Repubblica Italiana
Tribunale Ordinario di Modena
In Nome del Popolo Italiano
ha pronunciato la seguente
nella causa n. 40322/2012 tra le parti:
ATTORE
X (C.F.: ***)
Y (C.F.: ***)
– Difesa: Avv. SENTIMENTI MAURO
– Domicilio: Via Mazzini n.319 41049 Sassuolo presso lo studio dell’Avv. Mauro Sentimenti
CONVENUTO
Z (C.F.: ***)
– Difesa: Avv. CAZZELLA VITTORIO
– Domicilio: VIA SCAGLIA EST N.15 41100 MODENA presso lo studio dell’Avv. Vittorio Cazzella
Decisa a Modena in data 20/12/2016 sulle seguenti conclusioni:
Attori: «voglia il Tribunale adito, con o senza il previo accertamento della commissione del reato di diffamazione semplice , ex art. 595, commi 1 e 2 , c.p. , da parte del Sig. Z ai danni di parti attrici e, quindi: a) dichiarare che il crocefisso di cui alla falsa notizia apparsa sulla Gazzetta di Modena, il giorno 14 aprile 2008, non era presente nell’aula del seggio elettorale n.3 del Comune di Sassuolo i giorni 12 , 13 e 14 aprile 2008; b) dichiarare che il convenuto in via esclusiva è responsabile della falsa comunicazione di cui alla Relazione di Servizio richiamata in narrativa, relativa alla presunta rimozione , da parte degli attori, di un crocefisso dall’aula del seggio elettorale n.3 e di cui sopra; c) di conseguenza condannare ex artt.2043 e 2059 c.c. il convenuto a pagare la somma di € 20 mila (ventimila /00) alla Sig.ra X e la somma di € 10 mila (diecimila /00) al Sig. Y , ovvero quelle maggiori o minori ritenute di giustizia, a titolo di risarcimento dei danni morali ed all’immagine tutti patiti da ciascuno degli attori»
Convenuto: v. udienza 8 giugno 2016
Ragioni di fatto e di diritto della decisione
X e Y allegano che Z in data 13 aprile 2008 avrebbe riferito ai Carabinieri di Carpi presso il seggio elettorale dell’Istituto Tecnico Commerciale «Baggi» la notizia falsa per cui X, in qualità di scrutatrice, avrebbe chiesto e ottenuto dal figlio Y, in qualità di presidente del seggio, la rimozione di un crocefisso ubicato nell’aula del seggio n. 3 in cui si stavano svolgendo le operazioni elettorali. La notizia sarebbe falsa perché nessun crocefisso vi sarebbe mai stato nell’aula in questione.
Da tale fatto, sarebbero discese per gli attori conseguenze lesive della loro reputazione e della salute.
Pertanto, X e Y chiedono che Z sia condannato al risarcimento del danno quantificato in euro 42.000,00 per X e 10.000,00 per Y.
Z si difende allegando di aver solo chiesto, in qualità di rappresentante di lista della Lega Nord, le ragioni per cui nell’aula del seggio n. 3 non fosse presente il crocefisso che invece era presente in tutte le altre aule. Allega i danni derivanti dalle querele presentate dagli attori.
Pertanto, Z chiede il rigetto della domanda e in via riconvenzionale che X e Y siano condannati al risarcimento del danno.
La domanda degli attori è infondata.
Il doc. 3 parte attrice fa fede, fino a querela di falso, in ordine alla circostanza per cui Z, in quella data e in quel luogo, riferì agli agenti operatori che «uno scrutatore del seggio nr. 3, di cui lo stesso Z era rappresentante di lista, aveva chiesto al presidente del predetto seggio la rimozione del crocefisso ubicato in detta aula. La scrutatrice, sig.ra X , asseriva di essere atea e per tale motivo ne chiedeva la rimozione, che il presidente del seggio, sig. Y …acconsentiva».
Gli agenti operatori, sentiti durante l’istruttoria, hanno confermato che quanto verbalizzato fu riferito da Z, «unico soggetto sentito», con ciò destituendo di fondamento l’ipotesi che la frase relativa a X e Y fosse stata da loro pronunciata davanti ai verbalizzanti e non invece riferita da Z.
