Corte di Cassazione Sezione II penale Sentenza 20 febbraio 1967: “Vilipendio della religione dello Stato e libera manifestazione del pensiero”
(Omissis)
Il Tribunale di Roma, con sentenza 4 febbraio 1963, dichiarava non doversi procedere a carico di G.G. ministro di culto della Chiesa di Cristo in Civitavecchia in ordine ai reati di vilipendio continuato alla religione dello Stato (artt. 81 e 402 del codice penale) e di offesa continuata alla religione dello Stato mediante vilipendio dei ministri del culto cattolico (artt. 81 e 403 del codice penale) essendo entrambi i suddetti reati estinti in virtù del Decreto Presidenziale di amnistia del 24 gennaio 1963 n. 5.
Riteneva preliminarmente il suddetto Tribunale di dover dichiarare manifestamente infondata l'eccezione di illegittimità costituzionale degli articoli 402 e 403 predetti rilevando che la tutela penale, certamente più intensa rispetto al codice del 1889, è in rapporto alla posizione di preminenza riconosciuta alla religione cattolica di fronte alle altre confessioni religiose e non contrastava con gli articoli 7, 8 e 19 della Costituzione richiamandosi il primo dei detti articoli ai Patti lateranensi come fonte regolatrice dei rapporti tra Stato e Chiesa, regolando il secondo i rapporti tra Stato e confessioni diverse dalla cattolica e non potendo ricavarsi dalla terza delle citate disposizioni l'affermazione di un regime di parità delle diverse confessioni religiose di fronte alla cattolica, ricavandosi invece dalla stessa normativa costituzionale che la religione cattolica è una vera e propria istituzione costituzionale dello Stato indipendentemente, quanto alla tutela, dalle sue manifestazioni esteriori. Riteneva poi il Tribunale che nella specie sussistevano gli estremi obiettivi psicologici dei contestati reati, sì dà escludere l'applicabilità dell'articolo 152 del codice penale.
Premesso che per vilipendio occorre intendere l'offesa grossolana e volgare che assuma il carattere della derisione, del dileggio, del disprezzo e che credenze fondamentali della religione sono l'idea di Dio, i dogmi della Chiesa, i suoi sacramenti, i suoi riti, i giudici di merito ravvisano gli estremi del vilipendio alla religione dello Stato, con esclusione di qualsiasi intento di critica o discussione e con affermazioni di disprezzo non sorrette da motivazione alcuna, nelle seguenti espressioni contenute nei manifesti affissi per le strade di Civitavecchia: 1) “non è vero che la Chiesa cattolica fu stabilita da Cristo e che i dogmi, inventati dei preti, siano voluti da Cristo”; 2) “la Chiesa cattolica insegna il contrario di quanto fu detto da Gesù (un culto fatto secondo i precetti, la legge di Dio la verità si trova solo nel Vangelo, da Pietro, bisogna ubbidire a Dio e non agli uomini, Cristo e nessun altro è il capo della Chiesa – da Giovanni- chi non segue il Vangelo non segue Dio, Cristo è il solo e unico avvocato il solo e unico mediatore il solo e unico intercessore presso Dio e gli uomini – non altro – da Paolo – Dio non abita in templi fatti. Non vi fate ingannare dai falsi insegnanti”); 3) “il cattolicesimo ha tradito il cristianesimo”. Erano da ravvisarsi inoltre gli estremi dell'offesa alla religione dello Stato mediante vilipendio dei ministri del culto cattolico nell'altra espressione: “i dogmi cattolici sono invenzioni dei preti”.
Avverso suddetta decisione proponeva ricorso per Cassazione l'imputato che denunziava la violazione dell'articolo 152 del codice di procedura penale perché doveva essere assolto da entrambe le imputazioni, mancando nella specie l'idea del vilipendio e vertendosi invece in tema di polemica, critica e propaganda religiosa del tutto lecita.
Osserva la Corte suprema che non sussistono nella specie le condizioni di applicabilità dell'articolo 152 del codice di procedura penale.
L'inapplicabilità alla specie degli articoli 402 e 403 del codice penale richiede la precisazione della condotta tipica del vilipendio. E questa indagine non può certamente limitarsi alla indicazione esemplificativa dei tipi astratti di condotta cui possono riconoscersi gli estremi del vilipendio, ma deve convergere su quello che è il valore ed il significato sociale della norma nel più ampio quadro degli scopi della tutela penale e nella sfera propria dell'esercizio del diritto.
