Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 12 Gennaio 2010

Sentenza 19 giugno 2009, n.4058

Consiglio di Stato. Sentenza 19 giugno 2009, n. 4058: "IRC: accesso a sessione riservata di esami di abilitazione all'insegnamento".

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la seguente

DECISIONE

sul ricorso in appello n. 6047/04, proposto dai signori (…), tutti rappresentati e difesi dall’Avv. Giuseppe Nastasi e La Rocca Tavana Laura ed elettivamente domiciliati presso l’Avv. Mario Giannarini in Roma, via Gavorrano, 12 Scala B, int. 4;

contro

il Ministero della Pubblica Istruzione, in persona del Ministro p.t., costituitosi in giudizio, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato e presso gli uffici della medesima domiciliato ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per l'annullamento

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Roma, sez. III bis, n. 12337/03 in data 11.12.2003;

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Amministrazione appellata;

Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;

Visti gli atti tutti della causa;

Alla pubblica udienza del 3 aprile 2009 relatore il Consigliere Gabriella De Michele;

Udito l’avv. dello Stato Saulino;

Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:

F A T T O

Con atto di appello, notificato il 15.6.2005, i docenti specificati in epigrafe impugnavano la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Roma, sez. III bis, n. 12337/03 in data 11.12.2003 (che non risulta notificata), con la quale veniva respinto il ricorso dai medesimi proposto, avverso la propria esclusione dalla sessione di esami per l’abilitazione all’insegnamento, indetta ai sensi dell’ordinanza ministeriale 15.6.1999, n. 153. L’esclusione contestata risultava connessa alla non riconosciuta validità del periodo di servizio precario, prestato dagli interessati come insegnanti di religione, in quanto l’art. 2, comma 4 dell’ordinanza di riferimento dichiarava non validi, ai fini dell’ammissione alla sessione riservata, i servizi prestati nell’insegnamento della religione cattolica, risultando tali servizi non prestati su posti di ruolo e non relativi a classi di concorso. Nella citata sentenza si richiamavano le norme in materia di accesso ai ruoli del personale della scuola e, in particolare, le modalità semplificate di accesso per chi fosse in possesso di un duplice requisito: il previo superamento di prove di concorso o di esame, anche ai soli fini abilitativi, nonché la precedente esperienza didattica, svolta sulla base del titolo di studio richiesto per l’accesso ai ruoli di cui trattasi; in tale ottica, non avrebbe potuto ammettersi “una generica e comune esperienza didattica, da far valere in ogni settore disciplinare”, essendo richiesto “uno specifico elemento di qualificazione professionale, per impartire l’insegnamento corrispondente al posto di ruolo cui si intende accedere”; quanto sopra con l’unica eccezione (ammessa da parte della giurisprudenza) di insegnamento prestato in corrispondenza di classi di concorso affini, richiedenti lo stesso titolo di studio, previsto per la classe di concorso a cui si intendesse partecipare.

Non sarebbe rientrata in tale schema la situazione degli insegnanti di religione, i cui profili professionali vengono determinati dall’Autorità scolastica, d’intesa con la Conferenza Episcopale Italiana, secondo il protocollo approvato con D.P.R. 16.12.1985, n. 751; il provvedimento impugnato, pertanto, sarebbe stato legittimo, “in quanto pienamente conforme alle disposizioni della legge n. 124/1999” e non contrastante “con il dettato costituzionale”, tenuto conto della pronuncia già emessa al riguardo dalla Suprema Corte (22.7.1999, n. 343).

In sede di appello, si ricordava come l’art. 2, comma 4 della legge n. 124/1999 prevedesse una sessione riservata di esami per il conseguimento dell’abilitazione o dell’idoneità, richiesta per l’insegnamento nella scuola materna, in quella elementare e negli istituti e scuole di istruzione secondaria ed artistica; quanto sopra, ai fini dell’inserimento degli interessati nelle graduatorie permanenti, utilizzate per l’assorbimento nei ruoli docenti del personale precario.

A tale sessione erano ammessi gli insegnanti non abilitati o non in possesso di idoneità, che potessero vantare un servizio di insegnamento della durata di almeno 360 giorni, maturato nel periodo compreso fra l’anno scolastico 1989/1990 e la data di entrata in vigore della citata legge, “per insegnamenti corrispondenti a posti di ruolo o relativi a classi di concorso”.