I testi Andrea Aguzzoli e Carmelo Gullo hanno confermato quanto dichiarato nel doc. 4 parte attrice, cioè che nessun crocefisso era presente (e, dunque, poteva rimuoversi) nell’aula in questione al momento della costituzione del seggio n. 3.
Pertanto, può ritenersi che Z abbia riferito agli agenti verbalizzanti una circostanza non vera, suscettibile di divulgazione per il suo rilievo (lato sensu) di interesse pubblico, tanto è vero che poi è stata oggetto di un articolo della Gazzetta di Modena.
Secondo la prospettazione degli attori, X avrebbe subito un discredito in quanto «togliere da un luogo pubblico un oggetto simbolicamente importante come il crocefisso, in maniera arbitraria e senza altre motivazioni che non fossero le proprie opinioni culturali» sarebbe una scelta offensiva di «diffuse sensibilità religiose».
Y, invece, sarebbe stato diffamato «perché autore di una scelta che possiede, in ogni caso, quella valenza sopra richiamata (nell’ambiente di lavoro è stato per diverse settimane oggetto di scherno e di battute offensive)». Si premette fin da ora che il fatto che, in un articolo di giornale, Y, secondo gli attori, sia stato «implicitamente ed esplicitamente dipinto…come un semplice burattino nelle mani della madre, incapace di esercitare con equilibrio le delicate funzioni che gravano su ogni pubblico ufficiale in quelle circostanze», non è addebitabile, proprio sulla base di quanto riferito dagli attori, a Z, che non ha redatto alcun articolo, ma ne ha solo generato le premesse, senza poter avere alcun controllo sulle modalità di redazione.
Il Tribunale non ha motivo di dubitare che X e Y abbiano subito effetti negativi dal fatto addebitato a Z. Infatti, è verosimile che il gesto da loro non compiuto possa urtare la sensibilità di una fascia molto ampia, e forse prevalente, di popolazione, diffusa in modo più o meno uniforme in tutto il territorio nazionale e, dunque, è verosimile che nell’ambito delle frequentazioni degli attori si sia verificato un fenomeno di sgradevole deterioramento dei rapporti sociali da loro intrattenuti.
Il Tribunale ritiene, tuttavia, che se, in via generale, dal verificarsi di conseguenze dannose non possa trarsi automaticamente l’illiceità del fatto che le ha generate, nel caso specifico, dal verificarsi di conseguenze lesive dell’onore non possa trarsi automaticamente l’attitudine offensiva del fatto che le ha prodotte.
Per valutare se l’attribuzione a terzi di aver rimosso un crocefisso da un seggio elettorale abbia o meno un’attitudine offensiva deve essere condotta un’analisi sul significato di tale gesto.
Sul punto, può essere utile richiamare Cassazione Penale n. 50659/2016 che, in relazione all’utilizzo del termine «omosessuale» per qualificare una persona che omosessuale non è, ha affermato che debba escludersi «che il termine «omosessuale» utilizzato dall’imputato abbia conservato nel presente contesto storico un significato intrinsecamente offensivo come, forse, poteva ritenersi in un passato nemmeno tanto remoto. A differenza di altri appellativi che veicolano il medesimo concetto con chiaro intento denigratorio secondo i canoni del linguaggio corrente, il termine in questione assume infatti un carattere di per sé neutro, limitandosi ad attribuire una qualità personale al soggetto evocato ed è in tal senso entrato nell’uso comune… è da escludere altresì che la mera attribuzione della suddetta qualità – attinente alle preferenze sessuali dell’individuo – abbia di per sé un carattere lesivo della reputazione del soggetto passivo e ciò tenendo conto dell’evoluzione della percezione della circostanza da parte della collettività, quale che sia la concezione dell’interesse tutelato che si ritenga di accogliere».
Sotto questo profilo, l’eventuale intento denigratorio del soggetto attivo/danneggiante non è in grado di contaminare il significato neutro (o, comunque, di per sé non denigratorio) di una certa qualità o di una certa azione, dal momento che «l’inconferenza…della precisazione circa il presunto orientamento sessuale del querelante non è di per sé in grado di rendere tipica l’offesa, anche nel caso, come quello di specie, in cui il soggetto passivo rivendica la propria eterosessualità».
