezione n. 11887 del 2006, in cui l’ammissibilità della questione di costituzionalità con riferimento al principio di diritto enunciato nella sentenza di cassazione con rinvio è data per scontata) e la costante giurisprudenza della Corte costituzionale, ritiene il Collegio di aderire a quest’ultima.

E’, invero, pacifico che l’impossibilità di rimettere in discussione il principio di diritto enunciato dal giudice di legittimità nella sentenza di cassazione con rinvio non deriva dalla formazione di un giudicato sul punto, tant’è che non si nega che la relativa statuizione rimane comunque travolta dallo ius superveniens (inclusa l’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale), il quale, invece, davanti al giudicato (civile) dovrebbe arrestarsi. Si tratta, quindi, più limitatamente, di una preclusione processuale, della quale è necessario determinare l’ambito: occorre, cioè, stabilire se essa si estenda anche all’ipotesi di messa in discussione della legittimità costituzionale della norma come interpretata nella sentenza di cassazione con rinvio.

La Corte costituzionale ritiene che una interpretazione normativa nel senso di estendere la preclusione a tale ipotesi contrasterebbe con la previsione costituzionale (Legge Cost. n. 1 del 1948, art. 1) che non pone alcun limite alla proponibilità o rilevabilità dell’eccezione di incostituzionalità per tutto il corso del giudizio, sol che la norma sospettata sia ancora suscettibile di applicazione nel giudizio stesso.

Nella giurisprudenza di questa Corte non è dato registrare una espressa risposta all’orientamento della Corte costituzionale sino a Cass. 5217/2000, cit., la quale ha fatto leva sulla “definitività” del principio di diritto enunciato nella sentenza di cassazione con rinvio “in relazione a tutte le questioni costituenti il presupposto logico ed inderogabile della pronunzia di annullamento, sia prospettate dalle parti che rilevabili d’ufficio”, dato che “opera …, all’interno del giudizio, l’effetto di preclusione, sancito dall’art. 384 c.p.c., per tutte le questioni che costituiscono l’antecedente logico necessario del giudizio emesso dalla cassazione con rinvio, compresa la cosiddetta pregiudiziale costituzionale in relazione al principio di diritto enunciato”.

Tale argomento, però, non da conto del rilievo, su cui si fonda la giurisprudenza della Consulta, concernente l’incostituzionalità di una interpretazione normativa che estenda la preclusione, derivante dalla sentenza di cassazione con rinvio, anche alla questione di legittimità costituzionale della norma a base del principio di diritto enunciato dalla S.C..

Ad avviso di questo Collegio, un’interpretazione costituzionalmente conforme nel senso indicato dalla Corte costituzionale è sicuramente possibile, e quindi doverosa, con riferimento al processo civile, non ponendo la lettera della legge ordinaria (art. 384 c.p.c., comma 1, L. n. 87 del 1953, artt. 23 e 24) ostacoli insuperabili, quantomeno nel caso – come quello in esame – in cui la sentenza di cassazione non abbia già dichiarato l’irrilevanza o la manifesta infondatezza dell’eccezione di incostituzionalità (in caso contrario, invece, potrebbe ostare alla riproponibilità della questione nel giudizio di rinvio il disposto della L. n. 87 del 1953, art. 24, comma 2, – a mente del quale l’eccezione già disattesa dal giudice “può essere riproposta all’inizio di ogni grado ulteriore del processo” – ove si neghi, come osservato da autorevole dottrina, che il giudizio di rinvio costituisca, appunto, un grado ulteriore del processo, piuttosto che una fase del terzo).

1.2. – Il motivo di ricorso è quindi ammissibile. Esso è tuttavia da respingere, dato che la questione di costituzionalità su cui si basa va ritenuta manifestamente infondata, ancora una volta alla stregua della giurisprudenza della Corte costituzionale, secondo cui non può sussistere una ingiustificata disparità di trattamento quale effetto di giudicato (nella specie si tratta del giudicato relativo alle statuizioni economiche della sentenza di divorzio), data la differenza di situazioni soggettive, che appunto il giudicato produce, e la necessità di rispettare il giudicato stesso (Corte cost. 263/2002, 374/2000, 229/1999, 167/1996).

