Sentenza 19 giugno 1997, n.235
Corte costituzionale. Sentenza 19 giugno 1997, n. 235: “Esenzione dall’INVIM decennale degli immobili appartenenti agli Istituti per il sostentamento del clero (art. 8, terzo comma, della legge 16 dicembre 1977, n. 904, ed art. 45 della legge 20 maggio 1985, n. 222)”.
(Granata; Zagrebelsky)
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: dott. Renato GRANATA;
Giudici: prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA, prof. Carlo MEZZANOTTE, avv. Fernanda CONTRI, prof. Guido NEPPI MODONA, prof. Piero Alberto CAPOTOSTI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 8, terzo comma, della legge 16 dicembre 1977, n. 904 (Modificazioni alla disciplina dell’imposta sul reddito delle persone giuridiche e al regime tributario dei dividendi e degli aumenti di capitale, adeguamento del capitale minimo delle società e altre norme in materia fiscale e societaria) e 45 della legge 20 maggio 1985, n. 222 (Disposizioni sugli enti e beni ecclesiastici in Italia e per il sostentamento del clero cattolico in servizio nelle diocesi), promosso con ordinanza emessa il 23 febbraio 1996 dalla Commissione tributaria di primo grado di Venezia sul ricorso proposto dalla Comunità ebraica di Venezia contro l’Ufficio del registro di Mestre, iscritta al n. 594 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26, prima serie speciale, dell’anno 1996.
Visto l’atto di costituzione della Comunità ebraica di Venezia nonché l’atto di intervento dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane;
udito nell’udienza pubblica del 10 dicembre 1996 il Giudice relatore Gustavo Zagrebelsky;
uditi gli avvocati Giuliano Tabet e Massimo Luciani per la Comunità ebraica di Venezia e per l’Unione delle Comunità ebraiche italiane.
(omissis)
Considerato in diritto
1. — La Commissione tributaria di primo grado di Venezia dubita della legittimità costituzionale dell’art. 8, terzo comma, della legge 16 dicembre 1977, n. 904 (Modificazioni alla disciplina dell’imposta sul reddito delle persone giuridiche e al regime tributario dei dividendi e degli aumenti di capitale, adeguamento del capitale minimo delle società e altre norme in materia fiscale e societaria), che esonera dall’INVIM decennale o periodica tutti gli immobili appartenenti ai benefici ecclesiastici, indipendentemente dalla loro destinazione, nonché dell’art. 45 della legge 20 maggio 1985, n. 222 (Disposizioni sugli enti e beni ecclesiastici in Italia e per il sostentamento del clero cattolico in servizio nelle diocesi), che estende tale esenzione agli Istituti per il sostentamento del clero, i quali, per effetto della medesima legge, succedono ai benefici estinti in tutti i rapporti attivi e passivi (art. 28).
Le norme denunciate violerebbero gli articoli 3, 8, 19, 20 e 53 della Costituzione, per la disparità ch’esse determinerebbero rispetto alla disciplina tributaria prevista per i beni appartenenti a enti di culti diversi da quello cattolico. Tali beni e, in particolare, i beni della Comunità ebraica di Venezia, ricorrente di fronte al giudice rimettente, cadono infatti sotto la disciplina dell’art. 25, secondo comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 643 (Istituzione dell’imposta comunale sull’incremento di valore degli immobili), il quale prevede l’esenzione totale dall’imposta decennale sull’incremento di valore degli immobili appartenenti a enti non commerciali (tra i quali gli enti ecclesiastici), solo in quanto direttamente destinati all’esercizio delle loro attività istituzionali. I beni immobili aventi finalità diretta diversa, come quelli destinati a produrre reddito, sono invece assoggettati alla disciplina del quinto comma, lettera a), del medesimo articolo 25, il quale prevede un’esenzione limitata al 50 per cento. In questo, ad avviso del giudice rimettente, starebbe la disparità di trattamento denunciata: l’esenzione totale, in un caso, varrebbe quale che sia la destinazione dell’immobile; negli altri casi, solo se vi sia una destinazione diretta ai fini istituzionali dell’ente. E tale disparità dipenderebbe incostituzionalmente dalla circostanza che i beni in questione appartengano a una o a un’altra confessione religiosa.
2. — Preliminarmente, si deve dichiarare l’ammissibilità dell’intervento dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane, “ente rappresentativo della confessione ebraica nei rapporti con lo Stato e per le materie di interesse generale dell’ebraismo” (art. 19 della legge 8 marzo 1989, n. 101 – Norme per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e l’Unione delle Comunità ebraiche italiane) e titolare, nel presente giudizio, di un interesse qualificato, divenuto attuale nel momento della proposizione della questione di legittimità costituzionale, sorta nel corso di un giudizio promosso da una Comunità ma tale da potersi riflettere sulla situazione giuridica delle altre Comunità e della stessa Unione.