La Cassazione, per la verità, esclude l’illiceità già sul piano obiettivo (si potrebbe dire – in ambito di responsabilità civile – sul piano della ricostruzione della fattispecie lesiva, quali che siano le conseguenze del fatto concreto nella sfera degli interessi degli ipotetici danneggiati) agganciando la valutazione del significato della qualità attribuita alla percezione della medesima da parte della collettività nel presente contesto storico.
Quale che sia l’opinione che ciascuno può formarsi sul se il termine «omosessuale» sia o meno percepito in termini neutri e/o non offensivi nella collettività che vive e opera nel nostro ordinamento (o comunque, nella parte maggiore di questa collettività), nel caso di specie, il Tribunale ritiene che affermare o escludere in radice che l’azione di rimuovere il crocefisso da un seggio elettorale sia percepita dalla collettività in termini squalificanti per chi la compie equivalga forse a una petizione di principio, dal momento che si tratta di un dato sostanzialmente indimostrabile.
D’altra parte, anche se ci fossero argomenti persuasivi per poterlo escludere, tratti da un analisi a sfondo inevitabilmente sociologico, essi non potrebbero spingersi a escludere anche l’esistenza, senz’altro verosimile, di comunità più ristrette in cui il vedersi attribuiti (falsamente) tale azione implica la compromissione delle dinamiche relazionali di un individuo previa rappresentazione che il medesimo ha dell’opinione, alterata dalla notizia falsa, che «gli altri», cioè la comunità, hanno di lui stesso.
Ad avviso del Tribunale, se è senz’altro corretto non inferire il significato offensivo di un’azione attribuita dal puro e semplice prodursi, in concreto, di conseguenze negative sul piano dell’onore a causa di questa attribuzione (non rispondente al vero), la valutazione di tale significato, necessaria ai fini dell’accertamento della sussistenza della fattispecie di qualsiasi illecito, debba compiersi su un piano non sociologico ma giuridico, alla luce dei principi costituzionali.
Il punto centrale è dunque costituito dal significato che l’azione attribuita a X e Y da Z assume secondo la Costituzione, sulla base di un’analisi che tenga conto delle direttrici interpretative dalla medesima ricavabili per dirimere il conflitto tra individuo cui venga attribuita (sia pure falsamente) tale azione e formazioni sociali in cui il medesimo si inscrive.
Sotto questo aspetto, occorre muovere dalla valutazione di Corte di Cassazione Penale, sentenza n. 439/2000, nel caso in cui «il ricorrente ha rifiutato di «svolgere la funzione di scrutatore» … e cioè l’inserzione come pubblico ufficiale in una amministrazione, che, non provvedendo «affinché venga rimosso qualsiasi simbolo o immagine religiosa da tutti i seggi elettorali», non garantisce, contro il suo convincimento, «il rispetto della irrinunciabile libertà di coscienza garantita dalla Costituzione a ciascun cittadino» e del «supremo principio costituzionale della laicità dello Stato».
Nel caso assunto come metro di raffronto non vi era stata la materiale rimozione del simbolo religioso, ma il rifiuto di svolgere la funzione di scrutatore in ragione della presenza del simbolo religioso nel seggio, e la fattispecie delittuosa in esame non era, come è ovvio, la diffamazione; tuttavia, il ragionamento svolto dai giudici di legittimità ben si presta a qualificare, dal punto di vista dei valori costituzionali in gioco, la condotta che in questa sede si assume come presupposto di una fattispecie di diffamazione, tanto è vero che, scrive la Corte, «la rimozione del simbolo religioso del crocifisso da ogni seggio elettorale, che è la condizione a cui l’odierno ricorrente aveva subordinato l’espletamento della funzione di scrutatore = pubblico ufficiale imparziale, si muove lungo questo solco tracciato dalla giurisprudenza costituzionale in termini di laicità e pluralismo, reciprocamente implicantisi».
