Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 28 Luglio 2006

Sentenza 18 giugno 1987

Pretura di Volterra. Sentenza 18 giugno 1987: “Tutela della religione dello Stato e tutela del sentimento religioso”

Giud. Schiavone; imp. M. e altri.

Fatto e svolgimento del processo. — Con rapporto giudiziario della locale compagnia dei carabinieri M. S., S. E. e G. F. erano denunciati perché, in qualità di organizzatori della «Festa dell’unità» di Castelnuovo VC. avevano esposto o concorso ad esporre in una pubblica manifestazione dei cartelli satirici le cui frasi ed immagini vilipendevano la religione dello Stato e contenevano bestemmie contro la divinità o i simboli venerati nella religione dello Stato.
I prevenuti erano tratti a giudizio per rispondere dei reati trascritti in epigrafe, art. 402 e 724 c.p., e all’odierno dibattimento, interrogati gli stessi, escussi i testi, data lettura degli atti consentiti, p.m. e difesa concludevano come da verbale.

Motivi della decisione. — Preliminarmente questo pretore ritiene di dover risolvere il dubbio in merito all’esatta configurazione giuridica dell’imputazione elevata: occorre, cioè, verificare se i fatti addebitati agli imputati concretino la fattispecie criminosa di cui all’art, 402 c.p. ovvero altra, ovvero nessuna, in considerazione dei mutamenti legislativi intanto verificatisi.
Il capo I del titolo IV del libro II del codice penale è intitolato ai «delitti contro la religione dello Stato e i culti ammessi») e comprende cinque articoli, di cui i primi quattro (art. 402-405) tutelano in vario modo la religione dello Stato e/o il culto cattolico, mentre l’art. 406 punisce i «delitti contro i culti ammessi nello Stato».
È opinione acquisita, specie in dottrina, che le disposizioni contenute negli art. 402-405 c.p. creano una condizione di particolare protezione giuridica per la religione dello Stato — peraltro ritenuta più volte conforme alla Costituzione (cfr. Corte cost. n. 39 del 1965, Foro il., 1965, I, 929, e, più di recente, sebbene indirettamente, Corte cost. n. 188 del 1975 id., 1975, I, 2418)
In ispirazione ai principi politici che presiedettero alla regolamentazione dei rapporti fra lo Stato e la Chiesa cattolica e alla cui pedissequa tutela esse furono poste.
Lo statuto albertino aveva posto la parola fine alla completa reciproca indipendenza a cui erano improntati i secolari rapporti fra due enti sovrani e a questo nuovo regime s’ispirò sia il trattato 11 febbraio 1929 tra la S. Sede e l’Italia, reso esecutivo con 1. 27 maggio 1929 n. 810, il cui art. 1 recitava: «L’Italia riconosce e riafferma il principio consacrato nell’art. 1 dello statuto del regno 4 marzo 1848 per il quale la religione cattolica apostolica e romana è la sola religione dello Stato», sia il concordato sottoscritto nella stessa data.
Com’è noto, l’intervento della Costituzione repubblicana non ha mutato molto il panorama e se non ha costituzionalizzato il contenuto dei cd. patti lateranensi (art. 7, II comma, II parte, Cost.), certamente ha attribuito rango costituzionale al principio che i rapporti fra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica abbiano una regolamentazione di natura pattizia (art. 7 Cost.) ed impegnino, oltreché gli stipulanti, altresì i rispettivi «sudditi».
Senza voler affrontare delicati problemi di ordine costituzionale, peraltro non incidenti ai fini della presente decisione, è di tutta evidenza che il codice penale, datato 19 ottobre 1930 e, quindi, posteriore ai patti, ha voluto riservare alla religione professata dalla stragrande maggioranza dei cittadini una particolare attenzione, infatti, ai sensi dell’art. 406 c.p. chiunque commetta contro un culto ammesso nello Stato quegli stessi fatti di vilipendio preveduti e repressi dagli art. 403, 404 e 405 c.p., a tutela della religione di Stato, è punito con pena inferiore.
