Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 25 Settembre 2013

Sentenza 18 settembre 2013, n.21331

Corte di Cassazione. Sezione I Civile. Sentenza 18 settembre 2013, n. 21331: "Matrimonio concordatario: delibazione della pronuncia ecclesiastica dichiarativa della nullità e richiesta di revisione dell'assegno divorzile".

(Omissis)

Fatto e diritto

Rilevato che:
1. Il Tribunale di Napoli, con sentenza n. 6717/1993, ha dichiarato la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario celebrato il 19 aprile 1980 fra B..M. e P.M. e ha posto a carico del M. un assegno divorzile di 500.000 lire mensili e un contributo mensile di mantenimento, destinato alla figlia minorenne F. , di ulteriori 500.000 lire mensili, oltre a un assegno integrativo, da corrispondere in tre occasioni durante l’anno, di 500.000 lire in favore della P. e della figlia.
2. Successivamente, la Corte di appello di Napoli, con sentenza n. 4450/1999, ha delibato la sentenza del Tribunale ecclesiastico dichiarativa della nullità del predetto matrimonio.
3. B..M. , con ricorso del 22 dicembre 2005, ha chiesto al Tribunale di Napoli la revoca dell’assegno divorzile come conseguenza dell’avvenuta delibazione della pronuncia dichiarativa della nullità del matrimonio o, in subordine, in relazione alle mutate condizioni dei coniugi, deducendo a tal fine che egli aveva formato una nuova famiglia, che lo aveva reso nuovamente padre di due figli, mentre la P. aveva acquisito proprietà immobiliari da cui ricavava consistenti redditi. Ha chiesto altresì la revoca dell’assegno di mantenimento della figlia diventata maggiorenne e indipendente economicamente.
4. Il Tribunale di Napoli, con sentenza del 29 novembre 2006, ha respinto il ricorso ritenendo che la delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio non produce alcun effetto di caducazione delle statuizioni, contenute nella precedente sentenza dichiarativa dello scioglimento del matrimonio, relative all’obbligo di corresponsione dell’assegno divorzile. Ha inoltre ritenuto infondate le deduzioni del M. relative al mutamento delle condizioni economiche dell’ex coniuge, dato che la P. non aveva acquisito in realtà alcun significativo provento immobiliare dopo la sentenza dichiarativa dello scioglimento del matrimonio. Ha ritenuto infine non provate le deduzioni del M. relative alla raggiunta indipendenza economica della figlia.
5. Ha impugnato la pronuncia del Tribunale M.B. affermando che la sentenza del Tribunale ecclesiastico, recepita nel nostro ordinamento a seguito della pronuncia di delibazione, ha il valore e l’efficacia di una dichiarazione di nullità del matrimonio che, come tale, travolge le statuizioni in tema di assegno divorzile della precedente sentenza del Tribunale di Napoli n. 6717/1993. A sostegno di tale affermazione ha citato la sentenza n. 11793/2005, emessa inter partes dalla Corte di Cassazione, e la pronuncia della Corte Costituzionale n. 329/2001. Secondo il ricorrente la sentenza n. 11793/05 ha indicato nell’art. 9 della legge n. 898/1970 il rimedio processuale idoneo a far rilevare la sopravvenuta dichiarazione di nullità del matrimonio, con la conseguenza obbligata della caducazione dell’assegno divorzile, mentre la pronuncia del giudice delle leggi ha sancito la compatibilità con le norme costituzionali della diversità di conseguenze, sotto il profilo patrimoniale, derivanti dalla declaratoria della nullità canonica e dalla dichiarazione della cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario. Il reclamante M. ha anche lamentato la inadeguata valutazione della documentazione attestante la variazione sostanziale delle condizioni patrimoniali e reddituali della P. e la raggiunta indipendenza economica della figlia F. dopo la sentenza di divorzio.