Come è noto, la Corte di Cassazione è giunta ad affermare che «costituisce, pertanto, giustificato motivo di rifiuto dell’ufficio di presidente, scrutatore o segretario – ove non sia stato l’agente a domandare di essere ad esso designato – la manifestazione della libertà di coscienza, il cui esercizio determini un conflitto tra la personale adesione al principio supremo di laicità dello Stato e l’adempimento dell’incarico a causa dell’organizzazione elettorale in relazione alla presenza nella dotazione obbligatoria di arredi dei locali destinati a seggi elettorali, pur se casualmente non di quello di specifica designazione, del crocifisso o di altre immagini religiose».
Per quel che qui interessa, l’attenzione deve essere rivolta a ciò che, in un caso, ha originato il rifiuto di svolgere l’ufficio, e, in un altro, avrebbe originato (anche se così non è stato) la materiale rimozione del simbolo religioso, cioè l’affiorare nella coscienza individuale di un conflitto tra l’esposizione del simbolo religioso e il contenuto dell’ufficio, che, secondo la Corte di Cassazione, si connota sia in termini di laicità, sia in termini di imparzialità ai sensi dell’art. 97 Cost : «in particolare, l’imparzialità della funzione di pubblico ufficiale è strettamente correlata alla neutralità (altro aspetto della laicità, evocato sempre in materia religiosa da corte cost. 15/7/1997, n. 235) dei luoghi deputati alla formazione del processo decisionale nelle competizioni elettorali, che non sopporta esclusivismi e condizionamenti sia pure indirettamente indotti dal carattere evocativo, cioè rappresentativo del contenuto di fede, che ogni immagine religiosa simboleggia».
D’altra parte, ciò di cui gli attori si dolgono non è tanto l’essere stati tacciati di ateismo, ma l’essere stati tacciati di aver tolto «da un luogo pubblico un oggetto simbolicamente importante come il crocefisso, in maniera arbitraria e senza altre motivazioni che non fossero le proprie opinioni culturali».
Ad avviso del Tribunale, in materia di libertà di coscienza, per discernere ciò che arbitrario da ciò che non lo è occorre appunto valutare se le «opinioni culturali» esprimano o meno un’istanza di tutela di un principio costituzionale rilevante, tanto è vero che la Cassazione Penale ha escluso la ricorrenza di un reato di estrema gravità per chi ricopre un ruolo pubblico sulla base del giustificato motivo di astensione costituito dall’avanzare, proprio per il tramite di una «opinione culturale», un’istanza di tutela di un principio supremo dell’ordinamento.
Né, dal tenore complessivo dell’atto di citazione, emerge una doglianza relativa all’omessa precisazione, da parte di Z, del fatto che gli attori avrebbero agito facendo propria tale istanza di tutela, dal momento che il discredito pare collegato al turbamento che la notizia della rimozione del crocefisso avrebbe generato nelle «diffuse sensibilità religiose» e non alla mancata percezione, da parte della collettività, delle ipotetiche istanze e motivazioni che tale comportamento, se tenuto, avrebbe potuto sottendere (come dimostra la vicenda decisa dalla Cassazione nel 2000).
Al contrario, dalla prospettazione di X e Y sembra trapelare che il problema sia consistito non nella percezione altrui del fatto non vero di aver rimosso un crocefisso per «opinioni culturali» non meglio specificate (cioè, immotivatamente), ma dalla percezione altrui del fatto non vero di aver rimosso un crocefisso proprio per «quelle» opinioni culturali che possono giustificare un’azione di questo tipo da parte di chi si trovi a svolgere la funzione di scrutatore o presidente di seggio (cioè, motivatamente).
Non rileva, infine, il profilo della legittimità o meno della materiale rimozione dell’arredo (cioè dell’esistenza o meno di una facoltà di rimozione da parte dello scrutatore o del presidente del seggio), dal momento che il discredito di cui gli attori si dolgono non è legato al fatto che la comunità sociale in cui sono inseriti avrebbe percepito erroneamente una loro condotta antigiuridica o, comunque «non iure», bensì al fatto che la comunità sociale in cui sono inseriti avrebbe percepito erroneamente una loro condotta (giuridica o antigiuridica sul piano materiale della rimozione, poco importa) lesiva di «diffuse sensibilità religiose».
