Sentenza 17 maggio 2002, n.17134
Corte di Cassazione. Sezione lavoro. Sentenza 17 maggio 2002, n. 17134: “Gli istituti scolastici, ancorchè aventi la qualità di Congregazione religiosa, rientrano fra le imprese commerciali in tema di benefici della fiscalizzazione degli oneri sociali di malattia”.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Vincenzo TREZZA – Presidente –
Dott. Donato FIGURELLI – Consigliere –
Dott. Alessandro DE RENZIS – Consigliere –
Dott. Giuseppe CELLERINO – Rel. Consigliere –
Dott. Maura LA TERZA – Consigliere –
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
INPS – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DELLA FREZZA 17 presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati FABRIZIO CORRERA, DOMENICO PONTURO, FABIO FONZO, giusta delega fin atti;- ricorrente –
contro
ISTITUTO BARBARA MELZI DELLE FIGLIE DELLA CARITÀ CANOSSIANE, ISTITUTO DELLE FIGLIE DELLA CARITÀ CANOSSIANE DELLA CONGREGAZIONE DELLE FIGLIE DELLA CARITÀ DETTE CANOSSIANE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA VIA DI SANTA COSTANZA 27, presso lo studio dell’avvocato ARMANDO MONTEMARANO, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato
ANDREA SOLFANELLI, giusta delega in atti;- controricorrente –
avverso la sentenza n. 822-99 del Tribunale di MILANO, depositata il 30-01-99 – R.G.N. 489-98;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17-05-02 dal Consigliere Dott. Giuseppe CELLERINO;
udito l’Avvocato SGROI per delega CORRERA;
udito l’Avvocato SOLFANELLI;
udito il P. M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Ennio Attilio SEPE che ha concluso per d’accoglimento del ricorso.
R. G. 2941-00
Fatto
Il Pretore di Milano – sezione distaccata di Legnano, in sede d’opposizione a vari decreti monitori ottenuti dall’Istituto nazionale della previdenza sociale con riferimento a pretese contributive dovute dal febbraio ’83 all’aprile ’87 dall’Istituto Barbara Melzi delle Figlie della carità canossiane e dall’Istituto delle Figlie della carità canossiane della Congregazione delle figlie della Carità, dette Canossiane, istituti religiosi esercenti attività d’istruzione privata, con sentenza del novembre ’97, revocava le ingiunzioni di pagamento, riconoscendo il beneficio della fiscalizzazione degli oneri sociali di malattia in considerazione del loro inquadramento, ai fini previdenziali e assistenziali, tra le imprese commerciali.
L’Inps appellava la sentenza, negando che tale beneficio potesse essere accordato, “in quanto gli Istituti in questione non sono imprese e non sono imprese commerciali ma industriali” (v. narrativa sentenza impugnata).
Il Tribunale, dal canto suo, ha confermato la sentenza pretorile, argomentando brevemente che l’art. 4, comma 19 , del d. l. 12 settembre 1983, n. 463, convertito dalla l. 11 dicembre 1983, n. 638, aveva dettato, ai fini della fiscalizzazione, “una nozione di impresa commerciale specifica”, essendo tale “non l’impresa commerciale in quanto esercente una attività oggettivamente commerciale”, ma quella considerata commerciale ai fini previdenziali e assistenziali.
Contro questa sentenza l’Inps propone ricorso per cassazione, sostenuto da un motivo.
Resistono gli Istituti canossiani con controricorso, ulteriormente illustrato da memoria.
Diritto
L’Inps denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 4, comma 19, della l. 11 novembre 1983, n. 638 e degli artt. 2082 e 2195, cod. civ., oltre vizi di motivazione, sostenendo, anzitutto, che all’art. 4, comma 19, cit., che ha ridotto “le aliquote complessive della contribuzione per la assicurazione obbligatoria contro le malattie a carico delle imprese commerciali, considerate tali ai fini dell’inquadramento previdenziale e commerciale”, va data una interpretazione restrittiva, involgendo un beneficio di natura fiscale.
L’Istituto previdenziale rileva, inoltre, che essendo impresa commerciale quella che attua lo scambio di beni o servizi prodotti da altri, tale non può considerarsi quella che produce direttamente il “servizio didattico” e, sotto questo profilo, aggiunge che la legge ha escluso dai benefici della fiscalizzazione le imprese produttive di servizi, avendoli solo concessi alle imprese manifatturiere, estrattive e impiantistiche, oltreché, naturalmente, alle imprese oggettivamente commerciali.
In conformità a ciò, obietta che la precedente inclusione, da parte sua, degli istituti scolastici nel settore commerciale era derivata dall’opinione secondo cui solo le imprese manifatturiere potevano essere ascritte alla categoria industriale, diversamente da quelle, appunto, la cui prestazione era di natura “eminentemente intellettuale riconducibile al commercio” e aggiunge che tale tesi fu abbandonata in seguito; soprattutto, a una sentenza delle sezioni unite della Corte di Cassazione, che aveva riconosciuto la natura d’impresa industriale alle case di cura e agli istituti di vigilanza.