Gli attuali appellanti – tutti in possesso dell’anzianità prevista, ma solo con servizio prestato, in tutto o in parte, come insegnanti di religione – avevano proposto ricorso collettivo avverso l’ordinanza ministeriale n. 153 del 15.6.1999, con la quale era stata indetta la sessione riservata di esami prevista dalla legge sopra citata, nella parte in cui tale ordinanza (art. 2, comma 4) escludeva espressamente come servizio valido, ai fini dell’ammissione, “i servizi prestati nell’insegnamento della religione cattolica o delle attività alternative”. Con successivi ricorsi individuali – oggetto di separato giudizio – i singoli interessati, dopo avere presentato domanda, impugnavano quindi i provvedimenti di esclusione, con ciò automaticamente, ex art. 13 O.M. cit., ottenendo l’ammissione alle prove di cui trattasi (prove poi superate, con conseguente iscrizione con riserva dei medesimi interessati nelle graduatorie permanenti, finalizzate all’immissione in ruolo).

Nell’atto di appello in esame si sottolineava anche come la Corte Costituzionale – nella ricordata sentenza n. 343 del 22.7.1999 – si fosse occupata degli articoli 2 e 11 della legge 27.12.11989, n. 417 (di conversione del D.L. 6.11.1989, n. 357), negando l’eccepita incostituzionalità delle predette norme in base all’assunto che la disciplina in questione configurasse “uno stretto collegamento fra l’insegnamento oggetto di servizio precario e quello oggetto dell’esame abilitante, collegamento impossibile nell’ipotesi in cui il primo avesse riguardato l’insegnamento della religione cattolica”.

Appunto in tale ottica la medesima Corte avrebbe ricordato i seguenti indirizzi giurisprudenziali, sussistenti in materia di rapporto fra insegnamento precario e insegnamento oggetto di esame, al fine di giustificare l’adozione di una “verifica semplificata della professionalità” (già formata, quest’ultima, nell’esercizio della funzione docente): a) necessità di assoluta coincidenza fra i due tipi di insegnamento; b) sufficienza di affinità fra le due discipline. Secondo gli appellanti, pertanto, la decisione della Suprema Corte sarebbe stata “di segno opposto,ove non fosse stata normativamente prevista….la coincidenza o, se si vuole, l’affinità fra l’insegnamento precario e l’insegnamento oggetto di esame”: una situazione, quella appena indicata, che avrebbe dovuto ritenersi sussistente per la normativa, dettata con legge 5.1999, n. 124, nella quale la coincidenza fra i due tipi di insegnamento sarebbe stata presa in considerazione solo ai fini dell’attribuzione del punteggio, con conseguente venir meno dei criteri di corrispondenza o affinità, previsti dalla normativa del 1989. Avrebbe sottolineato tale concetto l’ordinanza ministeriale n. 3 del 7.2.2000, che nel bandire un’ulteriore tornata di esami abilitanti aveva ammesso anche i soggetti già abilitati, in considerazione del fatto che, “in assenza di specifici divieti, la ratio della legge 3.5.1999, n. 124 può anche rinvenirsi nella volontà di consentire il conseguimento di più titoli professionali a chi, possedendo i prescritti titoli di studio, abbia comunque acquisito una certificata professionalità in servizio, prescindendo dall’ordine o grado di scuola, in cui il relativo servizio sia stato prestato”.

In base a quanto sopra – e tenuto conto delle varie disposizioni, che attribuiscono agli insegnanti di religione gli stessi diritti e gli stessi doveri degli altri docenti (avendo la materia in questione dignità formativa e culturale pari a quella delle altre discipline) – la legge n. 124/1999 non avrebbe potuto che richiedere, ai fini dell’ammissione alla sessione riservata di cui trattasi, “un’esperienza didattica tout court, non un’esperienza didattica specificamente qualificata (ossia acquisita nella stessa disciplina, o in disciplina affine a quella oggetto di abilitazione)”.

