Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 28 Agosto 2003

Sentenza 18 novembre 1958, n.59

Corte costituzionale. Sentenza 18 novembre 1958, n. 59: “Atti di ministri di culto e apertura di templi e oratori (art. 3 legge 24 giugno 1929, n. 1159; artt. 1 e 2 del R.D. 28 febbraio 1930, n. 289)”.

(Azzariti; Petrocelli)

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: dott. Gaetano AZZARITI;

Giudici: avv. Giuseppe CAPPI, prof. Tomaso PERASSI, prof. Gaspare AMBROSINI, prof. Ernesto BATTAGLINI, dott. Mario COSATTI, prof. Francesco PANTALEO GABRIELI, prof. Giuseppe CASTELLI AVOLIO, prof. Antonino PAPALDO, prof. Mario BRACCI, prof. Nicola JAEGER, prof. Giovanni CASSANDRO, prof. Biagio PETROCELLI, dott. Antonio MANCA, prof. Aldo SANDULLI,

ha pronunciato la seguente

Sentenza

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 3 della legge 24 giugno 1929, n. 1159, e 1 e 2 del R. D. 28 febbraio 1930, n. 289, promosso con ordinanza 30 luglio 1957 del Tribunale di Crotone, emessa nel procedimento penale a carico di Rauti Francesco, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 223 del 7 settembre 1957 ed iscritta al n. 80 del Registro ordinanze 1957.

Vista la dichiarazione di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udita nell’udienza pubblica dell’8 ottobre 1958 la relazione del Giudice Biagio Petrocelli;

uditi il sostituto avvocato generale dello Stato Giuseppe Gugliemi e gli avvocati Arturo Carlo Jemolo, Leopoldo Piccardi e Giacomo Rosapepe.

(omissis)

Considerato in diritto:

La Corte ritiene non fondata la eccezione preliminare proposta dall’Avvocatura generale dello Stato. Con questa eccezione, formulata soltanto nelle prime deduzioni, si tenta in sostanza di escludere che fra l’art. 650 Cod. pen. e le impugnate norme della legge 24 giugno 1929, n. 1159, e del R.D. 28 febbraio 1930, decreto che ha forza di legge in base all’art. 14 della legge stessa, possa esservi alcuna possibilità di collegamento o, come si esprime l’Avvocatura, alcuna ” interferenza “. Senza soffermarsi a confutare su tale oggetto argomentazioni che rivelano prima facie la loro infondatezza, come quella che nega la interferenza in base al fatto che la legge e il decreto impugnati non prevedono sanzioni penali, si deve rilevare innanzi tutto che il collegamento che si vorrebbe escludere è posto in modo esplicito dallo stesso capo di imputazione. Al Rauti infatti si muove lo specifico ad debito di aver disobbedito all’ordine di non compiere atti del culto pentecostale senza prima avere ottenuto l’approvazione ed autorizzazione governative ” previste dalla legge 24 giugno 1929, n. 1159, e dal R. D. 28 febbraio 1930, n. 289″. Ma il collegamento risulta chiaro in ogni modo da un elemento fondamentale della fattispecie dell’art. 650, cioè che il provvedimento sia legalmente dato: locuzione che si riferisce, per concorde opinione, alla legalità non soltanto formale, ma anche sostanziale del provvedimento, nel senso che esso non soltanto deve essere dato dall’autorità competente e nelle forme previste, ma deve altresì trovare, in una o più norme dell’ordinamento giuridico, il suo titolo di intrinseca legittimità. Nel caso in esame queste norme sono appunto l’art. 3 della legge del 1929 e gli artt. 1 e 2 del R. D. del 1930. Contestata la legittimità costituzionale di queste norme, relative all’approvazione e autorizzazione del cui difetto si fa carico al Rauti, si viene in pari tempo a contestare la legalità del provvedimento, e quindi il fondamento della imputazione. Ciò importa che non è l’art. 650 Cod. pen. a entrare in discussione, bensì la norma di legge cui fa capo il provvedimento trasgredito, e alla quale si deve necessariamente risalire. È da ritenere pertanto che il Tribunale esattamente abbia nella sua ordinanza impostata la questione di legittimità costituzionale sul contrasto fra le citate norme della legge del 1929 e del R. D. del 1930 e gli artt. 8, 19 e 20 della Costituzione. Si può infine, e solo ad abundantiam, osservare che, se la tesi dell’Avvocatura dovesse ritenersi esatta, si verrebbbbe a questo risultato: che mentre da un lato all’autorità di polizia sarebbe possibile elevare la contravvenzione prevista dall’art. 650 per trasgressione a un ordine fondato appunto su quelle norme, sarebbe dall’altro inibito, a chi abbia interesse a sostenere la illegittimità dell’ordine, di denunziare il contrasto fra le norme da cui si vuole che esso tragga fondamento e quelle della Cost zione.