2. – Con il secondo motivo, denunciando violazione dell’art. 9 della L. n. 898 del 1970, il ricorrente principale deduce che – a differenza di quanto ritenuto dalla Corte di rinvio – non soltanto il mutamento delle condizioni economiche dei coniugi, ma anche la sopravvenuta sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio può costituire “giustificato motivo” di revisione dell’assegno divorzile, ai sensi del richiamato art. 9. 2.1. – Il motivo è inammissibile in quanto rimette in discussione un punto già definito dalla sentenza di cassazione con rinvio, la quale, nell’elaborare il principio di diritto, espressamente chiarisce: “Nè giova dedurre che le sentenze di divorzio vengono emanate rebus sic stantibus, essendo tale principio correlato al disposto della L. n. 898 del 1970, art. 9, e successive modificazioni, che ne prevedono la modificabilità in relazione alla sopravvenienza di “giustificati motivi”, intesi come circostanze che abbiano alterato l’assetto economico fra le parti, o di relazione con i figli, e non come circostanze che sarebbero state impeditive della emanazione della sentenza di divorzio e dell’attribuzione dell’assegno, le quali non sono idonee ad incidere sul giudicato se non nei limiti in cui sono utilizzabili attraverso il rimedio della revocazione”. 4. – Con il terzo motivo del ricorso principale, denunciando violazione della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6 e 9, nonchè vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, è censurata la statuizione di rigetto della richiesta di revoca dell’assegno in quanto basata sulle condizioni economiche della sig.ra M.. Il ricorrente deduce:

a) che la Corte di rinvio ha violato il disposto dell’art. 5 cit., comma 6, ritenendo sussistere nella specie il requisito della mancanza di mezzi adeguati e dell’oggettiva impossibilità di procurarseli per l’ex coniuge beneficiarla dell’assegno, mentre invece era dimostrato che quest’ultima svolgeva un’attività lavorativa retribuita, e dunque non versava nell’impossibilità oggettiva di procurarsi “mezzi adeguati”, e non era stata fornita “la necessaria prova del deterioramento del tenore di vita della beneficiarla dopo lo scioglimento del matrimonio”;

b) che la Corte ha violato il comma 9 del citato art. 5, omettendo di disporre indagini più approfondite sulle capacità reddituali della sig.ra M., nonostante la contestazione dei redditi da essa documentati fosse sorretta da ragionevoli elementi desumibili dalla documentazione, prodotta dallo S., relativa a “transazioni immobiliari poste in essere dalla M. ed al possesso di automobili”;

c) che, inoltre, la motivazione della sentenza impugnata è insufficiente “sotto il profilo dell’avvenuto accertamento delle potenzialità economiche della M. in relazione al non dimostrato deterioramento del tenore di vita di quest’ultima dopo lo scioglimento del matrimonio”. 3.1. – La censura a) è infondata. Il giudice della revisione dell’assegno divorzile, ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 9 è tenuto ad accertare il sopravvenire di giustificati motivi di revisione intesi nel senso, già precisato, di circostanze che abbiano alterato l’assetto economico fra le parti, o di relazione con i figli, tali da imporre un riequilibrio delle rispettive situazioni economiche, quali definite con la sentenza di divorzio, attraverso – a seconda dei casi – il riconoscimento del diritto all’assegno o, al contrario, la sua soppressione, ovvero la modifica della sua entità.

Soltanto nell’ambito della valutazione di rilevanza delle nuove circostanze egli deve prendere in considerazione la disponibilità o meno, a seguito di esse, da parte dell’ex coniuge economicamente più debole, di mezzi adeguati a conservare un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, ovvero la sua attitudine a procurarsi tali mezzi; ma non può procedere puramente e semplicemente – come invece pretende il ricorrente con la censura in esame – al diretto rinnovo della valutazione, già compiuta dalla sentenza di divorzio, dei presupposti del diritto all’assegno stabiliti dall’art. 5 L. cit., comma 6. Inoltre la Corte di appello ha, sì, accertato che la sig.ra M. aveva percepito un reddito per vari anni, ma ha anche aggiunto – e sul punto non vi è censura, o comunque ammissibile censura (come si vedrà infra a proposito del punto e) del motivo in esame) – che esso era esiguo e comunque non fisso e dunque non escludeva la necessità dell’assegno divorzile.