La diversità di disciplina, poi, è rilevante sotto altro profilo; cosi se per i «culti ammessi» sono punite le offese arrecate mediante vilipendio di persone (comb. disp. art. 406-403 c.p.) o di cose (comb. disp. art. 406-404 c.p.) ed è represso il turbamento di funzioni religiose (comb. disp. art. 406-405 c. p.), solo la religione dello Stato, viceversa, riceve una tutela tout court essendone punito il vilipendio in se e per se disancorato, cioè, da ogni offesa concreta a persone o cose; in altre parole si può dire che la nostra legge penale non punisce il vilipendio di un culto ammesso nello Stato.
Questo, in estrema sintesi, era lo schema normativo che era di fronte al legislatore nel momento in cui con 1, 25 marzo 1985 n. 121 ha ratificato e dato esecuzione all’accordo, con protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, con il quale sono state apportate modificazioni ai concordato lateranense dell’li febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa sede.
Modificazioni, per i fini che qui interessano, invero radicali poiché, ai sensi dell’art. 13, 1’ comma, I, 121/85, lo stesso concordato è espressamente abrogato se ed in quanto «le (sue) disposizioni non (sono) riprodotte nel presente testo»; cioè, sia nell’accordo vero e proprio che nel protocollo addizionale, poiché entrambe hanno ricevuto «piena ed intera esecuzione» dall’art. 2, I comma, 1. 121/85.
Orbene, al punto n. 1 del protocollo si legge: «Si considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato dai patti lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano» e ciò, se sul piano costituzionale inevitabilmente importerà un nuovo ruolo dell’art. 7 ed una nuova linfa per l’art. 8, sul piano penalistico è evidentemente gravido di conseguenze. Di queste ultime, la prima e più vistosa è certamente che l’art. 402 c.p. ha perduto l’oggetto della sua tutela: non si può vilipendere ciò che non esiste più nella realtà giuridica.
Invero, potrebbe dirsi che il punto 1 del protocollo afferma che la religione cattolica non è più la sola religione dello Stato e non che è scomparso il principio della «religione di Stato»,
A parere di questo giudicante, tale interpretazione — oltre a vacillare storicamente, perchè non tiene conto delle vicissitudini che hanno teso necessario e/o opportuno affermare che la religione cattolica apostolica e romana è la sola religione dello Stato» (art, I trattato 11 febbraio 1929) — finisce col vanificare se stessa, poiché propone come religione dello Stato tutte le religioni, dacchè indiscriminatamente esse «sono egualmente libere davanti alla legge» (art. 8 Cost.). Ciò senza contare che detta interpretazione porterebbe a considerare, ci contrario, abrogato l’art. 406 c.p. che tutela i culti ammessi e ad estendere a questi la speciale protezione penale garantita dagli art. 402 ss. ma finirebbe inevitabilmente, contro l’insormontabile ostacolo letterale rappresentato dall’uso singolare della locuzione «religione dello Stato» che è cosa ben diversa dal «sentimento religioso».
Riaffermata, dunque, l’esattezza della prima interpretazione, accolta da questo giudicante sulla scia di autorevole dottrina, resta da affermare che la religione cattolica entra a pieno titolo nella categoria dei «culti ammessi che diventa, ormai, da residuale, l’unica con cui confrontarsi.
L’art. 406 c,p., però, come visto, non punisce il vilipendio immediato del «culto» bensi solo talune fattispecie di attuazione mediata dello stesso (art. 403, 404 c.p.), che nella materialità del fatto qui in giudizio non sussistono e pertanto gli imputati vanno mandati assolti.
Questa, in tutta coscienza, è l’unica interpretazione che possa evincersi dall’attuale quadro normativo.
Ma il fatto tipico non sussiste anche sotto altro e più radicale aspetto, cioè sotto il profilo stesso del vilipendio. Questo termine, nel linguaggio comune — al quale l’interprete deve rifarsi per volontà della stessa legge (art, 12, 1’ comma, preleggi) —significa: schernire, disprezzare, tenere a vile — nella specie —i valori etico spirituali della religione cattolica.