Nella prospettiva sopra indicata, secondo gli appellanti la questione di costituzionalità avrebbe dovuto essere riproposta, potendosi ammettere che l’art. 2, comma 4 della legge 3.5.1999, n. 124 considerasse la coincidenza fra insegnamento prestato a titolo precario e insegnamento oggetto di esame ai soli fini della determinazione del punteggio (e quindi della graduazione dei concorrenti), ma non anche ai fini dell’ammissione alla medesima sessione sulla base della durata del servizio pregresso, senza considerare come tale anche quello prestato come docente di religione.

Non avrebbe trovato conferma, d’altra parte, l’argomentazione della difesa erariale, secondo cui non sarebbe stato ipotizzabile, per gli insegnanti di religione, “il passaggio a cattedre di altre discipline”, senza incorrere in “violazione del regime pattizio fra Stato italiano e Santa Sede”: nella successiva legge (18.7.2003, n. 186), istitutiva del ruolo degli insegnanti di religione, risultava infatti previsto il passaggio per mobilità ad altri tipi di insegnamento.

L’Amministrazione appellata, costituitasi in giudizio, resisteva formalmente all’accoglimento del gravame, in base alle argomentazioni già esposte in primo grado di giudizio.

DIRITTO

La questione sottoposta all’esame del Collegio si traduce sostanzialmente – in base alle argomentazioni prospettate dagli attuali appellanti – in una eccezione di incostituzionalità, riferita all’art. 2, comma 4 della legge 3.5.1999, n. 124, in rapporto agli articoli 3 e 97 della Costituzione. L’atto impugnato in via principale infatti (O.M. n. 153 del 15.6.1999) appare conforme alla predetta disciplina legislativa di riferimento, nella parte in cui esclude che l’insegnamento della religione cattolica possa contribuire alla formazione del requisito di almeno 360 giorni di docenza, effettuata nel periodo compreso fra l’anno scolastico 1989/1990 e la data di entrata in vigore della legge stessa: un servizio, quello appena indicato, che ove congiunto al previsto titolo di studio costituiva requisito per accedere alla sessione riservata di esami, indetta con la medesima ordinanza impugnata ai fini del conseguimento dell’abilitazione, o dell’idoneità, richiesta per l’insegnamento nella scuola materna ed elementare, ovvero negli istituti e scuole di istruzione secondaria ed artistica; quanto sopra, per acquisire titolo all’iscrizione nelle graduatorie permanenti, finalizzate all’immissione nei ruoli scolastici.

Gli stessi appellanti, in effetti, non contestano la lettura, già oggetto di consolidata giurisprudenza – secondo cui l’insegnamento della religione cattolica non appare “corrispondente a posti di ruolo”, né “relativo a classi di concorso”, tenuto conto della peculiarità del rapporto di impiego di cui trattasi, basato su procedure diverse da quelle del restante ordinamento scolastico, poiché originate dai cosiddetti “Patti Lateranensi”, concordati fra lo Stato italiano e la Santa Sede in data 11.2.1929 e modificati con accordo in data 18.2.1984, ratificato dalla legge 25.3.1985, n. 121, cui è seguita l’intesa per l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, firmata il 14.12.1985, alla quale è stata esecuzione con D.P.R. 16.12.1985, n. 751.

In base al descritto quadro – normativo e istituzionale – di riferimento, lo status del docente di religione (sacerdote o laico, ritenuto idoneo dall’ordinamento diocesano) è caratterizzato da peculiari profili di abilitazione professionale, connessi a distinte modalità di nomina e di accesso ai compiti didattici, senza corrispondenza nella dotazione di organico dei ruoli ordinari (risultando il rapporto di lavoro di cui trattasi – alla data che qui interessa – oggetto di incarichi annuali) e senza collegamento con altre classi di concorso: requisiti, quelli sopra esclusi, richiesti invece dall’art. 2, comma 4 della citata legge n. 124/1999, per l’ammissione alla sessione riservata di esami prevista dalla medesima norma (cfr., in rapporto al principio di non omologazione di tali docenti con gli insegnanti in posizione ordinaria: Cons. St., sez. VI, nn. 3567/2006, 5645/2006, 4447/2004, 5153/2001, 530/1999, 756/1994).