I. In tale direttiva è necessario ricordare che il codice vigente, nel capitolo IV concernente i delitti contro il sentimento religioso e la pietà dei defunti, ha accolto una concezione del tutto opposta a quella cui si ispirava il codice del 1889, per il quale oggetto della tutela era la libertà del singolo nel campo delle credenze e della pratica religiosa e non la religione in sé stessa considerata, come valore insopprimibile della vita individuale e sociale. La tutela del sentimento religioso non è rivolta soltanto a quelle che sono le manifestazioni esteriori, ma anche a ciò che è l’origine, il fondamento stesso della fede.
La Costituzione, attraverso l'esplicita ricezione dei Patti lateranensi (art. 7), ha assicurato un trattamento particolare alla religione cattolica di fronte alle altre confessioni alle quali è, peraltro, riconosciuto, dal successivo articolo 8, il diritto di libertà religiosa garantito dall'articolo 19 della Costituzione.
Le formulazioni giuridiche esistenti, nelle quali si inserisce l'interpretazione della Corte costituzionale (30 novembre 1957, n. 125), si ispirano, appunto, alla più intensa tutela riconosciuta alla religione cattolica di fronte alle altre religioni e ciò in riferimento anche al dato obiettivo della grandissima maggioranza degli italiani che aderiscono alla tradizione e alla vitalità spirituale della Chiesa cattolica.
II. Occorre però subito avvertire che la posizione di preminenza che l'ordinamento giuridico e costituzionale italiano riconosce alla Chiesa cattolica non crea alcuna disparità di trattamento tra cittadini cattolici, da un lato e cittadini di diverse opposte concezioni, dall'altro e non può essere causa di limitazioni legislative. Ciò quando il problema si osserva sotto il profilo del diritto alla libera manifestazione del proprio pensiero il cui esercizio incontra soltanto il limite del buon costume e quello del rispetto dei diritti garantiti dalla Costituzione. Si tratta, in altri termini, di stabilire quando la libera professione della propria fede e la propaganda della stessa (art. 19) cessano di essere un diritto garantito dall'ordinamento.
Per il principio fondamentale che l'esercizio del diritto incontra il suo limite naturale nella violazione degli altri diritti tutelati dall'ordinamento, non può esservi più luogo a tutela penale allorché, per il modo e la forma con cui il diritto si esplica, si travalica nell'abuso. Si è certamente fuori della sfera dell'articolo 19 della Costituzione allorché la manifestazione del proprio pensiero, pur esplicandosi apparentemente attraverso mezzi leciti, attinge nel suo contenuto al vilipendio.
III. Di troppo facile intuizione è l'affermare che dove comincia il vilipendio cessa di esservi libera e lecita manifestazione del proprio pensiero. Distinguere tra critica, discussione sia pure aspra e veemente e l'espressione di disprezzo costitutiva di vilipendio è necessario, ma non sufficiente ad eliminare quella che deve essere una più specifica definizione giurisprudenziale del reato di vilipendio alla religione cattolica (art. 402 del codice penale).
Il codice non definisce il vilipendio. Trattasi di espressione genericamente usata in molteplici disposizioni e non è possibile darne una nozione unitaria. Il carattere dell'azione va posta in relazione obiettiva e subbiettiva con quello che è lo scopo specifico della tutela. Quasi sempre il vilipendio è destinato a comprendere atti che possono, se presi isolatamente, costituire ingiuria o diffamazione. Però esso ha una propria autonomia strutturale perché è destinato riassumere, sotto il proprio schema, forme di attività come quelle di tenere a vile e disprezzare talune istituzioni o idee tutelate dalle varie norme. E va subito osservato che l'esercizio del diritto di critica è causa di esclusione dell'antigiuridicità quando sia contenuto nei limiti di una censura, di una polemica, di un dibattito ideologico, anche se si è usato un linguaggio vivace e non già quando additi sostanzialmente allo scherno e al disprezzo l'istituzione tutelata.
IV. Una definizione di vilipendio nell'ambito dell'articolo 402 del codice penale, pur soddisfacendo alle citate esigenze, non potrebbe prescindere dai caratteri particolari propri della manifestazione libera delle idee in materia religiosa, rendendo più intenso e pregnante il richiamo alle fondamentali note del modo e nelle forme dell'esercizio del diritto.