6. La Corte di appello di Napoli ha accolto parzialmente il reclamo sulla richiesta subordinata di modifica dell’ammontare dell’assegno divorzile ritenendo non adeguatamente valutata dal primo giudice la nuova situazione familiare del M. . Ha invece ritenuto non provata la deduzione relativa alla situazione di indipendenza economica che sarebbe stata acquisita dalla figlia del reclamante. Per quanto riguarda invece la richiesta di revoca dell’assegno divorzile, in applicazione della sentenza dichiarativa della nullità del matrimonio, la Corte di appello ha ritenuto fondata l’impostazione della sentenza di primo grado e in particolare ha rilevato quanto ribadito dalla giurisprudenza di legittimità dal 1993 in poi (cfr. SS.UU. n. 1824 del 13 febbraio 1993) e cioè che, in seguito alla revisione del 1984 del Concordato fra Repubblica Italiana e Santa Sede, è venuta meno la riserva di giurisdizione in favore dei Tribunali ecclesiastici sulle cause di nullità dei matrimoni concordata… Pertanto il coniuge che sia parte in un giudizio di divorzio e che voglia far valere un vizio idoneo a determinare la nullità del matrimonio secondo il diritto canonico, al fine di ottenere che i rapporti patrimoniali con l’ex coniuge siano regolati dagli artt. 129 e 129 bis c.c., deve proporre la relativa domanda nel giudizio di divorzio perché altrimenti il capo della sentenza che regola i rapporti patrimoniali fra gli ex coniugi non potrà essere messo in discussione dalla sopravvenuta delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio e, in particolare, la delibazione non potrà essere fatta valere come causa sopravvenuta di modifica delle statuizioni di carattere patrimoniale della sentenza di divorzio. La Corte di appello ha anche riscontrato la piena coerenza di tale indirizzo interpretativo consolidato con le pronunce invocate dal reclamante e con gli articoli 7, 29, 70, 111 e 134 della Costituzione.
7. Ricorre per cassazione contro il decreto della Corte di appello di Napoli B..M. che ritiene la nullità del decreto deducendo: a) la violazione, errata interpretazione, falsa applicazione dell’art. 9 della legge n. 898/70 comportante la cassazione del provvedimento impugnato in forza degli artt. 111 comma 1 e 6 della Costituzione, 360 comma In. 3 e 384 c.p.c.; la violazione e errata applicazione del principio di diritto enunciato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 11793/2005; la violazione della lettura costituzionale dell’intera normativa (Ndr: testo originale non comprensibile) espressa dalla Corte Costituzionale n. 329/2001; la palese mancanza di motivazione circa il punto decisivo della controversia prospettato; b) la mancanza nella motivazione del parametro di riduzione dell’assegno divorzile e dell’assegno extra e la palese contraddittorietà tra motivazione e dispositivo in forza dell’art. 360 n. 5 c.p.c. e dell’art. 111 comma 1 e 6 della Costituzione.
8. Il ricorrente ripropone inoltre le seguenti questioni di costituzionalità: a) incostituzionalità della lettura data dalla Corte di appello dell’art. 2 90 9 e. e. e degli artt. 5 e 9 della legge n. 8:8..1970, anche se conforme all’indirizzo contenuto nella sentenza n. 4202/2001 della prima sezione civile della Corte di Cassazione, perché in contrasto con le pronunce della Corte Costituzionale n. 329/2001 e n. 421/1993 e gli articoli 7, 29 comma 1, 70, 111 comma 1, 6 e 7, e 134 della Costituzione; b) incostituzionalità dell’intero ordinamento processuale civile nella parte in cui esclude dal ricorso per cassazione provvedimenti definitivi investenti lo status coniugale e familiare in violazione degli artt. 111 comma 1 e 7 della Costituzione in uno con gli artt. 132 c.p.c., 360 n. 3 e 5 c.p.c. e (Ndr: testo originale non comprensibile) c.p.c., del d.lgs. n. 40/2006 e dell’art. 60 dei R.D. n. 12/1941.