Espone, infine, con il conforto di altre sentenze di questa Corte, puntualmente indicate, che l’inserimento nell’attività industriale degl’istituti d’istruzione discende dalla loro funzione di “distribuzione del sapere” e di “produzione di conoscenza”, in cui s’innestano l’elemento personale e quello materiale, dove lo scopo di lucro è soddisfatto dall’idoneità della struttura a raggiungere l’obbiettivo del pareggio di bilancio, quale dato sufficiente per inquadrare tali attività nella classificazione codicistica, rilevando, a questo proposito, che la natura d’impresa industriale potrebbe essere esclusa solo se l’attività fosse esercitata in modo gratuito.
A loro volta le parti intimate, ricapitolate le vicende dell’istituto della fiscalizzazione degli oneri sociali di malattia con particolare riferimento agli istituti d’istruzione, oppongono che la deduzione dell’attività di carattere industriale degli Istituti canossiani costituisce argomentazione nuova, mai prima dedotta, che non può trovare ingresso in sede di legittimità, avendo l’Inps, che aveva agito in sede monitoria, sempre affermato che gli oneri sociali dovevano essergli corrisposti poiché non era applicabile alla fattispecie l’art. 4, comma 19, del d. l. 12 settembre 1983; n. 463, essendo indifferente la loro natura imprenditoriale o meno e, in questo quadro, lamentano che l’Inps non abbia mai formalizzato un diverso inquadramento classificatorio rispetto a quello commerciale prima attribuito, essendo destinatarie, per tale qualità loro riconosciuta “ai fini previdenziali”, del beneficio della fiscalizzazione degli oneri sociali, istituito dalla disposizione in argomento, tenuto anche conto che l’art. 49 della l. 9 marzo 1989, n. 88 ha disposto, al terzo comma, che “restano comunque validi gli inquadramenti già in atto nei settori dell’industria, del commercio… “.
Inoltre, osservano, riallacciandosi al secondo comma dell’art. 2195, cod. civ., secondo il quale ‘le disposizioni della legge che fanno riferimento alle attività e alle imprese commerciali si applicano, se non risulta diversamente, a tutte le attività indicate in questo articolo e alle imprese che le esercitanò, che gli istituti privati d’istruzione, quand’anche dovessero considerarsi imprese industriali, ma considerate commerciali ai fini dell’inquadramento previdenziale e assistenziale, sono destinatari del beneficio della fiscalizzazione.
Il ricorso, ulteriormente discusso in sede d’udienza, non può essere accolto.
Bisogna partire, per convincersi di quest’opzione decisoria, da due serie di dati temporali indiscussi e pacifici in causa, che hanno visto rispettivamente, da un lato, ben oltre l’aprile del 1986 (“messaggio” Inps n. 4516 del 28 aprile) e sino alla metà degli anni 90, interrotto dall’intervento ispettivo dell’autunno del 1995, l’Istituto previdenziale convinto assertore – con il formale beneplacito dei Ministeri interessati sulla gestione della fiscalizzazione degli oneri sociali di malattia, sulla scia del precedente “messaggio” dell’83, ricordato anche dalla sentenza impugnata – dell’applicazione dell’art. 4, comma 19, ai datori di lavoro che gestiscono, fra l’altro, istituti privati d’istruzione, centri di addestramento professionale, palestre, scuole di danza, ecc., e dall’altro, il periodo contributivo, da cui è scaturita la presente controversia, che parte, sintomaticamente, dal febbraio 1983 (v. d. l. cit. n. 463-’83: “Al fine di concorrere al contenimento dell’inflazione ed al miglioramento dei livelli occupazionali, le aliquote complessive della contribuzione per l’assicurazione obbligatoria contro le malattie a carico delle imprese commerciali, considerate tali ai fini dell’inquadramento previdenziale ed assistenziale… sono ridotte a decorrere dal 1 febbraio 1983..) e termina con l’entrata in vigore del d. l. 28 aprile 1987, n. 156, art. 1, comma 6, i cui rapporti ed effetti, ancorché non convertito, sono stati convalidati e “fatti salvi” dall’art. 1, comma 2, della l. 29 febbraio 1988, n. 48.