Se è vero, del resto, che l’insegnamento della religione cattolica “deve avere dignità formativa e culturale pari a quella delle altre discipline”, è anche vero che “detto insegnamento deve essere impartito in conformità alla dottrina della Chiesa, da insegnanti riconosciuti idonei dall’Autorità ecclesiastica e in possesso di qualificazione professionale adeguata” (art. 4.1, punti a e b D.P.R. n. 751/1985 cit.); i programmi di insegnamento – necessariamente conformi alla predetta dottrina – sono adottati “per ciascun ordine e grado di scuola con decreto del Presidente della Repubblica, ….previa intesa con la Conferenza Episcopale Italiana” (D.P.R. 751 cit., art. 1).

In base alla medesima intesa, comunque, agli insegnanti di religione cattolica sono estese tutte le norme sullo stato giuridico del personale insegnante non di ruolo, di modo che – secondo la prospettazione degli appellanti – l’esperienza didattica, acquisita nell’insegnamento della religione, dovrebbe essere ritenuta del tutto equivalente a quella maturata nell’insegnamento delle altre discipline, evidenziandosi in caso contrario violazione dei principi costituzionali di uguaglianza e buon andamento dell’Amministrazione. Solo la dichiarata incostituzionalità del più volte ricordato art. 2, comma 4 della legge n. 124/1999, d’altra parte, consentirebbe di ritenere a sua volta illegittima l’ordinanza ministeriale n. 153/1999, che – come già ricordato – ha ritenuto non utili, ai fini dell’ammissione agli esami di abilitazione o di idoneità, i servizi svolti dai docenti di religione (al cui insegnamento non corrispondono in effetti posti di ruolo, nè classi di concorso).

La questione di costituzionalità appena indicata appare tuttavia, benché rilevante, manifestamente infondata, per ragioni che non si discostano – contrariamente a quanto sostenuto dagli interessati – dai contenuti della pronuncia della Corte Costituzionale n. 343 del 22.7.1999.

Detta pronuncia si riferisce formalmente agli articoli 2 e 11 del D.L. 6.11.1989, n. 357 (norme in materia di reclutamento del personale della scuola), convertito in legge dall’art. 1, comma 1 della legge 27.12.1989, n. 417, nella parte in cui tali disposizioni disciplinavano l’ammissione a concorsi per soli titoli di docenti, che avessero “prestato servizio per almeno trecentosessanta giorni, anche non continuativi, nel triennio precedente…per insegnamenti corrispondenti a posti di ruolo, svolti sulla base del titolo di studio richiesto per l’accesso ai ruoli, nonché per insegnamenti relativi a classi di concorso”(art. 2 cit., comma 10, lettera b).

In rapporto a tale normativa, in effetti, si erano sviluppati indirizzi giurisprudenziali non univoci, per quanto attiene alla necessità che il servizio in questione fosse stato prestato con riferimento alla medesima materia oggetto della perseguita abilitazione, o anche a materie non corrispondenti, purchè affini o quanto meno richiedenti lo stesso titolo di studio (cfr., per il principio, Cons. St., sez. VI, 24.7.1998, n. 1103, 10.7.1996, n. 939, 20.6.1996, n. 844, 20.5.1995, n. 492, 7.9.1994, n. 1344 e 16..1993, n. 246).

Non è da tale profilo, tuttavia, che la Suprema Corte fa discendere il rigetto della questione di costituzionalità, sollevata sulla base di argomentazioni del tutto simili a quelle oggetto del presente giudizio. Nella ricordata sentenza n. 343/1999, infatti, si sottolinea come l’esperienza didattica – ritenuta “elemento di qualificazione professionale, da verificare in sede di esame” – sia stata da parte della giurisprudenza identificata con quella della specifica classe di abilitazione, alla quale si intendeva essere ammessi, o quanto meno di classi affini, tali da giustificare comunque una “verifica semplificata della professionalità, in sessioni riservate di esame o di concorso”.

