Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 31 Maggio 2004

Sentenza 20 maggio 2003, n.13380

Corte di Cassazione. Sezione Lavoro.
Sentenza 20 maggio 2003, n. 13380: “Natura giuridica delle parrocchie e fattispecie di lavoro subordinato”

La Corte Suprema di Cassazione. Sezione Lavoro.

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Guglielmo SCIARELLI Presidente
Dott. Luciano VIGOLO Consigliere
Dott.Attilio CELENTANO Consigliere
Dott.Camillo FILADORO
Rel. Consigliere
Dott. Aldo DE MATTEIS
Consigliere

ha pronunciato la seguente
SENTENZA

sul ricorso proposto da:
PARROCCHIA SANTI PIETRO & PAOLO VIGHIZZOLO CANTU’, in persona del legale appresentante pro – tempore, già elettivamente domiciliato in
ROMA VIA CERVETERI 8, presso lo studio dell’avvocato PIETRO FARALLO, rappresentato e difeso dall’avvocato ANGELA CERUTI, giusta delega in atti e da ultimo d’ufficio presso la Cancelleria della Corte Suprema di Cassazione
– ricorrente –

contro

MENGATO AGOSTINA;
– intimata –

e sul 2° ricorso n° 01/02/3741 proposto da:

MENGATO AGOSTINA, elettivamente domiciliata in ROMA VIALE PARIOLI 124, presso lo studio dell’avvocato LUIGI FERRARI, che la rappresenta
e difende unitamente all’avvocato OSVALDO MOSSINI, giusta delega in
atti;
– controricorrente e ricorrente incidentale –

nonché contro

PARROCCHIA SANTI PIETRO & PAOLO DI VIGHIZZOLO DI CANTU’;

– intimata –

avverso la sentenza n. 1650/00 del Tribunale di COMO, depositata il 15/12/00 R.G.N. 30/99;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
20/05/03 dal Consigliere Dott. Camillo FILADORO;

udito l’Avvocato FERRARI LUIGI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Marcello MATERA che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi.