Nel merito la Corte ritiene che il fondamento della decisione sia tutto nello stabilire con chiarezza la distinzione, da cui si disnodano poi tutte le conseguenze, fra la libertà di esercizio dei culti acattolici come pura manifestazione di fede religiosa, e la organizzazione delle varie confessioni nei loro rapporti con Stato. Questa distinzione, mentre risulta evidente dal punto di vista logico, trova nettamente fissato il suo positivo fondamento giuridico negli artt. 8 e 19 della Costituzione. La diversità di contenuto e significato di tali norme, corrispondente alla predetta distinzione, riceve la sua conferma, oltre tutto, anche dalla diversa collocazione di esse: una inserita nei “Principi fondamentali”, l’altra nel titolo dei rapporti civili e, più specificamente, nella parte relativa ai diritti di libertà. Con l’art. 19 il legislatore costituente riconosce a tutti il diritto di professare la propria fede religiosa, in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitare in privato o in pubblico il culto, col solo, e ben comprensibile, limite che il culto non si estrinsechi in riti contrari al buon costume. La formula di tale articolo non potrebbe, in tutti i suoi termini, essere più ampia, nel senso di comprendere tutte le manifestazioni del culto, ivi indubbiamente incluse, in quanto forma e condizione essenziale del suo pubblico esercizio, l’apertura di templi ed oratori e la nomina dei relativi ministri.

Ma se nell’art. 19 è una così netta e ampia dichiarazione della libertà di esercizio del culto in quanto tale, il legislatore costituente non ha mancato di considerare le confessioni religiose anche dal punto di vista, che è del tutto diverso, della loro organizzazione secondo propri statuti e della disciplina dei loro rapporti giuridici con lo Stato: il che ha fatto nell’art. 8. Per le confessioni religiose diverse dalla cattolica questo articolo ha sancito la libertà di organizzarsi secondo propri statuti, ponendo il limite, evidente anche senza esplicita dichiarazione, che tali statuti non contrastino con l’ordinamento giuridico dello Stato; ed ha poi stabilito nel terzo comma che i rapporti di dette confessioni con lo Stato sono da regolarsi con leggi, sulla base di intese con le relative rappresentanze. Ma la istituzione di tali rapporti, essendo diretta ad assicurare effetti civili agli atti dei ministri del culto, oltre che agevolazioni di vario genere, riveste, per ciò stesso, carattere di facoltà e non di obbligo. A tal proposito non si può escludere che si abbia il caso di una confessione religiosa che tali rapporti con lo Stato non intenda promuovere, rinunziando a tutto ciò che a suo favore ne conseguirebbe, e limitandosi al libero esercizio del culto quale è garantito dalla Costituzione; mentre è da considerare, più concretamente, il caso di rapporti che si intenda ma che, per una ragione qualsiasi, non si riesca a regolare; il che, del pari, non può escludere che, al di fuori e prima di quella concreta disciplina di rapporti, l’esercizio della fede religiosa possa aver luogo liberamente, secondo i dettami della Costituzione.

