Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 1 Settembre 2003

Sentenza 20 luglio 1993, n.343

Corte costituzionale. Sentenza 20 luglio 1993, n. 343: “Obiezione di coscienza – rifiuto totale di prestare il servizio militare (art. 8, comma terzo, della legge 15 dicembre 1972, n. 772)”.

(Casavola; Baldassarre)

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA;

Giudici: Dott. Francesco GRECO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO, pvv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA, prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO;

ha pronunciato la seguente

Sentenza

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 148 e 151 del codice penale militare di pace e dell’art. 8, terzo comma, della legge 15 dicembre 1972, n. 772 (Norme per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza), promosso con ordinanza emessa il 22 luglio 1992 dal Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale militare di Roma nel procedimento penale a carico di Cospito Alfredo, iscritta al n. 507 del registro ordinanze 1992 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell’anno 1992.

Udito nella camera di consiglio del 27 gennaio 1993 il Giudice relatore Antonio Baldassarre.

(omissis)

Considerato in diritto

1.- Il giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale militare di Roma dubita della legittimità costituzionale degli artt. 148 e 151 del codice penale militare di pace, nonché dell’art. 8, terzo comma, della legge 15 dicembre 1972, n. 772 (Norme per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza), in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 25, 27, terzo comma, e 52 della Costituzione, in quanto le norme contestate non prevedono che siano esonerati dal servizio militare coloro che, avendo rifiutato incondizionatamente la prestazione del servizio stesso sulla base di motivi di coscienza diversi da quelli indicati nell’art. 1, primo comma, della legge n. 772 del 1972 ovvero senza aver addotto motivo alcuno, abbiano espiato per quel comportamento una pena complessivamente non inferiore ad un anno di reclusione.

2.- La questione di legittimità costituzionale sollevata va dichiarata in parte inammissibile per l’irrilevanza del profilo relativo all’art. 151 c.p.m.p..

Ai fini dell’esame della rilevanza della questione sottoposta al giudizio di questa Corte, occorre muovere dalla premessa che in sostanza il giudice a quo intende contestare, sotto il profilo della legittimità costituzionale, l’effetto connesso alla c.d. spirale delle condanne, vale a dire il susseguirsi delle condanne penali che sistematicamente colpiscono coloro che, senza addurre i motivi di coscienza indicati dall’art. 1 della legge n. 772 del 1972, rifiutano incondizionatamente e totalmente di prestare il servizio militare fino al momento della persistenza dell’obbligo di leva (compimento del quarantacinquesimo anno di età): il rinnovo della richiesta di inquadramento dopo un primo rifiuto, che va ripetuto, sino all’età del congedo per limiti di età, ogni volta che sia stata espiata la pena irrogata per qualcuno dei reati connessi al rifiuto del servizio militare (mancanza alla chiamata, diserzione, allontanamento illecito, disobbedienza, etc.), escluso quello regolato dall’art. 8, secondo comma, della legge n. 772 del 1972, comporta infatti un susseguirsi di inottemperanze all’obbligo di leva, con il probabile formarsi di una catena di condanne conseguente ai vari episodi in cui si concreta l’originario e immodificato convincimento di non sentirsi vincolato al dovere di prestare il servizio militare.

Il legislatore, a seguito dell’adozione della legge n. 772 del 1972, ha impedito il prodursi del ricordato effetto a favore di coloro che rifiutino il servizio militare sulla base dei motivi di coscienza indicati nell’art. 1 della stessa legge, cioè per coloro “che dichiarino di essere contrari in ogni circostanza all’uso personale delle armi per imprescindibili motivi di coscienza (…) attinenti ad una concezione generale della vita basata su profondi convincimenti religiosi o filosofici o morali professati”. Costoro, infatti, quando non siano ammessi al beneficio di prestare il servizio militare non armato o un servizio civile sostitutivo, sono sottoposti alla stessa pena prevista per chi rifiuta anche questi ultimi servizi (pena edittale poi ridotta da sei mesi a due anni, solo per il reato di cui all’art. 8, secondo comma, per effetto della sentenza n. 409 del 1989 di questa Corte), ma, a norma dell’art. 8, terzo comma, della legge medesima, sono esonerati dall’obbligo di leva una volta che abbiano espiato la pena irrogata.

Questa clausola, come si è già accennato, non è prevista per gli obiettori totali che adducano motivi di coscienza diversi da quelli indicati nel ricordato art. 1 ovvero non adducano alcun motivo. Sicché il giudice a quo, al fine di espungere dall’ordinamento la possibilità della c.d. spirale delle condanne a danno di costoro, ha chiesto a questa Corte una pronunzia additiva diretta a estendere anche ai soggetti appena menzionati la clausola di esonero dalla prestazione del servizio militare di leva prevista dall’art. 8, terzo comma, della legge n. 772 del 1972.