9. Si difende con controricorso M..P. e, a sua volta, propone ricorso incidentale deducendo la violazione e falsa applicazione dell’art. 156 c.c. e affermando che l’applicazione di detto articolo comporta, nella specie, la corresponsione, al coniuge più debole, di un assegno idoneo a far mantenere un adeguato tenore di vita sia alla prima moglie che alla figlia del ricorrente mentre la decisione della Corte di appello è viziata da violazione e errata applicazione del principio di diritto enunciato dalla Corte di Cassazione con le sentenze nn. 25618/2007, 20256/2006, 2626/2006, 18327/2002, 13592/2006, 407/2007, 24498/2006, 13584/2006.
10. Il ricorrente pone alla Corte di Cassazione una serie di quesiti di diritto divisi in tre parti.
11. Con la prima parte di tali quesiti si chiede alla Corte se: a) l’obbligo del mantenimento del coniuge scaturisce primariamente e inderogabilmente dallo status di coniuge; b) il titolo giuridico fondante l’obbligo del mantenimento del coniuge è costituito da un matrimonio valido; c) una volta pronunciata in via giudiziale la declaratoria di nullità ex tunc del vincolo matrimoniale e quindi dello status di coniuge, viene a cessare lo status di divorziato e a cessare il regime patrimoniale previsto per i casi di matrimonio valido ma poi sciolto a mezzo di sentenza costitutiva di divorzio.
12. Con la seconda parte dei quesiti si chiede alla Corte se: a) nella valutazione della preclusione della revisione dei provvedimenti economici contenuti in una sentenza di divorzio disciplinata dal comma 1 dell’art. 9 della legge n. 898/1970, come novellato dalla legge n. 74/1987, e rappresentata dalla dizione “qualora sopravvengano giustificati motivi”, il motivo va inteso, come interpreta la Corte di appello di Napoli, come vizio di nullità (che è coevo all’atto di matrimonio e quindi non può ritenersi motivo sopravvenuto anzi è originario e preesistente alla pronuncia di divorzio) o invece va inteso come sentenza declaratoria di nullità (o ancor meglio sentenza italiana di esecutorietà civile della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio o anche sentenza civile di nullità di matrimonio, sia civile sia ecclesiastico, a seguito del pronunciato delle Sezioni unite civili della Corte di Cassazione n. 1824/1993) e pertanto da considerarsi un motivo giudiziariamente sopraggiunto alla pronuncia giudiziaria di divorzio e quindi pienamente giustificante e legittimante la revisione del provvedimento economico contenuto nella sentenza di divorzio.
13. Infine con la terza serie di quesiti si chiede alla Corte: a) se il giudice di merito può effettuare una modifica dell’assegno divorzile, maggiorandolo o diminuendolo, senza enunciare l’indice o parametro di valutazione del quantum, senza cioè indicare il presupposto o comunque il metodo aggettivo del sillogismo; b) se può determinare la variazione dell’assegno divorzile senza tener conto del diritto all’alimento e al mantenimento del successivo coniuge; c) se può non indicare il parametro di commisurazione dell’assegno extra o non misurare la variazione di detto assegno in rapporto paritario al ragionamento (se) utilizzato per la variazione e commisurazione dell’assegno divorzile mensile.
Ritenuto che:
14. Sussistono le condizioni di legge per l’accoglimento della richiesta riunione dei ricorsi.
15. Le questioni poste dal presente giudizio hanno già costituito oggetto di precedenti pronunce in sede di legittimità sostanzialmente conformi fra loro e dalle quali questa Corte non intende discostarsi ritenendo infondato il preteso contrasto del “diritto vivente”, costituito dalla predetta giurisprudenza, con le norme della carta costituzionale e i precedenti del giudice delle leggi invocati da parte del ricorrente e menzionati dal Procuratore generale nelle sue conclusioni.