La censura b) è inammissibile, data l’assoluta genericità dei riferimenti del ricorrente agli elementi documentali che avrebbero reso ragionevole l’espletamento di ulteriori indagini ufficiose.

Anche la censura c) è inammissibile. Infatti il procedimento relativo alla revisione, per fatti sopravvenuti, delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli e i rapporti patrimoniali fra i coniugi divorziati (L. n. 898 del 1970, art. 9) è di tipo camerale e va definito, anche in sede di reclamo, con decreto soggetto a ricorso per Cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost. (ex multis, Cass. 4198/1978, 10852/1994, 7558/2000, 13860/2002, 17895/2004, 3018/2006), e tanto vale, ai sensi dell’art. 394 c.p.c., comma 1, anche per il provvedimento assunto all’esito del giudizio di rinvio. Nè il regime del provvedimento muta per il solo fatto che, come nella specie, la corte di rinvio abbia adottato la forma della sentenza, anzichè del decreto, atteso che l’erronea adozione della forma della sentenza non incide sul regime giuridico della pronuncia, corrispondente a quello previsto in via generale dalla legge (cfr., in termini, Cass. 4198/1978, cit.; sulla ininfluenza dell’adozione della forma della sentenza, anzichè di quella dovuta del decreto, sul regime delle impugnazioni, cfr., in fattispecie diverse, ex multis, Cass. 2167/1987, 10852/1994, cit., 1786/1996, 14818/2000). Dunque la denuncia di insufficienza della motivazione, nella specie formulata dal ricorrente, non può essere presa in esame, dato che con il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost. (nel regime, qui applicabile ratione temporis, anteriore alla modifica dell’art. 360 c.p.c., introdotta dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 2) sono denunziabili, per costante giurisprudenza, soltanto vizi di violazione di legge.

4. – Il ricorso incidentale è inammissibile in quanto tardivo. Esso, infatti, è stato notificato – con il controricorso che lo contiene e che ne condivide l’inammissibilità – al ricorrente principale il 31 gennaio 2005, dunque oltre il termine di cui al combinato disposto degli artt. 370 e 369 c.p.c., comma 1, essendo stato il ricorso principale notificato il 18 dicembre 2004 presso il procuratore dell’intimata nel giudizio di rinvio davanti alla Corte di appello di Roma, avv. Velio Di Rezze, nel domicilio eletto in questa città presso lo studio dell’avv. Pietro Nicotera. Si tratta, dunque, di rituale notifica presso il procuratore costituito nel giudizio a quo, ai sensi dell’art. 330 c.p.c., comma 1, seconda ipotesi, o, comunque, nel domicilio eletto dalla parte per il medesimo giudizio, ai sensi della medesima norma (luoghi di notifica dell’impugnazione, questi, tra i quali sussiste perfetta alternatività, a scelta del notificante, come chiarito dalla giurisprudenza largamente maggioritaria di questa Corte: cfr. Cass. 16145/2001, 9764/2002, 17003/2004, 20392/2004, 3307/2006, nonchè Cass. Sez. Un. 2152/1980 e 12593/1993). Valida essendo tale notifica, è irrilevante che il medesimo ricorso sia stato anche notificato, successivamente (il 21 dicembre 2004, a mezzo posta), all’avv. Di Rezze nel suo studio in Colleferro, atteso che l’art. 369 c.p.c., comma 1, nel far decorrere il termine di venti giorni per il deposito del ricorso (termine dalla scadenza del quale si computa l’ulteriore termine di venti giorni per la notifica del controricorso, ai sensi dell’art. 370 c.p.c., comma 1) “dall’ultima notificazione alle parti contro le quali è proposto” si riferisce all’ipotesi di più notificazioni nei confronti di più parti diverse, e non già di più notificazioni, tutte valide, alla medesima parte (ex multis, Cass. 1635/2006, 4366/1992, 911/1972, 1498/1968).

5. – In conclusione, il ricorso principale va rigettato e quello incidentale dichiarato inammissibile.

La reciproca soccombenza delle parti giustifica la compensazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale e dichiara inammissibile il ricorso incidentale, con compensazione delle spese del giudizio di legittimità.