3.- Poiché la clausola ora ricordata viene riferita, nel petitum, a qualsiasi ipotesi di rifiuto di prestare il servizio militare, il giudice a quo, si è preoccupato di delimitarne la rilevanza alla fattispecie dedotta di fronte a lui stesso. Tuttavia, nel compiere siffatta operazione, egli ha correttamente individuato i confini della questione soltanto sotto il profilo soggettivo. L’imputato del giudizio a quo, infatti, non ha usufruito dei benefici previsti dalla legge sulla obiezione di coscienza, dal momento che non ha formalmente addotto i motivi individuati dallo stesso legislatore come valide ragioni di obiezione, ma ha informato della sua convinta adesione all’ideologia politica anarchica soltanto il giudice che l’ha interrogato in sede di accertamento del reato. Di modo che ben ha fatto il giudice rimettente a estendere i termini della questione al trattamento previsto per tutti gli obiettori totali che si pongono fuori della disciplina disposta dagli artt. 1 e 8 della legge n. 772 del 1972, vale a dire tanto coloro che non adducono alcun motivo, quanto coloro che adducono motivi diversi da quelli indicati dall’appena citato art. 1.

Il giudice a quo ha, invece, peccato per eccesso nell’individuare le forme di illecito penale connesse al rifiuto di prestare il servizio militare. Il reato di rifiuto delineato dall’art. 8, secondo comma, della legge n. 772 del 1972, il cui elemento materiale è dato dalla manifestazione di volontà attinente all’inottemperanza dell’obbligo di leva, è un reato a forma libera, che può manifestarsi tanto in comportamenti meramente omissivi (come, ad esempio, il non rispondere alla chiamata alle armi) quanto in comportamenti commissivi (come, ad esempio, il rifiuto di indossare l’uniforme, l’allontanamento illecito). Sicché quando non ricorre lo specifico elemento costitutivo del reato di rifiuto di cui all’art. 8, della legge n. 772 del 1972, consistente nell’adduzione dei motivi indicati dall’art. 1 della legge stessa, possono entrare in gioco altri reati militari, che si pongono come generali rispetto al reato speciale di rifiuto, configurato dal citato art. 8. Nella specie, trattandosi di un caso in cui non sono stati addotti i predetti motivi, il giudice a quo, al fine di radicare correttamente nell’ordinamento normativo la pronunzia additiva vòlta all’estensione della clausola di esonero prevista dall’art. 8, terzo comma, della legge n. 772 del 1972, ha giustamente collegato quest’ultimo articolo a disposizioni delineanti altre figure di reato militare. Nell’operare tale riferimento, tuttavia, lo stesso giudice, mentre ha correttamente indicato la norma sul reato di diserzione (art. 148 c.p.m.p.), ha invece erroneamente aggiunto il pur affine reato di mancanza alla chiamata (art. 151 c.p.m.p.).

Dall’ordinanza di rimessione, infatti, si deduce inequivocabilmente che l’unico reato per il quale l’imputato è chiamato a rispondere nel giudizio a quo è quello di diserzione (art. 148 c.p.m.p.). Per il reato di mancanza alla chiamata (art. 151 c.p.m.p.) lo stesso imputato era già stato condannato in un precedente giudizio e, precisamente, nel primo di quelli che lo hanno riguardato. Ma, anche se l’ordinanza di rimessione mira a colpire, in sostanza, la c.d. spirale delle condanne, questo intento non può legittimare una definizione della questione tale da scardinare il carattere incidentale del giudizio di costituzionalità e non può, quindi, obliterare il principio che la rilevanza della questione va valutata soltanto rispetto al giudizio a quo. Quest’ultima regola porta, dunque, a delimitare l’oggetto del giudizio in esame alla richiesta di estendere, mediante una pronunzia additiva, la clausola di esonero dal servizio militare prevista dall’art. 8, terzo comma, della legge n. 772 del 1972 a coloro che, rifiutando radicalmente, in tempo di pace, il predetto servizio dopo aver addotto motivi diversi da quelli indicati nell’art. 1 della medesima legge o senza aver addotto motivo alcuno, siano incorsi nel reato di diserzione (art. 148 c.p.m.p.).

4.- Così definita, la questione merita l’accoglimento.