16. Preliminarmente occorre riassumere i punti salienti dell’indirizzo giurisprudenziale vigente in questa materia evidenziando che interessano la sua applicazione nel caso in esame.
17. L’Accordo di revisione del Concordato dell’11 febbraio 1929 con la Santa Sede, stipulato a Roma il 18 febbraio 1984 e reso esecutivo con legge 25 marzo 1985 n. 121, unitamente al Protocollo addizionale, pur confermando la giurisdizione ecclesiastica sulle controversie in materia di nullità del matrimonio celebrato secondo le norme del diritto canonico, non ripropone la “riserva” di tale giurisdizione, prevista dall’art. 34 del Concordato, né recepisce il matrimonio religioso nella sua sacramentalità, e, comunque, non gli accorda dignità superiore rispetto a quello civile. Tale “riserva”, pertanto, deve ritenersi abrogata, ai sensi dell’art. 13 dell’Accordo medesimo, di modo che, per le cause inerenti alla nullità del matrimonio concordatario, sussistono tanto la giurisdizione italiana, quanto la giurisdizione ecclesiastica, le quali concorrono in base al criterio della prevenzione con la conseguenziale affermazione della giurisdizione del giudice italiano ove risulti preventivamente adito (Cass. civ. SS. UU. n. 1824 del 13 febbraio 1993).
18. Tale indirizzo delle SS.UU. è stato ribadito (oltre che dalle sentenze della Cass. civ. sezione I nn. 12867 del 19 novembre 1999 e 12671 del 16 novembre 1999) da Cass. civ. 18 aprile 1997 n. 3345 secondo cui al venir meno della riserva di giurisdizione consegue che il giudice italiano preventivamente adito, può giudicare sulla domanda di nullità di un matrimonio concordatario, nonché che il convenuto in una causa di divorzio possa chiedere l’accertamento della nullità del vincolo, nonché – ancora – che, contenendo in sé una tale sentenza di divorzio, una implicita valutazione della validità del vincolo, nei limiti di un accertamento incidentale ed ai soli fini del decidere, una eventuale sentenza ecclesiastica di nullità, pur rendendosi delibabile, non travolga più la sentenza di divorzio.
19. Con la sentenza n. 4202 del 23 marzo 2001 è stato ricostruito, con maggiore coerenza, il rapporto fra sentenza di divorzio e sentenza di delibazione della sentenza ecclesiastica di annullamento del matrimonio sicché appare opportuno riportare i passaggi salienti della motivazione che si dimostrano rilevanti ai fini della decisione del presente giudizio.
20. Di regola – secondo la citata pronuncia n. 4202/2001 – la esistenza e la validità del matrimonio costituiscono un presupposto della sentenza di divorzio, ma non formano nel relativo giudizio oggetto di specifico accertamento suscettibile di dare luogo al formarsi di un giudicato. Per questa ragione la sentenza di divorzio – che ha causa petendi e petitum diversi da quelli della sentenza di nullità del matrimonio -, ove nel relativo giudizio non si sia espressamente statuito in ordine alla validità del matrimonio, non impedisce la delibabilità della sentenza dei Tribunali ecclesiastici che abbia dichiarato la nullità del matrimonio concordatario, in coerenza con gli impegni concordatari assunti dallo Stato italiano e nei limiti di essi.
21. Quanto, invece, ai capi della sentenza di divorzio che contengano statuizioni di ordine economico, si applica la regola generale secondo la quale, una volta accertata in un giudizio fra le parti la spettanza di un determinato diritto, con sentenza passata in giudicato, tale spettanza non può essere rimessa in discussione – al di fuori degli eccezionali e tassativi casi di revocazione previsti dall’art. 395 c.p.c., non dedotti nella specie – fra le stesse parti, in altro processo, in forza degli effetti sostanziali del giudicato stabiliti dall’art. 2909 cod. civ..