Tra queste due serie parallele di evenienze sono intervenute la sentenza 11 aprile ’94, n. 3353, delle Sezioni unite, peraltro resa in tema d’applicazione degli artt. 35 e 18, St. lav., anticipata da altra, da cui era scaturita l’urgenza di definire la questione di massima, che ha avvalorato la tesi della formazione del prodotto “istruzione” come bene ideologico fruibile non in senso commerciale e di scambio, ma in sè e, appunto per questo, “industriale”, ed altre (18 maggio ’94, n. 4837, sempre delle Sezioni unite; 13 luglio ’95, n. 7683; 1 agosto ’95, n. 8411), per non considerare quelle immediatamente successive: 13 giugno 1996, n. 5419; 3 marzo ’98, n. 2319; 9 marzo ’99, n. 2017; 25 agosto ’99, n. 8873, che hanno approfondito la questione della natura classificatoria delle imprese ai fini delle fiscalizzazione, e una serie di leggi sul tema.
Va ancora ricordato che “gli istituti privati d’istruzione”, esplicitamente richiamati dal messaggio Inps n. 13280 dell’aprile ’83, con il conforto dell’opinione del Ministero del lavoro e della previdenza sociale, al pari degli altri soggetti ivi elencati, non erano mai stati oggetto d’una classificazione categoriale ad opera di qualsivoglia autorità sovraordinata all’Istituto previdenziale, ma avevano acquisito l’imprimatur previdenziale, attraverso un comportamento concludente dell’Inps, che applicava loro, de plano, l’art. 4, comma 19, come conferma, ancor oggi, la difesa dell’Ente (v. ricorso, pgg. 617): “È pur vero che l’Inps ha inquadrato nel commercio gli istituti scolastici… E tuttavia tale classificazione traeva la propria fonte ispiratrice nella corrente dottrinaria e nell’orientamento giurisprudenziale che… ritenevano che l’attività didattica…. fosse una prestazione eminentemente intellettuale riconducibile al commercio.”.
La difesa degli Istituti canossiani d’istruzione contesta il revirement dell’Ente, adottato in peius senza alcuna preventiva contestazione e opportunità di contraddittorio, tra l’altro, merita osservare incidentalmente, dovuti in base ai principi generali d’indubbia civiltà giuridica formulati dalla legge 7 agosto 1990, n.
241.
In proposito, effettivamente, la tesi opposta, vale a dire quella sostenuta dall’Inps, trova un consistente ancoraggio in alcune sentenze di questa Sezione che, in tema d’inquadramento del datore di lavoro prima dell’entrata in vigore dell’art. 49 della l. 9 marzo 1989, n. 88, ai sensi del quale la classificazione dei datori di lavoro disposta dall’Ente ha effetto a tutti i fini previdenziali e assistenziali, hanno affermato il principio secondo il quale l’atto con cui l’Inps modifica l’inquadramento di un datore di lavoro (ad es. dal settore del commercio a quello industriale, o viceversa), disconoscendo il diritto alla fiscalizzazione degli oneri sociali, non ha natura provvedimentale in senso stretto, dovendo, in questa materia, “l’istituto assicuratore adeguare il suo comportamento a quella che ritiene essere la consistenza degli obblighi delle parti e i suoi atti sono vincolati e meramente ricognitivi…”: v.; ex multis, Cass. 13 luglio 1995, n. 7683 e, da ultimo, 25 agosto 1999, n. 8873, soprattutto in motivazione.
Il principio, pur condivisibile in quelle fattispecie, non può però rifluire tout court in questa vicenda, non tanto perché in entrambe le accennate decisioni risulta che era stata accertata, con sentenza passata in giudicato (v. motivazioni), la natura industriale dell’attività svolta dalle società interessate in quei giudizi, quanto perché in questo caso è trasparente il complessivo comportamento dell’Istituto previdenziale che, dapprima, affida all’opinio juris et necessitatis l’inserimento della scuola privata d’istruzione tra le imprese commerciali, “provvedendo” in senso tecnico (e, quindi, per rifarsi alla costruzione della sentenza n. 8873, appena citata, con effetti costitutivi, rilevanti ai fini dell’applicazione dei “principi disciplinanti gli atti di annullamento d’ufficio di precedenti determinazioni [tra cui, specificamente, quello che impone lo svolgimento di un procedimento amministrativo per la valutazione dell’interesse pubblico alla rimozione o conservazione dell’atto, in comparazione con gli altri interessi implicati]”) alla cura degli interessi deputati alla sua gestione, e poi, sullo spunto di una rivisitazione dottrinaria e giurisprudenziale della funzione didattica espressa dagli istituti privati d’istruzione – tra l’altro volta a salvaguardare la prestazione professionale della docenza, in conseguenza dei limiti posti dall’art. 4 della l. 11 maggio 1990, n. 148 alla legislazione garantista dell’art. 18, St. lav., (v. SS. UU. 11 aprile 1994, n. 3353) – ha ritenuto di attribuire efficacia generale a quest’ultima decisione con effetto retroattivo.