Fatto

Con ricorso al Pretore di Como in funzione di giudice del lavoro, Agostina Mengato chiedeva il riconoscimento della natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso con la Parrocchia dei Santi Pietro e Paolo di Vighizzolo di Cantù dal 1°aprile 1987 al 1998, e la condanna della Parrocchia al pagamento di tutte le retribuzioni, mai erogate in corso di rapporto, e del trattamento di fine rapporto, quantificati, rispettivamente, in lire 209.870.096 e 17.775.627.
La ricorrente faceva presente di aver svolto attività di lavoro subordinato con mansioni di sacrista, provvedendo per oltre dodici anni alla preparazione delle funzioni sacre, alla custodia della chiesa e dei relativi arredi, alla sorveglianza della casa parrocchiale ed alla vendita di libri nella libreria parrocchiale “La Sapienza”, svolgendo altresì attività di collaboratrice liturgica e catechista parrocchiale lavorando dal lunedì al venerdì dalle 7 alle 21 sotto la vigilanza del Parroco, in coordinamento con l’opera prestata dai volontari.
La Mengato faceva presente che in tutto il periodo aveva utilizzato una unità abitativa di proprietà della Parrocchia, concessale proprio per svolgere tutte queste attività.
Il Pretore rigettava la domanda, escludendo la natura subordinata del rapporto di lavoro.
La decisione del primo giudice era riformata dal Tribunale di Como, che, con sentenza 17 novembre – 15 dicembre 2000, dichiarava la natura subordinata del rapporto di lavoro, condannando tuttavia la Parrocchia al pagamento del solo trattamento di fine rapporto (liquidato in lire 9.000.000).
Dopo alcuni rilievi di carattere procedurale in ordine all’ammissibilità dell’appello e di una produzione documentale depositata dall’appellante Mengato, il Tribunale esaminava il merito della causa, rilevando che il punto centrale di essa riguardava la qualificazione da dare al rapporto intercorso tra la Parrocchia e la Mengato (dovendosi escludere che il Parroco potesse essere soggetto di imputazione delle situazioni giuridiche dedotte in giudizio, secondo la prospettazione della parte e considerato che la Chiesa, in quanto comunità ecclesiale, era priva di soggettività giuridica).
Esaminando quindi il lungo elenco delle attività svolte dalla Mengato, i giudici di appello rilevavano che molte di esse erano del tutto estranee alle mansioni tipiche del sacrista (o al più avrebbero potuto essere considerate come oggetto di apposita pattuizione aggiuntiva rispetto al mansionario del sacrista: come esempio, il Tribunale indicava la vendita di libri presso la libreria parrocchiale – della quale, tuttavia, non era stata dimostrata la concreta riferibilità alla Parrocchia, piuttosto che al Parroco o ad altro soggetto giuridico -).
Analogamente doveva considerarsi del tutto estranea ai compiti del sacrista la cura e manutenzione della casa parrocchiale.
I giudici di appello esaminavano il materiale probatorio raccolto ed osservavano che la pulizia della chiesa, secondo le concordi testimonianze assunte dal primo giudice, era abitualmente eseguita da un gruppo di volontarie che gravitavano attorno alla Parrocchia.
Esulava, infine, dalla sfera lavorativa propriamente detta l’incarico di collaboratrice liturgica e quello di catechista parrocchiale (attività entrambe per le quali non erano state indicate dalla ricorrente neppure le esatte modalità temporali).
La custodia della chiesa e dei relativi arredi e la preparazione delle sacre funzioni – secondo i testimoni sentiti – risultavano entrambe attività affidate in via esclusiva alla Mengato e da questa svolte sotto la direzione del Parroco preposto dall’Ente resistente.
Come elemento a favore della subordinazione del rapporto di lavoro, il Tribunale indicava proprio l’utilizzazione a titolo gratuito di un appartamento di proprietà della Parrocchia, e ad essa adiacente, da parte del nucleo familiare della Mengato.
Tale concessione, sottolinea il Tribunale, appariva, tra l’altro, funzionale allo svolgimento delle mansioni da svolgere ed, in particolare, alla custodia della chiesa.
I giudici di appello ritenevano prova decisiva della subordinazione la missiva del Parroco don Montrasio del 22 maggio 1991, che affermava l’esistenza di un preciso vincolo sinallagmatico tra la concessione a titolo gratuito dell’alloggio parrocchiale ed i compiti specifici affidati alla stessa (dei quali lo stesso Parroco raccomandava lo svolgimento in modo consono e non affrettato: sintomo questo – sottolinea il Tribunale – della esistenza di poteri di vigilanza e controllo tipici del rapporto di lavoro subordinato).
Secondo il Tribunale, il godimento dell’immobile parrocchiale a titolo gratuito costituiva non la parte (in natura) di un più ampio trattamento retributivo, ma l’unica retribuzione riconosciuta alla Mengato per l’attività svolta in favore della Parrocchia.
I giudici di appello ritenevano congruo, ai fini della remunerazione dell’attività prestata dalla Mengato, il controvalore dell’utilizzo di tale alloggio (indicato in lire 10.000.000 annue, pari al canone di locazione di un immobile con quelle caratteristiche).
I giudici di appello rigettavano, pertanto, la domanda della Mengato di condanna della Parrocchia al pagamento di tutte le voci retributive discendenti dal contratto collettivo di lavoro dei sacristi.
Le disposizioni di esso non potevano trovare integrale applicazione nel caso concreto, non essendo stata dimostrata la iscrizione delle parti alle organizzazioni sindacali che avevano stipulato l’accordo.
Il Tribunale non riteneva neppure di applicare in via indiretta, ai sensi dell’art. 36 della Costituzione, tutta – o parte – la disciplina contenuta nel contratto collettivo.
In considerazione della attività svolta – che non riguardava tutti i compiti previsti dal mansionario per i sacristi, ma singoli compiti svolti dalla Mengato con il concreto e continuo ausilio delle ausiliarie – i giudici di appello ritenevano del tutto congruo il compenso omnicomprensivo di lire 10.000.000 corrispondenti al controvalore dell’alloggio, e tale da consentire alla Mengato ed alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa.
Doveva invece essere riconosciuto alla ricorrente il diritto al pagamento del trattamento di fine rapporto che era liquidato in moneta corrente in complessive lire 9.000.000 (oltre interessi di legge dalla data di pubblicazione della sentenza).
Avverso tale decisione la Parrocchia ha proposto ricorso per cassazione, sorretto da due distinti motivi.
Resiste la Mengato con controricorso, proponendo a sua volta ricorso incidentale.