22. Conseguentemente, una volta accertato nel giudizio, con il quale sia stata chiesta la cessazione degli effetti civili di un matrimonio concordatario, la spettanza a una parte di un assegno di divorzio, ove su tale statuizione si sia formato il giudicato ai sensi dell’art. 324 c.p.c., questo resta intangibile, in forza dell’art. 2909 cod. civ..
23. Non giova dedurre in contrario che in caso di delibazione della sentenza ecclesiastica di annullamento del matrimonio concordatario le conseguenze economiche dell’annullamento sono disciplinate dagli artt. 129 e 129 bis cod. civ., dettando tali articoli una normativa che, in caso di passaggio in giudicato di una sentenza di divorzio prima della delibazione della sentenza ecclesiastica, ne implica, ai fini della sua applicabilità, il coordinamento con i principi che regolano il giudicato.
24. Né giova, infine, dedurre che le sentenze di divorzio vengono emanate “rebus sic stantibus”, essendo tale principio correlato al disposto dell’art. 9 della legge n. 898 del 1970 e successive modificazioni, che ne prevedono la modificabilità in relazione alla sopravvenienza di “giustificati motivi”, intesi come circostanze che abbiano alterato l’assetto economico fra le parti, o di relazione con i figli, e non come circostanze che sarebbero state impeditive della emanazione della sentenza di divorzio e dell’attribuzione dell’assegno, le quali non sono idonee ad incidere sul giudicato se non nei limiti in cui sono utilizzabili attraverso il rimedio della revocazione.
25. Tale linea interpretativa è proseguita con la sentenze n. 4795 del 4 marzo 2005, n. 3186 dell’11 febbraio 2008 e n. 12989 del 24 luglio 2012 le quali hanno ribadito che la sentenza di divorzio ha causa petendi e petitum diversi da quelli della domanda di nullità del matrimonio concordatario, investendo il matrimonio-rapporto e non l’atto con il quale è stato costituito il vincolo tra i coniugi. In conseguenza è stato riaffermato che, qualora nel giudizio di divorzio non si sia espressamente statuito in ordine alla validità del matrimonio – con il conseguente insorgere delle questioni poste dalla statuizione contenuta nell’art. 8, comma secondo, lett. c), dell’Accordo del 18 febbraio 1984 tra Stato italiano e Santa Sede – non è impedita la delibazione della sentenza del tribunale ecclesiastico che abbia dichiarato la nullità del matrimonio concordatario, in coerenza con gli impegni assunti dallo Stato italiano e nei limiti di essi. Ma ciò non comporta il venir meno delle statuizioni economiche della sentenza di divorzio.
26. Una volta delineato il quadro della giurisprudenza di legittimità formatosi e consolidatosi nel corso dell’ultimo ventennio sulla questione dibattuta in questo giudizio appare più lineare la risposta da dare ai profili di incostituzionalità della disciplina e della sua interpretazione giurisprudenziale indicati dal P.G. e dal ricorrente principale e ai quesiti di diritto sottoposti da quest’ultimo alla Corte.
27. Il ricorrente e il P.G., in due punti delle sue conclusioni, fanno riferimento alla sentenza n. 421 del 1993 della Corte costituzionale. La questione della permanenza o meno nel nuovo sistema concordatario della riserva di giurisdizione a favore dei tribunali ecclesiastici deve peraltro ritenersi irrilevante nel presente giudizio in cui si controverte degli effetti della delibazione di una sentenza di annullamento successiva al passaggio in giudicato della sentenza di divorzio. Va peraltro rilevato che la Corte Costituzionale con la sentenza n. 421 del 1993 ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge n.810 del 27 maggio 1929, nella parte in cui da esecuzione all’art. 34, quarto comma, del Concordato fra la Santa Sede e la Repubblica Italiana dell’11 febbraio 1929, in quanto ha ritenuto che la ricognizione della nuova fonte consente di affermare che le modificazioni del Concordato espresse dall’Accordo del 1984 disciplinano l’intera materia e impediscono, quindi, di fare ricorso a testi normativi precedenti.