3. — Quanto al merito, la questione di costituzionalità che la Corte è chiamata a risolvere, essenzialmente incentrata sul rispetto del principio di uguaglianza in materia religiosa, rende necessario un raffronto tra discipline che coinvolgono disposizioni, alcune delle quali inserite in complessi normativi distinti e diversi per contenuti, aventi base in accordi o intese tra lo Stato e le confessioni religiose.
La legge 20 maggio 1985, n. 222, che regola, tra l’altro, gli Istituti per il sostentamento del clero cattolico in conformità al protocollo del 15 novembre 1984 che approva le norme per la disciplina della materia degli enti e beni ecclesiastici – norme formulate dalla Commissione paritetica istituita dall’art. 7, comma 6, dell’Accordo del 18 febbraio 1984, che ha apportato modificazioni al Concordato lateranense del 1929 tra lo Stato italiano e la Santa Sede – all’art. 45 prevede l’applicazione delle disposizioni statali relative all’imposta comunale sull’incremento di valore degli immobili già appartenenti ai benefici ecclesiastici e ora appartenenti agli Istituti per il sostentamento del clero che ai primi sono succeduti.
D’altro canto, la legge 8 marzo 1989, n. 101, che regola i rapporti tra lo Stato e l’Unione delle Comunità ebraiche italiane sulla base dell’intesa sottoscritta il 27 febbraio 1987, conformandosi alla tradizione legislativa in questa materia, contiene soltanto la norma generale dell’art. 27, comma 1, la quale stabilisce che, agli effetti tributari, le attività delle Comunità ebraiche dirette a fine di religione o di culto (la cui definizione è data dall’art. 26, comma 2, lettera a), sono equiparate a quelle aventi fini di beneficenza o di istruzione. Per la disciplina concernente il regime tributario delle attività diverse da quelle di religione o di culto (definite nell’art. 26, comma 2, lettera b), il comma 2 del medesimo articolo fa poi riferimento alle leggi generali dello Stato.
In entrambi i casi, il richiamo della disciplina contenuta nella legge dello Stato non determina una novazione della fonte e una trasformazione in normativa pattizia, non essendosi mai dubitato della disponibilità della disciplina dell’INVIM da parte del legislatore statale. Per questo, deve concludersi che nel presente giudizio di costituzionalità si controverte della legittimità costituzionale di norme legislative unilaterali dello Stato. Queste, tuttavia, sono sottoposte al giudizio di costituzionalità in ragione del particolare trattamento tributario ch’esse prevedono per beni di enti, rispettivamente, della Chiesa cattolica e delle Comunità ebraiche, cioè di soggetti la cui disciplina ricade pienamente nell’ambito delle materie oggetto di regolamentazione pattizia, e quindi potenzialmente differenziata, secondo gli articoli 7, secondo comma, e 8, terzo comma, della Costituzione. Il rispetto o la violazione del principio di uguaglianza da parte delle norme tributarie statali devono, perciò, valutarsi tenendo necessariamente conto delle distinte discipline dei soggetti destinatari di quella normativa, dove la distinzione è conseguenza del sistema di regolamentazione dei rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose voluto dalla Costituzione.
4. — Alla stregua delle considerazioni che precedono, la questione non è fondata.
Il problema di uguaglianza è posto, in relazione all’appartenenza a enti della Chiesa cattolica ovvero a enti di confessioni diverse da quella cattolica di beni immobili della stessa natura e aventi la medesima destinazione, nei termini di un trattamento tributario che si asserisce ingiustificatamente diverso. Questa impostazione non può essere accolta. Essa comporta una valutazione della disciplina tributaria di determinati beni considerati in sé, separata e indipendente dalla disciplina stabilita bilateralmente che riguarda i soggetti, cioè le diverse confessioni religiose, cui tali beni afferiscono: una valutazione che non può ritenersi corretta. Gli Istituti per il sostentamento del clero – diocesani, interdiocesani e centrale – sono enti ecclesiastici dotati di personalità giuridica civile, creati, in sostituzione del precedente sistema incentrato sui benefici (artt. 21 e seguenti della legge n. 222 del 1985), con l’unico scopo di assicurare, in conformità al loro statuto, attraverso erogazioni in misura determinata periodicamente dalla Conferenza episcopale italiana, il congruo e dignitoso sostentamento del clero che svolge servizio in favore della diocesi (nonché, accessoriamente, di sovvenire alle necessità di coloro che abbandonano la vita ecclesiastica senza avere altre fonti sufficienti di reddito e, eventualmente, di svolgere funzioni previdenziali integrative autonome per il clero stesso). Tali Istituti, in relazione al compito suddetto, per l’esercizio del quale fruiscono, oltre che dei redditi provenienti dal loro patrimonio, delle risorse devolute dai contribuenti e destinate al sostentamento del clero, a norma degli articoli 40, 41, 46, 47 e 48 della legge n. 222 del 1985, sono soggetti a una disciplina loro propria che impone una specifica attività di informazione della Conferenza episcopale, la quale a sua volta è tenuta a una rendicontazione all’autorità statale, a norma degli articoli 42, 43 e 44.