Se poi la facoltà di regolare i rapporti con lo Stato viene effettivamente esercitata, è evidente che, dalle norme che ne risultano, così come la confessione religiosa riceve dei vantaggi, del pari deve subire i limiti che, nell’interesse dello Stato, ad essi logicamente si riconnettono, limiti che a loro volta devono esser tali da non violare i diritti già assicurati dalla Costituzione. È pienamente legittimo pertanto, e rispondente allo spirito della Costituzione, che allorquando agli atti dei ministri di culti acattolici e all’apertura dei templi od oratorî debbansi riconoscere effetti giuridici, come, ad esempio, rispettivamente, la efficacia del matrimonio e la facoltà di far collette all’interno e all’ingresso degli edifici destinati al culto, la nomina dei ministri di culto e la istituzione di teinpli od oratori, a questi effetti e solo a questi effetti, ricadano sotto la ricognizione e il controllo dello Stato, mercè i provvedimenti di approvazione e di autorizzazione. I1 che significa anche che, in mancanza delle leggi da emanare ai sensi dell’art. 8 della Costituzione, siano frattanto da ritenersi valide, e punto in contrasto con la Costituzione stessa, le norme vigenti, come quelle impugnate, se e in quanto regolatrici degli effetti civili e non lesive della libertà di esercizio del culto.

Posto ciò, cadono tutte le argomentazioni che, in vario senso, l’Avvocatura dello Stato ha prospettato a questa Corte.

Cade innanzi tutto, per le ragioni predette, il criterio generale al quale in massima l’Avvocatura ha ispirato la sua difesa, cioè di mantenere insieme unite, per trarne effetti comuni, le due distinte situazioni ed esigenze, che attengono l’una al libero esercizio del culto e l’altra alla disciplina giuridica dei rapporti tra le confessioni religiose e lo Stato.

Vien meno poi l’argomento della asserita carenza legislativa, che seguirebbe alla dichiarazione di illegittimità costituziole delle impugnate norme. Infatti da un lato il libero esercizio del culto trova, come già si è detto, riconoscimento e limite nella Costituzione, in particolare nell’art. 19, con precetti contenenti una ben chiara e concreta disciplina, dall’altro i rapporti delle confessioni acattoliche con lo Stato, in difetto di altre norme da emanarsi a seguito di intese, continuano ad essere regolati dalle norme vigenti, nella parte che ne rimane in vita, in quanto non importa lesione della libertà di culto costituzionalmente garantita. E ciò senza considerare che il potere di questa Corte di dichiarare la illegittimità costituzionale delle leggi non può trovare ostacolo nella carenza legislativa che, in ordine a dati rapporti, può derivarne; mentre spetta alla saggezza del legislatore, sensibile all’impulso che naturalmente proviene dalle sentenze di questa Corte, di eliminarla nel modo più sollecito ed opportuno.

Infondate si rivelano anche le considerazioni relative all’ordine pubblico, presentate dall’Avvocatura dello Stato, successivamente alle deduzioni, nella memoria del 14 aprile 1958, e sulle quali, del resto, non si è insistito nella discussione orale. Senza indugiare nella confutazione dei diversi e non univoci argomenti svolti nella memoria, sarà sufficiente ricordare la sentenza n. 45 del 1957 di questa Corte (richiamata – ma per altro verso – anche dall’Avvocatura), nel punto in cui rileva doversi ritenere insussistente nel nostro ordinamento giuridico la regola che ad ogni libertà costituzionale possa corrispondere un potere di controllo preventivo da parte dell’autorità di pubblica sicurezza, in ordine ai futuri comportamenti del cittadino. Il che, come è evidente, non può escludere che sui comportamenti effettivamente verificatisi cadano, nelle fattispecie previste, le sanzioni della legge; e su quelli in atto si eserciti, anche ai fini dell’ordine pubblico, il potere della polizia, entro i limiti giuridicamente consentiti.