28. Con successiva sentenza di questa Corte (Cass. Civ. sezione I, n. 12671 del 16 novembre 1999, già citata in precedenza) è stato ribadito che deve essere condivisa l’affermazione delle Sezioni unite relativa alla abrogazione della riserva di giurisdizione ecclesiastica in quanto fondata su una pluralità di ragioni che non possono ritenersi superate dalla successiva sentenza della Corte costituzionale n. 421 del 1993, che ha dichiarato inammissibile, a seguito dell’Accordo del 1984, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 L. 27 maggio 1929 n. 810, nella parte in cui da esecuzione all’art. 34, 4 comma, del concordato tra la Santa Sede e la Repubblica Italiana dell’11 febbraio 1929, in riferimento all’art. 7, primo comma, della Costituzione. Infatti, la sentenza della Corte Costituzionale, proprio perché ha ad oggetto la dichiarazione d’inammissibilità della questione sollevata, ha evidentemente effetti vincolanti solo per il giudice remittente. Per altro verso, le argomentazioni esposte obiter in detta decisione si fondano su una ricostruzione degli elementi essenziali del sistema concordatario che ha il proprio “fondamento in considerazioni di principio non ancorate a meri riferimenti testuali” e che pertanto, non possono avere neppure una più limitata efficacia persuasiva nella soluzione della questione, fondamentale, ma pur sempre specifica, del rapporto tra le due giurisdizioni sulle cause matrimoniali. Questione che deve essere risolta sulla base di una rigorosa interpretazione del nuovo testo normativo, valutato dal giudice delle leggi solo nel suo impianto generale.
29. Il P.G. e il ricorrente fanno inoltre riferimento alla sentenza n. 329 dell’8 maggio 2001 della Corte Costituzionale che ha deciso la questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto le norme che – in tutti i casi in cui il matrimonio concordatario, sia dichiarato nullo dalla giurisdizione ecclesiastica, con sentenza resa esecutiva nello Stato italiano – prevedono, pur in presenza di una consolidata comunione di vita fra i coniugi, l’applicabilità del regime patrimoniale dettato dall’ordinamento italiano per il matrimonio putativo e non di quello -ritenuto più favorevole dalle ordinanze di remissione alla Corte Costituzionale – di cui alla legge n. 898 del 1970 in tema di scioglimento del matrimonio civile e di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario.
30. La Corte Costituzionale con la sentenza n. 329 appena citata ha statuito che il principio costituzionale di uguaglianza non rende costituzionalmente necessario lo stesso trattamento in ordine alle conseguenze patrimoniali derivanti dalla nullità del matrimonio e dal divorzio, dal momento che sussiste una diversità strutturale tra le due fattispecie poste a raffronto e che soltanto il legislatore – nella sua discrezionalità – ha il potere di modificare il sistema vigente nella prospettiva di un accostamento delle due discipline. Questa affermazione presenta indubbi profili di problematicità se riferita alla nullità del matrimonio dichiarata in base al diritto canonico, nel caso in cui dal matrimonio nullo sia originato un rapporto coniugale rilevante per la sua durata e per le conseguenti implicazioni esistenziali nella vita dei coniugi. Non a caso la Corte Costituzionale ha richiamato il legislatore a valutare l’opportunità della conservazione della normativa esistente.