Assodato dunque che l’indagine deve essere circoscritta all’esistenza o meno dell’attitudine offensiva dell’attribuzione a X e Y dell’azione di aver rimosso il crocefisso per (e non in assenza di) «opinioni culturali», non resta che valutare tali «opinioni culturali» attraverso la lente del significato di tale azione alla luce dei principi costituzionali: sotto questo profilo, il Tribunale condivide quanto affermato dalla Corte di Cassazione penale secondo cui «ogni violazione del principio di laicità nel modo indicato in qualsivoglia seggio elettorale costituito non può non essere avvertita da una coscienza informata a quel principio» e, pertanto, non può che attribuire al gesto della rimozione (o, meglio, al moto di coscienza che ne costituisce il presupposto sulla base di ciò che normalmente accade) il significato di una (ri)affermazione del principio di laicità, anche se, in ipotesi, con modalità non del tutto congrue nel rapporto mezzi/fini (ma, come si è detto, non è questo il profilo di cui gli attori si dolgono).
Se cosi è, nessuna attitudine offensiva può avere l’attribuzione, sia pure falsa, di una condotta che esprime una così alta istanza di tutela, volta, secondo la Corte di Cassazione, ad affermare «il pluralismo garantito dal supremo principio di laicità dello stato, che induce a preservare lo spazio «pubblico» della formazione e della decisione dalla presenza, e quindi dal messaggio sia pure a livello subliminale, di immagini simboliche di una sola religione (come, in generale, di una sola delle altre condizioni non discriminabili, di cui all’art. 3 Cost.), ad esclusione delle altre».
Il Tribunale è consapevole che la Grande Chambre CEDU, con sentenza 18 marzo 2011 (ricorso n. 30814/06), ha ritenuto che il mantenimento del crocefisso negli arredi delle aule scolastiche rientri nel margine di discrezionalità di ciascuno Stato contraente nell’amministrare il servizio scolastico ed educativo, purché non sia accompagnato da insegnamenti obbligatori del cristianesimo o da forme di intolleranza verso gli alunni appartenenti ad altre religioni. Ciò è stato argomentato sul presupposto per cui la presenza del crocefisso, «quale situazione essenzialmente passiva», non sarebbe idonea a influenzare la formazione degli alunni.
Tale impianto argomentativo, tuttavia, pare calibrato sulle peculiarità del caso specifico, in cui confliggevano, da un lato, la discrezionalità dello Stato nel «perpetuare una tradizione» nell’ambito dell’amministrazione del servizio scolastico e, dall’altro, il diritto dei genitori di assicurare l’educazione e l’insegnamento secondo le loro convinzioni religiose e filosofiche. Nulla autorizza, ad avviso del Tribunale, ad estenderlo per dirimere altre ipotesi di conflitto, per esempio nell’ambito dell’espletamento del servizio elettorale, non foss’altro per il fatto che è ben possibile che gli elettori siano chiamati a scegliere tra schieramenti politici che si ispirano al significato religioso del simbolo della croce e schieramenti che a tale significato non si ispirano.
Premesso che anche la Grande Chambre ha escluso la valenza soltanto «laica» del crocefisso, pure talora sostenuta, pare evidente l’effetto discriminatorio per l’elettore che intenda esprimere una preferenza per lo schieramento non ispirato al significato religioso del simbolo nel momento in cui egli si trovi a esercitare il suo diritto di voto in uno spazio fisico (specificamente deputato a tale esercizio) contraddistinto dalla presenza del simbolo che ispira lo schieramento politico da lui non prescelto.
Anche ammettendo, peraltro, che il crocefisso sia, oggi, un simbolo «inclusivo» in massimo grado, in modo tale da neutralizzare ogni possibile componente «discriminatoria», dovrebbe però concludersi che proprio l’estrema disponibilità al sacrificio di ogni pretesa identitaria che implicitamente gli si accorda evocando la grazia, la gentilezza, il sacrificio, porta con sé la rinuncia a presidiare uno spazio in cui si esplica l’esercizio di una libertà costituzionale che appartiene a tutti. Viceversa, l’idea, giustificata anche solo dall’amore per la tradizione, per cui il simbolo religioso debba rimanere affisso alle pareti anche durante le operazioni di voto, lascia intravedere la necessità, pure comprensibile, di un radicamento identitario (cui non può che rimandare una funzione «distintiva» del crocefisso) che, per forza di cose, esclude chi in tale identità non voglia o non possa riconoscersi.