Diritto

I due ricorsi devono essere riuniti, in quanto proposti entrambi contro la medesima decisione.
Con il primo motivo, la ricorrente principale rinnova l’eccezione di difetto di legittimazione passiva della convenuta Parrocchia dei Santi Pietro e Paolo, già formulata fin dalle prime difese e disattesa dal Tribunale.
La ricorrente rileva, inoltre, l’inesistenza di una vera e propria domanda proposta dalla ricorrente nei confronti della Parrocchia.
Il motivo è del tutto infondato.
La legittimazione passiva, secondo la dottrina e la giurisprudenza di gran lunga prevalenti, sussiste quando vi è identità tra il soggetto contro il quale la domanda è posta e colui che nella domanda stessa è indicato come soggetto passivo del rapporto dedotto in causa (Cass. 27 febbraio 1995 n. 2224).
Altro problema, invece, è poi stabilire se il convenuto sia effettivamente obbligato nei confronti dell’attore, problema questo che attiene alla verifica della titolarità passiva del rapporto.
Nel caso in esame, non è revocabile in dubbio che sussista la legittimazione passiva della Parrocchia, in quanto la ricorrente sostiene che proprio la Parrocchia, da lei convenuta in giudizio, sia obbligata al pagamento di retribuzioni e trattamento di fine rapporto. La domanda di condanna è stata formulata chiaramente nei confronti della Parrocchia.
Resta dunque oggetto di discussione tra le parti se sia proprio la Parrocchia tenuta al pagamento delle retribuzioni dirette ed indirette, ossia è discussa la titolarità passiva del rapporto obbligatorio.
Sul punto, i giudici di appello hanno ritenuto che fosse la Parrocchia, proprietaria, tra l’altro, dell’alloggio dato in uso gratuito alla famiglia della Mengato, l’unico soggetto che ebbe a beneficiare della prestazioni della sacrista, rilevando che altre attività svolte dalla ricorrente si ponevano chiaramente su un piano diverso da quello del lavoro subordinato, e che, infine, la vendita di libri aveva costituito prestazione in favore di soggetto non chiaramente indicato (Parrocchia, Parroco o altro soggetto giuridico).
La Parrocchia dei Santi Pietro e Paolo di Vighizzolo di Cantù, come ha precisato la stessa ricorrente principale, è ente ecclesiastico civilmente riconosciuto con Decreto del Ministro dell’Interno del 29 agosto 1986, ai sensi dell’art. 4 della legge 20 maggio 1985 n. 222, ed è iscritta nel registro delle persone giuridiche presso il Tribunale di Como in data 9 dicembre 1989 n. 362.
La Parrocchia è l’unico ente che nel nostro ordinamento gode di un riconoscimento anche ai fini civilistici, avendo la Chiesa rilievo esclusivamente per il diritto canonico, in quanto comunità ecclesiale.
Appare, pertanto, ineccepibile la conclusione del Tribunale, che ha ritenuto la Parrocchia unica destinataria delle prestazioni lavorative della Mengato, ed obbligata al pagamento del trattamento di fine rapporto.
Con il secondo motivo, la ricorrente principale deduce la insussistenza del rapporto di lavoro subordinato sotto il profilo della violazione di norme di diritto (art. 2094 codice civile) e di vizio della motivazione.
Ad avviso della ricorrente, nel caso di specie, difetterebbe qualsiasi prova della esistenza di un rapporto di lavoro subordinato.
Lo stesso Tribunale aveva premesso che molte attività dovevano considerarsi del tutto estranee al mansionario tipico del sacrista (alla cui retribuzione la Mengato aveva chiesto di essere parificata).
Tanto bastava, ad avviso della Parrocchia, per concludere che questi compiti erano prestati dalla Mengato in base ad una attività di mero volontariato, in quanto mossa da un sentimento prettamente religioso.
Le comunicazioni scritte provenienti dal Parroco don Montrasio non potevano considerarsi prove né indizi della esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, trattandosi di mere comunicazioni funzionali allo svolgimento delle sacre funzioni.
La sentenza avrebbe, inoltre, omesso di considerare le circostanze prospettate dalla Parrocchia circa lo svolgimento della Mengato di altre attività (al fine di escludere la sussistenza della subordinazione).