Nel contestare, sotto il profilo del principio costituzionale di parità di trattamento (art. 3 della Costituzione), l’irragionevole discriminazione operata dall’art. 8, terzo comma, della legge n. 772 del 1972 a danno di coloro che rifiutano “in toto” di prestare il servizio militare adducendo motivi diversi da quelli indicati dall’art. 1 della stessa legge ovvero non adducendo alcun motivo, il giudice a quo individua la manifestazione di tale arbitraria determinazione del legislatore nella macroscopica sproporzione sussistente, sul piano del regime sanzionatorio, tra l’ipotesi prima ricordata e quella dell’obiettore totale che adduce i motivi di coscienza riconosciuti come meritevoli di tutela dallo stesso legislatore. Infatti, egli precisa, mentre in quest’ultimo caso coloro che rifiutano il servizio militare, una volta espiata la pena inflitta, fruiscono dell’esonero dalla prestazione del servizio militare di leva a norma del citato art. 8, terzo comma, della legge n. 772 del 1972, nell’altro caso, invece, chi si rifiuta definitivamente di ottemperare all’obbligo della leva, pur essendo sottoposto a una pena edittale identica a quella prevista per l’ipotesi precedentemente considerata, è tuttavia soggetto, a causa della mancata previsione a suo favore della clausola di esonero, alla probabilità di un’ininterrotta catena di condanne, destinata a prolungarsi sino al venir meno dell’obbligo di leva per limiti di età.

Trattandosi di un giudizio che viene innanzitutto svolto sotto il profilo dell’art. 3 della Costituzione, occorre preliminarmente ribadire che i valori costituzionali, il cui bilanciamento ad opera del legislatore dev’essere in questa sede scrutinato, sono dati, da un lato, dall’obbligo di prestare il servizio militare di leva (art. 52, secondo comma, della Costituzione) – obbligo che va annoverato fra i doveri di solidarietà sociale di carattere inderogabile, ai sensi dell’art. 2 della Costituzione, – e, dall’altro lato, dalla libertà personale, connessa all’incriminazione del rifiuto di prestare il predetto servizio (art. 13 della Costituzione), libertà che gode anch’essa della copertura dell’art. 2 della Costituzione in quanto diritto inviolabile (v. sent. n. 409 del 1989). Poiché nella decisione appena ricordata è stato chiarito che tanto l’incriminazione del rifiuto totale di prestare il servizio militare, quanto la previsione di una clausola di esonero come quella stabilita dall’art. 8, terzo comma, della legge n. 772 del 1972, sono frutto di scelte discrezionalmente assunte dal legislatore, non rinvenendosi in Costituzione alcun obbligo in tal senso, è opportuno sottolineare, sempre in via di premessa, che il giudizio sotto il profilo considerato deve svolgersi nelle forme proprie dello scrutinio di ragionevolezza dell’uso discrezionale del potere legislativo in riferimento alla costellazione di valori costituzionali prima precisata.

5.- Nella sentenza n. 409 del 1989, questa Corte ha affermato che il caso di chi rifiuta di assolvere in ogni modo all’obbligo di leva senza addurre motivi o adducendo motivi diversi da quelli considerati nella legge sull’obiezione di coscienza merita un trattamento sanzionatorio differenziato, presumibilmente più severo, rispetto al caso di chi tiene lo stesso comportamento materiale adducendo motivi di coscienza meritevoli di tutela. Ma la stessa Corte nella medesima decisione, se pure con riferimento a un’ipotesi di raffronto esattamente inversa a quella ora esaminata, ha pure sostenuto che, in considerazione dell’identità dell’interesse leso nelle due distinte ipotesi criminose (interesse a una regolare incorporazione degli obbligati al servizio di leva), oltreché dell’analogia delle modalità oggettive di comportamento, non può ammettersi che fra le pene edittali previste per le suddette ipotesi sussista un’eccessiva sproporzione.

Sebbene, per effetto della stessa decisione, la pena edittale prevista per il reato di rifiuto totale della prestazione del servizio militare di cui all’art. 8, secondo comma, della legge n. 772 del 1992 sia stata eguagliata a quella stabilita per altri reati analoghi (come, ad esempio, la mancanza alla chiamata), l’omissione legislativa di una clausola di esonero simile a quella stabilita nel terzo comma del citato art. 8 rende palesemente sproporzionato il trattamento sanzionatorio complessivo concernente gli altri reati comunque collegati a un rifiuto totale di adempiere la prestazione del servizio militare di leva, relativamente ai quali sussiste, come si è già ricordato, la possibilità effettiva del realizzarsi della c.d. spirale delle condan5ne. E non può certo dirsi che tale effetto eventuale, ancorché probabile, debba restar fuori dai confini di un giudizio di legittimità costituzionale, poiché, come questa Corte ha ribadito anche recentemente (v. sent. n. 163 del 1993), il rispetto del principio di eguaglianza, quale è configurato nell’art. 3 della Costituzione, comporta che la regola della proporzionalità in esso implicita debba esser valutata “in relazione agli effetti pratici prodotti o producibili nei concreti rapporti della vita”.