Circa, infine, la osservazione dell’Avvocatura dello Stato secondo la quale, in mancanza delle intese limitative — che poi non sarebbero soltanto limitative e non potrebbero esserlo, comunque, nei confronti delle libertà garantite dalla Costituzione — i culti acattolici verrebbero ad avere addirittura un trattamento preferenziale di fronte allo stesso culto cattolico, è da avvertire che siffatto argomento è estraneo alla questione da decidere, la quale resta sempre imperniata sui due punti, ben distinti, della libertà dell’esercizio del culto e della organizzazione dei rapporti fra le confessioni religiose e lo Stato. D’altra parte, a questo proposito, non è superfluo ricordare che la religione cattolica, per quanto riguarda la libertà dell’esercizio del culto, è nettamente garantita dagli artt. 8 e 19 della Costituzione, mentre per ciò che riflette i rapporti della Chiesa cattolica con lo Stato è ben noto come essi abbiano avuto il loro regolamento giuridico a mezzo del Concordato.

Venendo ora a considerare, in applicazione di quanto innanzi si è detto, le norme impugnate nel loro specifico contenuto, è da escludere, in primo luogo, che possa dirsi in contrasto con le invocate norme della Costituzione l’art. 3 della legge 24 giugno 1929. I due commi in cui questo articolo si divide vanno considerati come un tutto unico, l’uno in funzione dell’altro, sì che l’obbligo di notificare le nomine dei ministri dei culti acattolici al Ministro competente per l’approvazione è da ritenersi sancito se e in quanto da tali nomine la confessione religiosa miri a far dipendere determinati effetti nell’ambito dell’ordinamento giuridico statale; e la disposizione del secondo comma, in base alla quale nessun effetto civile può essere riconosciuto agli atti dei ministri di culto non approvati, vale a determinare in tal senso il contenuto e lo spirito del primo comma. Sicchè l’art. 3 della legge mentre da una parte lascia impregiudicata la libera esplicazione del culto (in quanto non esclude la figura del ministro del culto non approvato, ma esclude soltanto gli effetti civili degli atti da lui compiuti), viene a trovarsi in logica correlazione con l’art. 8, nella parte in cui si riferisce alla disciplina giuridica dei rapporti fra lo Stato e le confessioni acattoliche.

Per ciò che riguarda l’art. 1 del R. D. 28 febbraio 1930 è da considerare che, statuendo esso l’obbligo della autorizzazione per l’apertura di templi ed oratori in modo generale, involge non soltanto i casi in cui questa autorizzazione sia resa necessaria per il conseguimento di certi vantaggi, quali, ad esempio, quello di cui all’art. 4 dello stesso decreto, ma anche quello relativo all’apertura del tempio in quanto mezzo per una autonoma professione della fede religiosa, al di fuori dei rapporti con lo Stato. E solo pertanto in relazione a questo secondo punto che l’articolo va dichiarato costituzionalmente illegittimo.

L’art. 2 del decreto deve dichiararsi costituzionalmente illegittimo nella sua totalità, posto che esso sottopone l’esercizio della facoltà di tenere cerimonie religiose e compiere altri atti di culto negli edifici aperti al culto alla condizione che la riunione sia presieduta o autorizzata da un ministro di culto la cui nomina sia stata approvata dal Ministro competente, condizione che non riguarda gli effetti civili ed è in contrasto con la libertà ampiamente garantita dall’art. 19 della Costituzione.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

respinta la eccezione pregiudiziale proposta dall’Avvocatura generale dello Stato;

in riferimento alle norme contenute negli artt. 8 e 19 della Costituzione, dichiara:

a) non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3 della legge 24 giugno 1929, n. 1159;

b) la illegittimità costituzionale dell’art. 1 del R. D. 28 febbraio 1930, n. 289, in quanto richiede la autorizzazione governativa per l’apertura di templi od oratori, oltre che per gli effetti civile, anche per l’esercizio del culto;

c) la illegittimità costituzionale dell’art. 2 dello stesso decreto 28 febbraio 1930, n. 289.

(omissis)