Erroneamente, ad avviso della ricorrente principale, i giudici di appello avrebbero riconosciuto d’ufficio, senza richiesta o domanda espressa della Mengato, la sussistenza di una retribuzione in natura nella concessione in uso gratuito della casa di proprietà della Parrocchia.
Con motivazione contraddittoria, il Tribunale avrebbe – da un lato – ritenuto non vincolante al caso di specie il CCNL sacristi ai fini della determinazione del valore della retribuzione in natura e – dall’altro – utilizzato lo stesso contratto al fine di individuare nella concessione dell’abitazione una sorta di retribuzione.
Tra l’altro, il CCNL dei sacristi nulla dice in ordine alla concessione dell’alloggio quale elemento funzionale al lavoro del sacrista, né determina valori retributivi equivalenti.
Anche questo motivo è infondato.
I giudici di appello hanno richiamato, prima di tutto, la giurisprudenza di questa Corte circa la necessità di accertare, ai fini della subordinazione di un rapporto di lavoro, l’esistenza di un vincolo personale che assoggetta il prestatore al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro, con conseguente limitazione della sua autonomia ed ha sottolineato che tale accertamento deve tener conto, di volta in volta, della particolare natura del rapporto.
Con motivazione adeguata e sufficiente, esente da vizi logici ed errori giuridici, il Tribunale ha esaminato tutto il materiale probatorio, concludendo per l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato avente ad oggetto le mansioni di sacrista (dopo aver escluso che una serie di altre attività potesse essere ricondotta nell’ambito di un rapporto di lavoro). Il Tribunale ha considerato non solo le numerose testimonianze raccolte, ma anche i documenti prodotti dalla Mengato, ricavando dagli stessi la prova dell’esistenza del potere disciplinare e gerarchico manifestato attraverso tutto l’arco del rapporto di lavoro. Sul punto, il Tribunale ha richiamato i contenuti di una lettera del 22 maggio 1991, nella quale il Parroco muoveva alcune, precise, contestazioni in ordine all’operato della Mengato e affermava esplicitamente l’esistenza di un preciso vincolo sinallagmatico tra la concessione in uso gratuito dell’alloggio parrocchiale abitato dalla famiglia della ricorrente ed i compiti specifici alla stessa assegnati, dei quali il Parroco significativamente auspica lo svolgimento consono e non affrettato, in tal modo esplicando i poteri di vigilanza, controllo e direttiva, tipici della parte datoriale nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato.
Tale documento, ad avviso del Tribunale, rileva non solo ai fini dell’accertamento della subordinazione del rapporto, ma anche per gli aspetti economici collegati alla concessione dell’alloggio “comprovando che, in base agli accordi intercorsi tra gli organi parrocchiali e la Mengato, il godimento gratuito dell’appartamento costituisse non un accessorio della retribuzione pattuita, secondo la dinamica tipica del vigente CCNL, bensì l’unica retribuzione della attività svolta dalla sacrista, in quanto di per sé costituente il frutto di un “sacrificio”, compiuto al fine di “avere vicino una famiglia collaboratrice a cui poter ricorrere nei momenti di bisogno e di emergenza”.
Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, è devoluta al giudice del merito l’individuazione delle fonti del proprio convincimento, e pertanto anche la valutazione delle prove, il controllo della loro attendibilità e concludenza, la scelta, tra le risultanze istruttorie, di quelle ritenute idonee ad acclarare i fatti oggetto della controversia, privilegiando in via logica taluni mezzi di prova e disattendendone altri, in ragione del loro diverso spessore probatorio, con l’unico limite dell’adeguata e congrua motivazione.
Conseguentemente, ai fini di una corretta decisione, il giudice non è tenuto a valutare analiticamente tutte le risultanze processuali, né a confutare singolarmente le argomentazioni prospettate dalle parti, essendo invece sufficiente che egli, dopo averle vagliate nel loro complesso, indichi gli elementi sui quali intende fondare il proprio convincimento e l’iter seguito nella valutazione degli stessi e per le proprie conclusioni, implicitamente disattendendo quelli logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass. 30 ottobre 1998 n. 10896).