La circostanza che logicamente – alla luce dei principi costituzionali – è stata ritenuta preclusiva della possibile assimilazione dell’esperienza degli insegnanti di religione, a quella degli altri docenti, risulta essere comunque corrispondente non al mero carattere non affine della materia religiosa, rispetto a quella oggetto di altre discipline, ma all’assoluta peculiarità di posizione di tali insegnanti, i cui profili di qualificazione professionale sono determinati dall’Autorità scolastica, d’intesa con la Conferenza Episcopale Italiana.

Anche in presenza di una motivazione estremamente sintetica, dunque, non sembra ipotizzabile che la Corte Costituzionale avrebbe assunto una diversa decisione qualora – come affermano gli appellanti – fosse stato oggetto di esame l’art. 2, comma 4 della legge n. 124/1999, in quanto tale norma ammetterebbe una più ampia “intercambiabilità” dell’esperienza didattica, idonea a consentire l’accesso alla sessione riservata di cui trattasi.

L’elemento discriminante, ai fini della ragionevolezza del testo legislativo e della coerenza del medesimo con principi di buona amministrazione, infatti, appare riconducibile alla considerazione della pregressa attività didattica quale indice di esperienza, giustificativo di modalità agevolate di accesso stabile nei ruoli docenti, solo ove tale attività fosse stata svolta secondo regole dettate dallo Stato, nonché in corrispondenza di materie, individuate dallo Stato stesso come parte del processo formativo della pubblica istruzione (garantita dall’art. 33 della carta costituzionale, tenuto conto anche della piena libertà di credo religioso, di cui al precedente art. 3 della medesima carta).

L’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, viceversa, corrisponde non a scelte squisitamente didattiche, ma ad un impegno assunto dallo Stato rispetto ad altro Ente sovrano, al cui magistero resta direttamente connessa una dottrina – il cui apprendimento è comunque facoltativo – ritenuta attinente al patrimonio storico e culturale del popolo italiano, con modalità di selezione del personale docente del tutto peculiari, dovendo l’idoneità del medesimo essere riconosciuta dalla competente autorità ecclesiastica, non estranea nemmeno alla scelta dei testi di apprendimento e ad altre modalità organizzative, per finalità di approfondimento e diffusione dell’ortodossia cattolica (artt. 2 e 3 D.P.R. n. 751/1985 cit.; cfr. anche, Cons. St., sez. VI, 27.8.1988, n. 1006).

Un percorso formativo, quello sopra indicato, il cui valore culturale e morale giustifica la pari dignità del relativo personale docente, rispetto a quello addetto ad altre discipline, nell’ambito di quanto attenga allo svolgimento dell’anno scolastico; quanto sopra, tuttavia, senza che possa razionalmente escludersi una diversa valutazione dell’esperienza didattica in questione, in rapporto a normative eccezionali di favore, attraverso le quali l’Amministrazione intenda – come nel caso di specie – agevolare l’immissione nei ruoli di personale precario, che sia stato reclutato e abbia svolto attività di insegnamento secondo le regole dettate dallo Stato stesso, per finalità strettamente inerenti alla formazione culturale e scientifica degli studenti (e senza che ciò escluda, ovviamente, una successiva immissione degli insegnanti di religione di cui trattasi nei ruoli docenti veri e propri, con apposita normativa speciale, come quella di cui alla legge 18.7.2003, n. 186, ma – ex art. 4 L. cit. – “subordinatamente al possesso dei requisiti prescritti per l’insegnamento richiesto”).

Per le ragioni esposte, in conclusione, il Collegio ritiene che l’appello debba essere respinto, risultando l’ordinanza impugnata conforme al dettato legislativo, in precedenza esaminato, e dovendo ritenersi manifestamente infondata l’eccezione di incostituzionalità, sollevata in rapporto a quest’ultimo; quanto alle spese giudiziali, tuttavia, la complessità della disciplina giuridica di riferimento e la nuova prospettazione dei principi coinvolti ne rendono equa la compensazione.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, respinge il ricorso in appello indicato in epigrafe.

Compensa le spese giudiziali.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, il 3 aprile 2009 dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale – Sez.VI -, riunito in Camera di Consiglio, con l'intervento dei Signori:

Luciano Barra Caracciolo Presidente f.f.
Bruno Rosario Polito Consigliere
Manfredo Atzeni Consigliere
Gabriella De Michele Consigliere est.
Fabio Taormina Consigliere