L’eccessiva sproporzione del trattamento sanzionatorio dei reati di rifiuto del servizio militare diversi da quello disciplinato nell’art. 8, secondo comma, della legge n. 772 del 1972 deriva dal fatto che la clausola di esonero prevista nel terzo comma del ricordato art. 8 costituisce una sorta di clausola di garanzia della proporzionalità della pena, nel senso che, in mancanza della stessa, di fronte alla manifestazione di un rifiuto totale del servizio di leva, la sanzione penale, pur se determinata nella stessa misura edittale stabilita per il reato di cui all’art. 8, è destinata ad applicazioni reiterate fino all’esaurimento del correlativo obbligo di leva. Nelle precise parole usate da questa Corte nella già citata sentenza n. 409 del 1989, “l’esonero in discussione – conseguenza di una libera, discrezionale scelta del legislatore – non appare violare la Carta fondamentale (…), né è irrazionale: non essendo ipotizzabili altre sanzioni adeguate al caso particolarissimo in discussione, il legislatore ritiene d’interrompere la spirale delle “condanne a catena”, nella presunzione che, ormai, anche la sanzione penale non può raggiungere gli effetti rieducativi di cui all’art. 27, comma terzo, della Costituzione”.

6.- Nel dictum di questa Corte appena citato è contenuta la ratio decidendi applicabile anche al presente giudizio.

La possibilità reale della c.d. spirale delle condanne in relazione ai reati di rifiuto totale di prestazione del servizio militare diversi da quello disciplinato dall’art. 8 della legge n. 772 del 1972 – conseguente alla mancanza di una clausola di esonero dall’obbligo di leva a pena espiata – è la manifestazione della palese irragionevolezza del bilanciamento operato dal legislatore, in sede di trattamento sanzionatorio di quei reati, tra il valore costituzionale del dovere di prestare il servizio militare (art. 52 della Costituzione) e quello della libertà personale (art. 13 della Costituzione).

L’incriminazione del rifiuto totale di adempiere l’obbligo di leva, se deve condurre a un sacrificio della libertà personale, non può tuttavia estendere questo sacrificio sino al punto da sottoporre colui che abbia commesso i relativi reati “a una serie di condanne penali così lunga e pesante da poterne distruggere la sua intima personalità umana e la speranza di una vita normale” (v. sent. n. 467 del 1991). La palese sproporzione del sacrificio della libertà personale che così si realizza produce, infatti, una vanificazione del fine rieducativo della pena prescritto dall’art. 27, terzo comma, della Costituzione, che di quella libertà costituisce una garanzia istituzionale in relazione allo stato di detenzione.

Sulla base di tali motivi, questa Corte dichiara l’illegittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, dell’art. 8, terzo comma, della legge n. 772 del 1972, in connessione con l’art. 148 c.p.m.p., nella parte in cui non prevede l’esonero dalla prestazione del servizio militare di leva in favore di coloro che, avendo rifiutato totalmente in tempo di pace la prestazione del servizio stesso dopo aver addotto motivi diversi da quelli indicati nell’art. 1 della legge n. 772 del 1972 o senza aver addotto motivo alcuno, abbiano espiato per quel comportamento la pena della reclusione in misura quantomeno non inferiore complessivamente alla durata del servizio militare di leva.

Nell’adottare tale pronunzia di accoglimento questa Corte rinnova il pressante invito al legislatore in ordine a un urgente intervento razionalizzatore sull’insieme delle pene relative ai vari reati militari connessi al rifiuto di prestare il servizio di leva (v. già sent. n. 467 del 1991). Tale intervento, che dovrebbe provvedere al necessario riproporzionamento delle pene concernenti i reati appena ricordati, assume ora i caratteri dell’improrogabilità, in ragione delle conseguenze che il principio di diritto affermato nella presente pronuncia può produrre su future decisioni.

Restano assorbiti gli ulteriori profili di legittimità costituzionale sollevati dal giudice rimettente.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

– dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, terzo comma, della legge 15 dicembre 1972, n. 772 (Norme per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza), in connessione con l’art. 148 c.p.m.p., nella parte in cui non prevede l’esonero dalla prestazione del servizio militare di leva a favore di coloro che, avendo rifiutato totalmente in tempo di pace la prestazione del servizio stesso dopo aver addotto motivi diversi da quelli indicati nell’art. 1 della legge n. 772 del 1972 o senza aver addotto motivo alcuno, abbiano espiato per quel comportamento la pena della reclusione in misura complessivamente non inferiore a quella del servizio militare di leva;

– dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, terzo comma, della legge 15 dicembre 1972, n. 772, in connessione con l’art. 151 c.p.m.p., sollevata in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 25, 27, terzo comma, e 52 della Costituzione dal Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale militare di Roma, con l’ordinanza di cui in epigrafe.