31. Quello che però rileva nel caso in esame è che tale affermazione della Corte Costituzionale non comporta affatto un rapporto di gerarchia fra la pronuncia di nullità, secondo il diritto canonico, del matrimonio concordatario e la pronuncia di cessazione degli effetti civili dello stesso matrimonio nel senso che, anche se intervenuta successivamente al passaggio in giudicato della sentenza dichiarativa della cessazione degli effetti civili, la delibazione della sentenza di annullamento di un tribunale ecclesiastico del matrimonio concordatario dovrebbe comunque produrre l’effetto di porre nel nulla la sentenza passata in giudicato. A tale conclusione ostano i principi che regolano il riconoscimento delle sentenze fra diversi ordinamenti giuridici e le norme sul giudicato. Ma è la stessa ratio della pronuncia della Corte Costituzionale a far escludere tale effetto dato che in essa si riconosce la sostanziale diversità fra i giudizi di nullità e quelli di divorzio sia nel diritto canonico che in quello civile italiano. I primi hanno ad oggetto l’accertamento di un difetto originario dell’atto di matrimonio, i secondi l’accertamento della impossibilità di mantenere o ricostituire la comunione morale e materiale fra i coniugi. È proprio la sentenza della Corte Costituzionale a delineare un rapporto di parallelismo fra i due procedimenti che verrebbe a cadere se la sentenza di divorzio non fosse suscettibile di passare in giudicato perché soggetta alla caducazione per effetto della delibazione di una eventuale dichiarazione di nullità del matrimonio da parte del giudice ecclesiastico. È evidente che la coesistenzialità delineata dalla Corte Costituzionale può avere un senso solo se si riconosce alle pronunce di divorzio e di nullità una autonomia che si sostanzia nella capacità di produrre il giudicato.
32. Nel ricorso principale e nelle conclusioni del P.G. si è fatto peraltro riferimento, con un non condivisibile richiamo alla sentenza della Corte di Cassazione n. 11793 del 7 giugno 2005, emessa inter partes, al carattere peculiare del giudicato prodotto dalla sentenza di divorzio in quanto si tratta di un giudicato destinato ad operare rebus sic stantibus. Su questo principio, ripetutamente affermato dalla citata giurisprudenza di legittimità, si basa l’equivoco giuridico che, partendo da un malinteso significato attribuito alla citata sentenza n. 117 93/2005, sembra fondare la richiesta di considerare come causa sopravvenuta, giustificativa della revisione delle condizioni economiche del divorzio, la delibazione della dichiarazione canonica di nullità del matrimonio.
33. Nella giurisprudenza di legittimità la qualificazione di giudicato con efficacia rebus sic stantibus trova la sua ragion d’essere nel fatto peculiare per cui la sentenza di divorzio instaura, fra gli ex coniugi, un rapporto di credito, derivante dalla vissuta comunione di vita realizzatasi nel corso del matrimonio, rapporto destinato a durare nel tempo con il carattere della periodicità e della continuatività e condizionato nell’an e nel quantum dal permanere o dal mutare delle condizioni economiche, degli ex coniugi, esistenti al momento della pronuncia di divorzio.
34. Per rispondere ai quesiti del ricorrente può conseguentemente affermarsi, anche alla luce della invocata sentenza della Corte Costituzionale, che l’assegno divorzile ha come presupposti: a) l’accertamento dell’impossibilità della continuazione della comunione spirituale e morale fra i coniugi che comporta lo scioglimento del vincolo matrimoniale civile (o la dichiarazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario), b) l’accertamento del diritto di uno dei due coniugi al mantenimento di un livello di vita, assimilabile a quello goduto nel corso del matrimonio, che può essergli garantito solo con il contributo economico dell’altro coniuge. È quindi da escludere che il titolo giuridico fondante l’obbligo del mantenimento del coniuge sia costituito nel diritto italiano dalla validità del matrimonio mentre invece deve ritenersi che esso trova il suo fondamento nella pregressa esistenza di un rapporto coniugale di cui è stato dichiarato lo scioglimento. Per altro verso la declaratoria di nullità ex tunc del vincolo matrimoniale non fa cessare lo status di divorziato trattandosi di uno status inesistente in quanto la pronuncia di divorzio determina la riacquisizione dello stato libero. Nel caso in cui si addivenga a una dichiarazione di nullità del matrimonio sulla base delle norme del nostro ordinamento civile che impongono, a pena di decadenza, la proposizione dell’azione di nullità in tempi ravvicinati dalla celebrazione del matrimonio, il diritto all’assegno divorzile non sussiste in quanto in relazione alla brevità del rapporto e alla invalidità del vincolo il legislatore ritiene che la disciplina dei rapporti economici trovi la sua sede adeguata nel c.d. matrimonio putativo.