Si potrebbe obiettare che il discorso fin qui svolto sia poco pertinente con l’oggetto del presente giudizio, in cui si è chiamati a valutare, a fini risarcitori, la sussistenza della violazione del diritto individuale fondamentale alla reputazione, che si apprezza sulla base dello schema formale danneggiante-danneggiato-contesto sociale di riferimento, rimanendo ai margini ogni indagine relativa ai contenuti sostanziali della condotta comunicativa che determina la lesione (cioè, mediatamente, della qualità personale o all’azione falsamente attribuita).
Per altro verso, è indubbio che il nostro Ordinamento è ispirato al pluralismo e che il pluralismo è tale se e nella misura in cui ogni opinione, purché non di per sé illecita, possa fondare la coesione dei gruppi sociali. Quindi, se la sensibilità religiosa cui alludono gli attori ha senz’altro anch’essa un fondamento costituzionale, sia a livello individuale sia come elemento di coesione di un gruppo sociale, per quale motivo non dovrebbe riconoscersi tutela risarcitoria a chi sia stato svalutato, in un gruppo sociale ispirato a tale sensibilità, perché gli è stata attribuita una condotta per essa ostile?
Ad avviso del Tribunale, per rispondere a tale domanda occorre interrogarsi sul se la tutela risarcitoria per diffamazione, che si ispira con ogni evidenza a un principio di tutela del singolo (della sua considerazione) nelle formazioni sociali, non rischi di pregiudicare, in modo sottile, la tutela del singolo dalle formazioni sociali.
Può sostenersi, infatti, che la tutela richiesta da chi si senta leso nella sua reputazione perché il gruppo sociale di riferimento ha percepito una condotta (in realtà non tenuta) contraria ai suoi principi ispiratori sia l’altra faccia della medaglia della tutela richiesta da chi abbia o meno compiuto tale condotta e subisca reazioni discriminatorie da parte del medesimo gruppo sociale.
Sotto questo profilo, occorre essere avvertiti che tanto più si estende la prima tutela, quanto più si rafforza, in via mediata, il principio ispiratore del gruppo sociale che potrebbe dar luogo a reazioni discriminatorie, incentivando le caratteristiche deteriori del pluralismo segnalate dalla dottrina pubblicistica, secondo cui, contrariamente alla sua stessa vocazione semantica, «pluralismo diventa pressoché generalmente diritto dei gruppi sociali, costruzione della loro identità e del loro ruolo istituzionale, subordinazione-assorbimento dell’individuo nel gruppo, legittimazione diretta del potere pubblico nel particolare sociale (e viceversa); il suo programma è sì quello di scomporre l’unità e la centralità del modello statocentrico, ma ciò avviene attraverso la moltiplicazione-proiezione della sua formula fondante dal tutto alle parti e dunque in tanto le parti assumono legittimità (teorica e giuridica) in quanto siano definite in termini omogenei al tutto in cui si inscrivono».
Nel caso di specie, ben si coglie come l’attribuzione di un’attitudine offensiva (necessaria per accordare una tutela risarcitoria) a una condotta direttamente o indirettamente espressiva di principi costituzionali supremi posti a presidio degli individui (non discriminazione, laicità, imparzialità nella pubblica amministrazione), per il sol fatto che in un gruppo sociale, pure ampio e in ipotesi maggioritario, essa obiettivamente determina una svalutazione per chi il suo autore, vero o presunto, si risolve in un’inversione logica «imposta alla formulazione dell’art. 2 Cost. dove le formazioni sociali, da sede di svolgimento della personalità individuale vengono elevate a soggetti autonomi di tutela, e quindi titolari di interessi diversi e superiori a quelli dei singoli», in un universo concettuale in cui, «logicamente, il tutto precede le parti, perché la sintesi non è il risultato variamente determinabile in seguito all’(imprevedibile) modo in cui possono comporsi le parti ma si qualifica in ordine a un criterio prestabilito in relazione al quale le parti stesse si ordinano, al quale si subordinano, dal quale, come spesso esattamente si sottolinea, traggono la loro stessa identità».