I giudici di appello hanno ritenuto non applicabile direttamente il CCNL sacristi, in mancanza di iscrizione alle organizzazione sindacali o di specifica adesione ai contenuti del contratto.
Tale conclusione appare in linea con la costante giurisprudenza di questa Corte.
In considerazione del fatto che la Mengato non svolgeva l’attività di sacrista a tempo pieno, e di fatto lavorava solo dal lunedì al venerdì di ogni settimana, gli stessi giudici hanno ritenuto adeguata e sufficiente la retribuzione in natura, costituita dalla concessione in uso gratuito dell’alloggio.
Per compiere questa operazione, senza incorrere nella denunciata contraddizione, il Tribunale ha utilizzato come parametro di riferimento, ai sensi dell’art. 36 della Costituzione, il contratto collettivo più volte richiamato.
I giudici d’appello hanno così concluso che l’importo annuale di lire 10.000.000 (corrispondente al controvalore dell’uso dell’alloggio) costituiva compenso “idoneo ad assicurare alla Mengato ed alla sua famiglia, dotata, alla stregua della complessive risultanze istruttorie, di ulteriori redditi da lavoro dipendente, un’esistenza decorosa e libera dal bisogno”. Sulla base di tale compenso in natura, i giudici di appello hanno liquidato il trattamento di fine rapporto spettante alla Mengato.
Si tratta di un accertamento di merito, condotto sulla base di considerazione del tutto logiche, che sfuggono, pertanto, a qualsiasi censura in questa sede di legittimità.
Lo svolgimento di altra attività non poteva, del resto, essere utilizzato ai fini della negazione del rapporto di lavoro subordinato, ma solo – eventualmente – ai fini della determinazione della retribuzione, la quale, secondo i principi costituzionali, deve essere adeguata non solo alla qualità, ma anche alla quantità del lavoro svolto, non potendo essere invocato nel caso di lavoro a tempo ridotto l’ulteriore parametro della “sufficienza” della retribuzione.
Con l’unico motivo del ricorso incidentale, Agostina Mengato denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto, con riferimento agli articoli 36 della Costituzione, 2099 codice civile nonché omessa, insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia, in ordine alla mancata applicazione del CCNI, dei sacristi (art. 360 nn. 3 e 5 codice di procedura civile).
Il Tribunale dopo aver affermato la natura subordinata del rapporto di lavoro ha liquidato in via equitativa l’importo di lire 9.000.000 a titolo di trattamento di fine rapporto, ritenendo del tutto adeguata e sufficiente la retribuzione in natura consistita nella assegnazione gratuita della abitazione parrocchiale alla famiglia della lavoratrice.
In tal modo, tuttavia, i giudici di appello – secondo la ricorrente incidentale – non avrebbero tenuto nella dovuta considerazione i principi costituzionali dettati dall’art. 36 della Costituzione, secondo i quali la retribuzione deve essere in ogni caso sufficiente ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa.
Nella sentenza, tra l’altro, non sarebbero indicati i motivi per i quali non è stata riconosciuta l’applicabilità del CCNL dei sacristi, il quale prevede esplicitamente che, accanto alla retribuzione in denaro, sia assegnato un alloggio adeguato in uso esclusivo del lavoratore e della sua famiglia.
I giudici di appello si erano limitati, sul punto, a richiamare il carattere non vincolante del contratto collettivo nazionale di lavoro senza considerare che le disposizioni di esso – invocabili anche attraverso il parametro della retribuzione adeguata e sufficiente dettato dall’art. 36 della Costituzione – prevedevano la corresponsione di una retribuzione in denaro a fianco della concessione in uso gratuito della casa di abitazione.