La discussione in materia religiosa può investire sia le credenze fondamentali, le verità rivelate, i dogmi, sia le manifestazioni esterne del culto; la polemica e il dibattito in questo campo sono permesse. Ma avuto riguardo anche alla particolare posizione riconosciuta alla Chiesa cattolica non si può prescindere dal modo come esse vengono poste in essere. Non può che essere riconosciuta piena liceità a quelle manifestazioni che si svolgono nell'ambito della sede del culto, che è il luogo normale ove si possono trattare tali problemi. Ne va pretermesso l'ambiente culturale ove la discussione si svolge, per cui certi apprezzamenti, valevoli in un determinato settore e opinione pubblica, non potrebbero essere consentiti in altri. Indubbiamente rientra nell'esplicazione del diritto di manifestare le proprie idee in materia religiosa la pubblicazione di libri che affrontino sul piano teorico o pratico il fondamento teologico di certe idee anche fondamentali della religione cattolica. Ne deriva una definizione di vilipendio alla religione che tiene conto dei limiti intrinseci imposti dall'articolo 19 della Costituzione. Per cui può essere ritenuto vilipendio alla religione dello Stato quell'atteggiamento che, lungi dal costituire esplicazione di un diritto di critica o di libera discussione per il modo e la forma con cui si estrinseca, si traduce in un atteggiamento di sostanziale disprezzo verso la religione cattolica.
Tale è il giudizio irriguardoso, immotivato con cui si disconoscono all'istituzione religiosa quelle ragioni di validità sostanziale ad essa attribuite dalla comunità dei credenti. Risulta con ciò stesso infondato il far dipendere la sussistenza del vilipendio dalle caratteristiche dell'espressione (volgarità, grossolanità, turpitudine dei termini), essendo sufficiente che il fatto si risolva in una manifestazione sostanzialmente dispregiativa dei valori etico-spirituali cui gli appartenenti del gruppo associato si mantengono fedeli. Costituisce quindi vilipendio l'affermare che i dogmi sono invenzioni dei preti, che la Chiesa cattolica insegni il contrario di quanto voluto da Gesù, perché tale giudizio di valore, espresso unilateralmente e senza consentire il dibattito con l'avversario, si traduce in apprezzamento dispregiativo della religione cattolica.
V. Né può dirsi che, esplicandosi il diritto di cui all'articolo 19 della Costituzione, oltre che attraverso la discussione anche con la propaganda, quei limiti e quelle forme che possono essere richieste, ovviamente per la stessa natura della materia trattata, non vadano richiesti allorché si tratti di semplice propaganda. E questa tesi si avvale del rilievo che la propaganda esula da un esame critico delle altrui idee e si sostanzia nella diffusione e comunicazione di idee contrarie a quelle professate dagli altri, allo scopo precipuo di modificare l'opinione e il comportamento della collettività. In quanto tale, la propaganda si attua proprio attraverso enunciazioni e slogan necessariamente immotivati e forse perciò più incisivi ed efficaci per la semplificazione dei concetti che colpiscono meglio la massa dei consociati.
Ma è necessario in base ai detti presupposti che si tratti di vera e propria propaganda da porre in essere con incisive affermazioni anche se apologetiche senza che si pongano i presupposti di una discussione che non può essere proseguita per la mancanza dell'avversario e quindi del dibattito. Nella specie invece le frasi che negavano l'esistenza di verità fondamentali per i credenti volevano avere una certa motivazione che si esaurivano, appunto, in un inizio di dibattito.
VI. Ma lo stesso uso della propaganda in democrazia è un problema di limiti e di misura.
Difatti l'opinione pubblica è un elemento composto di stati d'animo, valutazioni etiche, atteggiamenti sviluppatisi spontaneamente e lealmente che non possono essere turbati da un uso indiscriminato della propaganda. Quanto alla propaganda religiosa essa, oltre ad ottemperare le condizioni di lealtà e onestà, conforme al sistema democratico, incontra limiti nella sua esplicazione allorché per i modi subdoli, le forme sleali con cui viene attuata si sottrae alle regole fondamentali del rispetto dei diritti altrui e del formarsi di una libera e non artificiosa opinione pubblica in materia religiosa.
È certamente da comprendere nell'uso ordinato del diritto di propaganda la facoltà di diffondere il proprio credo religioso, esaltando la bontà, la fondatezza, la conformità a determinati principi; ma quando dalla diffusione delle proprie idee si passa alla svalutazione e all'attacco delle idee professate da altra fede religiosa, dal terreno della propaganda si passa in quello del dibattito, della discussione per il cui uso ordinato non possono prevalere le limitazioni dianzi enunciate. Quanto alla seconda imputazione, visibile è l'applicabilità alla specie dell'articolo 403 del codice penale perché con l'affermare che i dogmi sono invenzioni dei preti si attribuisce al sacerdote cattolico un'attività dispregiativa e a contenuto chiaramente offensivo delle stesse credenze religiose professate dalla Chiesa cattolica.
(Omissis)