La peculiarità della condotta per cui è causa consente di porre l’accento sul dato per cui i principi sopra evocati (non discriminazione, laicità, imparzialità nella pubblica amministrazione) sono gli anticorpi che un sistema si dà per porre un freno alle sue, forse inevitabili, derive organicistiche e, dunque, autoritarie. Sarebbe davvero paradossale riconoscere attitudini offensive all’attribuzione, pure non vera, di una condotta che li evoca perché in un certo gruppo o formazione sociale si sono prodotti degli effetti che in concreto negano, anche loro malgrado, i principi grazie ai quali l’ordinamento s’informa alla tutela dei diritti individuali.
Al contrario, la valorizzazione di questi principi (e delle condotte che li esprimono) consentirebbe di far retrocedere gli stessi presupposti che originano la necessità di una tutela risarcitoria per diffamazione; infatti, in un ordinamento (pure scomposto in una pluralità di formazioni sociali) che si fonda sul rispetto delle opinioni altrui, specie se minoritarie, sul riconoscimento del valore della dissidenza, della marginalità, dell’eccentricità, purché nei limiti stabiliti dalla legge, sempre meno spazio avrebbero le ipotesi in cui la compromissione dell’immagine di sé sia filtrata dallo sguardo della formazione sociale in cui l’individuo è inscritto, perché ogni formazione sociale sarebbe in grado di accogliere (o di non reagire in modo discriminatorio rispetto a) ogni opinione, perfino se contraria al principio che ne determina la coesione, e dunque ogni azione che da tale opinione trae origine.
Sulla base di questi presupposti, è agevole comprendere che sarebbe ugualmente paradossale una condanna al risarcimento per diffamazione nell’ipotesi in cui qualcuno, falsamente, attribuisca a un terzo una condotta espressiva di una sensibilità religiosa (la quale a sua volta trova diretto riconoscimento in Costituzione, specie se intesa come anelito individuale), determinando la compromissione dei suoi rapporti personali nel contesto sociale in cui tale terzo si inscrive, reso coeso da un intransigente ateismo.
Altro tema è quello del diritto dell’individuo alla rappresentazione della propria personalità agli altri senza alterazioni e travisamenti, che può essere violato, in ipotesi, anche attraverso rappresentazioni non offensive (come appare quella del caso di specie), e rispetto al quale non vi è ragione di prendere posizione perché esula dalla causa petendi del presente giudizio (la prospettazione degli attori è tutta incentrata sulla diffamazione, cioè sul discredito, non sul puro e semplice – e immune da ogni giudizio di valore – fraintendimento).
Non essendo configurabile alcuna diffamazione, anche le altre voci di danno-conseguenza, peraltro genericamente allegate, non dovranno essere risarcite.
La domanda di Z è infondata.
Il convenuto ha allegato che «non vi sono dubbi circa la precisa volontà degli odierni attori di colpire e calunniare il deducente». Ad avviso del Tribunale, invece, non vi è dubbio del contrario, dal momento che è stato accertato che, mediante la condotta raffigurata nel verbale 13 aprile 2008, Z ha riferito agli agenti operatori una circostanza non vera e suscettibile di divulgazione. Quindi, al di là della qualificazione giuridica che la condotta di Z ha avuto in questa o in altre sedi, sulla base di valutazioni di cui non è possibile fare carico agli attori, non poteva esserci in X e Y alcuna certezza in ordine all’innocenza del predetto in relazione agli addebiti da loro formulati nei suoi confronti.
Le spese di lite sono integralmente compensate in ragione della soccombenza reciproca.
Il Tribunale di Modena, definitivamente pronunciando, così provvede:
1) rigetta le domande degli attori;
2) rigetta la domanda del convenuto;
3) spese di lite integralmente compensate.
Modena, 20/12/2016
Il giudice
Paolo Siracusano
Pubblicazione il 27/12/2016