Infine, non rispondeva affatto a verità che la Mengato non svolgesse tutte le mansioni previste dal contratto collettivo dei sacristi. Oltre alle mansioni tipiche del sacrestano (preparazione e servizio alle sacre funzioni, custodia della chiesa e degli arredi, pulizia della chiesa e degli ambienti relativi alle sacre funzioni), la Mengato, infatti, si occupava di numerose altre attività, compresa quella della vendita dei libri presso la libreria parrocchiale.
I giudici di appello avevano dato per incontroversa l’entità del canone di locazione riferibile all’appartamento concesso in uso gratuito alla famiglia della Mengato, senza spiegare le ragioni in base alle quali erano giunti a tale conclusione.
Anche il ricorso incidentale appare infondato.
Con motivazione adeguata, che sfugge a qualsiasi censura in quanto immune da vizi logici ed errori giuridici, il Tribunale ha concluso che retribuzione adeguata e sufficiente per l’attività svolta dalla Mengato era la concessione in uso gratuito dell’alloggio per sé e per la famiglia.
I giudici di appello hanno osservato che la Mengato non svolgeva affatto tutti i compiti previsti dal contratto collettivo dei sacristi (peraltro non applicabile direttamente al caso di specie, in mancanza di iscrizione delle parti ad una delle organizzazioni sindacali, ovvero di sua integrale unilaterale applicazione da parte della Parrocchia).
Alcuni compiti della Mengato, hanno ricordato i giudici di appello, potevano dirsi del tutto estranei al mansionario tipico del sacrista, come la vendita di libri presso la libreria che il ricorrente non aveva neppure provato fosse gestita dalla Parrocchia, piuttosto che direttamente dal Parroco o da altro soggetto giuridico.
I lavori di pulizia dei luoghi di culto non erano curati dalla Mengato ma da un gruppo di volontarie che si alternavano in questo incarico.
Del tutto estranee alla sfera propriamente lavorativa (sia essa di tipo subordinato che volontaristica) in quanto rientranti piuttosto nell’opera di catechesi e di diffusione del messaggio cristiano, dovevano considerarsi poi le attività di collaboratrice liturgica e di catechista parrocchiale.
Le uniche attività che potevano rientrare in un rapporto di lavoro subordinato erano, pertanto, quelle di preparazione e servizio delle sacre funzioni e di custodia della chiesa e degli arredi. La Mengato aveva la detenzione delle chiavi della chiesa ed era addetta all’apertura ed alla chiusura della stessa.
Tali compiti non riguardavano, come già segnalato, l’intero mansionario previsto dal contratto, ma singoli attività, specificamente determinate, che venivano svolte con l’aiuto delle volontarie della Parrocchia, sotto il controllo del Parroco.
Per queste attività – che non costituivano un rapporto di lavoro a tempo pieno, ma solo frammenti del più ampio mansionario del sacrista – il Tribunale da ritenuto che retribuzione complessiva diretta, adeguata e sufficiente, doveva considerarsi la concessione gratuita della abitazione, valutata in lire 10.000.000 annue, corrispondente al canone di locazione dell’immobile.
Di fronte a questa valutazione si infrangono tutte le censure formulate dalla ricorrente incidentale.
Tra l’altro, è stato accertato che la Mengato svolgeva professionalmente un’altra attività, quella di “pranoterapeuta”, e godeva di un reddito derivante da una pensione di invalidità civile. Entrambe queste circostanze, dedotte dalla Parrocchia non solo ai fini della insussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, ma anche per la determinazione di una retribuzione “adeguata” alla qualità e quantità del lavoro svolto in favore della Parrocchia, sono state confermate dalla Mengato in sede di interrogatorio davanti al Pretore.
Si richiamano le considerazioni già svolte in ordine al secondo motivo del ricorso principale, per ribadire che l’accertamento di merito sul punto della adeguatezza della retribuzione non può essere rimesso in discussione in questa sede di legittimità, in quanto adeguatamente motivato.
Conclusivamente i ricorsi devono essere entrambi rigettati, con la compensazione delle spese di questo giudizio.

P.Q.M

La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta.
Compensa le spese del giudizio.

Così deciso in Roma, il 20 maggio 2003.
Depositata in Cancelleria in data 11 settembre 2003