35. La sentenza italiana di esecutorietà civile della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio non costituisce un elemento di fatto sopraggiunto legittimante la revisione del provvedimento economico contenuto nella sentenza di divorzio dato che la revisione (che è ipotesi diversa da quella della estinzione del diritto all’assegno divorzile per nuove nozze o morte del beneficiario) trova la sua naturale giustificazione solo in un mutamento delle condizioni economiche degli ex coniugi tale da non rendere più attuali le ragioni giustificative dell’imposizione di un assegno divorzile ovvero della misura fissata nella sentenza di divorzio. Ferma altrimenti l’operatività del giudicato che non viene meno per effetto del riconoscimento nel nostro ordinamento di una sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio trovando, come si è detto, l’attribuzione dell’assegno divorzile il suo presupposto nella pregressa esistenza di un rapporto matrimoniale e nella dichiarazione del suo scioglimento, elementi che non vengono posti nel nulla dal successivo riconoscimento nell’ordinamento italiano della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità.
36. Il ricorso del M. relativo alla pretesa violazione da parte della Corte di appello dei criteri di rideterminazione dell’assegno divorzile e dell’assegno di mantenimento, ovvero dei presupposti di legge per confermare quest’ultimo, è infondato. La Corte di appello ha illustrato analiticamente le ragioni per cui ha ritenuto che il reddito della P. sia rimasto sostanzialmente immutato e ha altresì dato atto del cambiamento delle condizioni economiche del M. per effetto della formazione di una nuova famiglia e della nascita di due figli. In conseguenza la Corte napoletana ha ridotto l’assegno divorzile, dopo aver illustrato analiticamente i criteri e le modalità di calcolo della riduzione, mentre ha tenuto ferma la quota destinata alla P. del contributo integrativo di 500.000 lire da corrispondere, in tre occasioni, durante l’anno. Infine la Corte, ritenuta raggiunta una condizione di sostanziale autonomia economica da parte della figlia F..M. , ha revocato l’assegno, destinato al suo mantenimento, posto a carico del padre. Le doglianze del ricorrente sono pertanto palesemente infondate.
37. Per ragioni simmetricamente opposte è altresì infondato il ricorso incidentale della P. dato che la riduzione dell’assegno divorzile si basa sulle non contestate mutate condizioni economiche del M. per effetto della formazione di una nuova famiglia. La lamentata riduzione oltre i livelli minimi di sussistenza appare del tutto generica e astratta a fronte della percezione, anch’essa incontestata, di un reddito personale della P. che la Corte territoriale ha ritenuto sostanzialmente stabile. Va anche rilevata la modestia della riduzione dell’assegno divorzile, percepito nel giugno 2006 dalla P. nella misura di 362 Euro, e ridotto dalla Corte di appello a 250 Euro.
38. Infine, quanto alla revoca dell’assegno in favore della figlia, il ricorso appare del tutto generico nel contestare le affermazioni della Corte di appello che, sulla base delle prove acquisite nel corso del giudizio di secondo grado, ha ritenuto il conseguimento, da parte di F..M. , di un’occupazione stabile, in qualità di assistente in uno studio dentistico di XXXXXXX, che le da modo di percepire una retribuzione adeguata alle sue mansioni e sufficiente a consentirle di mantenersi anche contribuendo, pro quota, alle spese di gestione dell’abitazione in cui vive con la madre.
39. I ricorsi vanno pertanto respinti e l’esito del giudizio giustifica la compensazione integrale delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta entrambi. Compensa interamente le spese del giudizio di cassazione.