A questo giudicante, invero, non pare- che nei disegni e nelle frasi di cui all’imputazione (peraltro, pedissequa riproduzione di due «vignette» del noto umorista Giuliano apparse sulla rivista «Frezeer» del 9 dicembre 1985, si possa ravvisare quel dileggio di cui s’è detto e che, comunque, deve corrispondere non ad un sentire soggettivo bensì a quello come oggettivamente è venuto a formarsi nella coscienza di un popolo in un dato momento storico.
Il Cristo — raffigurato fra i due ladroni in dette «vignette» rappresenta i valori universali di amore, tolleranza e fratellanza che, secondo l’idea dell’umorista, sono traditi, da un lato, da quelle forze politiche che amano definirsi cristiane, dall’altro, dal modus vivendi perbenista clic cela la propria ipocrisia dietro la professione di comodo di una agiografica fede cattolica,
Che tali concetti siano stati raffigurati attraverso una metafora è evidente, o lo è per un duplice ordine di motivi:
a) innanzitutto perchè un’opinione di Gesù Cristo sull’operato del ministro della pubblica istruzione, sen. F. Falcucci, è storicamente quanto meno improbabile («La Falcucci mi fa: E tu che cazzo vuoi? A 33 anni pretendi ancora il diritto allo studio? Allora ha chiamato la polizia. Io ho urlato ‘Forza ragazzi’ e mi sono lanciato a testa bassa. Ma mi hanno preso e frustato. Gli apostoli se l’erano date a gambe e tutti gli altri del movimento avevano organizzato un sit-in pro Barabba. Caro mio fare il Gesù Cristo è un mestieraccio…»)
b) secondariamente, poi, era proprio in animo del Cristo evangelico «sobillare le folle» nel sedimento culturale più profondo, creando un movimento universale ispirato ad un’attiva, più che contemplativa, spiritualità, che realizzasse il dettato «ama il prossimo tuo come te stesso».
Cosi, semmai fosse possibile e semmai ve ne fosse bisogno, il Cristo, a parere di questo giudice, esce esaltato, dalla seconda vignetta, nel suo splendore e nella sua purezza più profonda, pur se continuamente attaccato, come in origine, dai «mercanti nel tempio» (il secondo cartello, infatti, raffigura due personaggi e la seguente dicitura: «Gesù Cristo aveva ormai 33 anni e quindi la sua vocazione alla contestazione giovanile puzzava. Anche gli apostoli erano gente di mezza età e quindi come movimento non stava in piedi. A 33 anni uno deve avere il suo posto di lavoro e la sua famiglia e non andare in giro per la Galilea a sobillare le folle. Se veramente era figlio di Dio era un figlio molto viziato. L’abbiamo crocifisso per il suo bene. Quindi ogni volta che torna lo inchiodiamo»).
Altresì evidente è, infine, che il linguaggio usato nella prima «vignetta» è differente da quello della seconda e ciò per l’ovvio motivo che tanto i destinatari, quanto gli argomenti affrontati sono dissimili: nella prima sono i giovani e ben si adatta ad essi un idioma scarno, simbolico, fatto, come suoi dirsi, d’immagini, a volte anche rude ma, comunque, abbastanza efficace — nella specie — a rappresentare il disagio di chi ad una richiesta di comprensione ritiene — in una libera manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.) — d’aver ottenuto una risposta di repressione. Mentre, d’altro canto. «gli apostoli che se l’erano date a gambe» risponde certamente alla verità storica rappresentata dai «tradimento» di Pietro, Nella seconda vignetta, invece, il linguaggio è quello conformista, quasi asettico, con intonature saccenti, idoneo a parafrasare — a parere dell’autore — il contegno che la gerarchia ebraica effettivamente tenne e sulla cui ipocrisia, come su quella di parte del popolo, il sacrificio del Cristo trionfa, fortunatamente, ormai da duemila anni.
Altro che vilipendio! Altro che bestemmie! Da una analisi ra¬zionale ed un minimo attenta emerge, al contrario, un profondo segno d’amore verso il Cristo e l’intero messaggio evangelico.