Le Comunità ebraiche presentano caratteri assolutamente diversi. Conformemente alla tradizione risalente alla legge sarda del 1857 e sviluppata nel regio decreto 30 ottobre 1930, n. 1731, la legge 8 marzo 1989, n. 101 (Norme per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e l’Unione delle Comunità ebraiche italiane), oltre a confermare la loro personalità giuridica (art. 18, comma 3), ne riconosce la natura di “istituzioni tradizionali dell’ebraismo in Italia” e le definisce quali “formazioni sociali originarie che provvedono, ai sensi dello Statuto dell’ebraismo italiano, al soddisfacimento delle esigenze religiose degli ebrei secondo la legge e la tradizione ebraiche” (art. 18, comma 1). I compiti delle Comunità, di cui la Repubblica italiana “prende atto” nel secondo comma del medesimo articolo, comprendono l’esercizio del culto, l’istruzione e l’educazione religiosa, la promozione della cultura ebraica, la tutela degli interessi collettivi degli ebrei in sede locale, l’assistenza degli appartenenti alle Comunità stesse, secondo la legge e la tradizione ebraiche.
Pertanto, agli Istituti per il sostentamento del clero deve riconoscersi la natura di enti strumentali ad hoc della Chiesa cattolica, con personalità giuridica nell’ordinamento dello Stato, mentre le Comunità ebraiche sono, innanzitutto, comunità sociali che organizzano ed esprimono l’insieme degli interessi religiosi, culturali e assistenziali qualificanti la loro identità. Gli Istituti, all’interno della complessa organizzazione della Chiesa, assicurano il sostentamento dei ministri del culto, scopo specifico e unico al quale sono finalizzate tutte le risorse di cui possono disporre; cosicché l’esenzione dall’INVIM decennale vale per essi non tanto per l’appartenenza degli immobili a determinati soggetti, quanto per la destinazione degli stessi e dei redditi all’unica loro finalità istituzionale. Al contrario, il sostentamento dei ministri del culto rappresenta una soltanto delle attività cui attendono le Comunità ebraiche, nel patrimonio delle quali, per l’ordinamento dello Stato, i beni non sono distinguibili a seconda che siano utilizzati per tale fine ovvero per altri scopi, tra quelli propri delle Comunità stesse.
Quella anzidetta costituisce una differenza di natura soggettiva direttamente collegata alla diversità delle funzioni e della destinazione oggettiva dei beni e ciò impedisce di addivenire a una pronuncia d’incostituzionalità, equiparatrice delle diverse situazioni. Una pronuncia che determinasse l’estensione dell’esenzione, come richiesto dal giudice rimettente, avrebbe infatti come conseguenza – una conseguenza che è riprova dell’infondatezza della questione – che l’esenzione totale dall’INVIM periodica finirebbe per riguardare beni immobili delle Comunità ebraiche destinati anche a finalità diverse dal sostentamento dei ministri del culto ebraico: una conseguenza eccedente la portata della norma di esenzione assunta come termine di comparazione nel giudizio di uguaglianza.
Come già nella sentenza n. 86 del 1985 di questa Corte, che – prima del superamento del sistema beneficiale a opera del nuovo regime concordatario – risolse nel senso dell’infondatezza la questione di costituzionalità sollevata sullo stesso art. 8, terzo comma, della legge n. 904 del 1977 ora nuovamente sottoposto a giudizio, anche nella presente occasione assumono dunque rilevanza le discipline bilaterali dei rapporti dello Stato con le confessioni religiose. Le differenze naturalmente riscontrabili nei contenuti di tali discipline – espressioni di un sistema di relazioni che tende ad assicurare l’uguale garanzia di libertà e il riconoscimento delle complessive esigenze di ciascuna di tali confessioni, nel rispetto della neutralità dello Stato in materia religiosa nei confronti di tutte – possono rappresentare, e nella specie rappresentano, quelle diversità di situazioni che giustificano, entro il limite della ragionevolezza, ulteriori differenze nella legislazione unilaterale dello Stato. Differenze destinate naturalmente a ricomporsi tutte le volte in cui le norme di matrice pattizia vengano ad assumere, per volontà delle parti, analoghi contenuti.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 8, terzo comma, della legge 16 dicembre 1977, n. 904 (Modificazioni alla disciplina dell’imposta sul reddito delle persone giuridiche e al regime tributario dei dividendi e degli aumenti di capitale, adeguamento del capitale minimo delle società e altre norme in materia fiscale e societaria) e dell’articolo 45 della legge 20 maggio 1985, n. 222 (Disposizioni sugli enti e beni ecclesiastici in Italia e per il sostentamento del clero cattolico in servizio nelle diocesi), sollevata, in riferimento agli articoli 3, 8, 19, 20 e 53 della Costituzione, dalla Commissione tributaria di primo grado di Venezia con l’ordinanza indicata in epigrafe.
(omissis)
Autore:
Corte Costituzionale
Nazione:
Italia
Parole chiave:
Invim, Laicità, Esonero, Benefici ecclesiastici, Attività istituzionali, Principio di eguaglianza, Comunità ebraica, Fine di religione, Fine di culto
Natura:
Sentenza