Si legge, infatti, nel ricorso per cassazione dell’Inps (pgg. 6-7):
“È pur vero che l’INPS ha inquadrato nel commercio gli istituti scolastici, che come dimostreremo in seguito, appartengono all’industria. E tuttavia tale classificazione traeva la propria fonte ispiratrice nella corrente dottrinaria e nell’orientamento giurisprudenziale di merito e di legittimità che erroneamente, per quanto diremo, ritenevano che l’attività didattica non producesse un servizio, un aliquid novi rispetto alle utilità fornite dai beni preesistenti, ma fosse una prestazione eminentemente intellettuale riconducibile al commercio. Sempre per errore venivano classificate nel commercio le case di cura, gli istituti di vigilanza, i centri di elaborazioni dati. La situazione è cambiata allorquando (1992) le Sezioni Unite della Corte Suprema di Cassazione hanno riconosciuto alle imprese citate natura industriale, in quanto produttrici di un servizio, nuovo e suscettibile di autonoma valutazione economica.
Alle pronunce della Corte di Cassazione l’INPS si è adeguato, rettificando il precedente inquadramento perché non conforme a diritto… “.
Nessun “giudicato”, quindi, in questa vicenda, ma un nuovo inquadramento fondato, esclusivamente, sul diverso apprezzamento del dato “sensibile” (ovvero industriale) emerso in un diverso caso giudiziario, non invocato dalla parte privata come titolo della pretesa per l’attuazione della legislazione di sostegno ad un’attività industriale, ma recepito ed applicato dall’Ente “ex cathedra” con effetto retroattivo, per escludere gli istituti privati d’istruzione dall’esonero di cui al comma 19 dell’art. 4, d. l. n. 463-’83, perché “non imprese commerciali”.
Orbene, ritiene il Collegio che l’endiadi “imprese commerciali, considerate tali ai fini dell’inquadramento previdenziale ed assistenziale”, contenuta nel comma in argomento, intenda esprimere una esigenza ricognitiva del legislatore, fondata sulla base del dato socio economico dell’epoca, dove agli interventi a sostegno dell’economia, dapprima introdotti a favore delle imprese manifatturiere ed estrattive, colpite dalla crisi economica della seconda parte degli anni settanta (d. l. n. 15-77), e poi estesi alle imprese “commerciali di esportazione, alle imprese alberghiere ed ai pubblici esercizi” (d. l. n. 573-77) e prorogati, includendo di volta in volta le imprese artigiane, quelle impiantistiche del settore metalmeccanico, costituite in spa; quelle idrotermali e quelle di noleggio films e d’esercizio delle sale cinematografiche (d. l. n.
20-79) e determinate attività agricole (l. n. 92-’79, art. 6), ecc., seguì una legislazione più diffusa attraverso la riduzione degli oneri sociali (d. l. n. 301-’80, poi convalidato dalla l. n. 687-80).
È in questo contesto torrentizio e disomogeneo che interviene l’art. 4, comma 19, del d. l. 463 dell’83 per “concorrere al contenimento dell’inflazione ed al miglioramento dei livelli occupazionali” attraverso la riduzione delle “aliquote complessive della contribuzione per l’assicurazione obbligatoria contro le malattie”, in favore delle “imprese commerciali, considerate tali ai fini dell’inquadramento previdenziale e assistenziale”.
Il Procuratore generale, nel corso della sua requisitoria, ha inteso attribuire all’endiadi un significato riduttivo specifico, osservando che il beneficio in argomento debba applicarsi non salo a quelle imprese che siano oggettivamente commerciali, ma che lo siano anche dal punto di vista assistenziale e previdenziale, introducendo così, per un certo verso, i problemi del doppio inquadramento ai fini del regime contributivo e dello sgravio contributivo e pervenendo, pertanto, alla conclusione di doverlo escludere, non rivestendo gli istituti d’istruzione la natura dell’impresa commerciale; bensì d’impresa svolgente attività industriale, nè possedendo alcun riferimento plausibile; per così dire esterno, ad una collocazione previdenziale nel regime commerciale.
II Collegio non ritiene di condividere questa tesi, ma di doverne invertire l’impostazione, perché la civiltà giuridica rifugge dalla regola del post hoc (sia pure autorevolmente affermato dalla giurisprudenza delle Sezioni unite), ergo propter hoc, reputando che nel caso in esame entri in gioco un problema di rinvio della disposizione normativa in argomento ad un’altra fonte.
È noto, infatti, che nei casi di richiamo, da parte della fonte che regola il caso, ad un altro sistema normativo, si ha il c. d. rinvio recettizio o materiale ogni volta che la norma di rinvio richiama una disposizione o un complesso di disposizioni determinate che perfezionano l’ordinamento rinviante, mentre si ha il c. d. rinvio formale o non ricettizio quando la norma richiamata è accolta dall’ordinamento attivo nei limiti di qualità o valutazioni giuridiche che diventano rilevanti per esso.
Reputa il Collegio che la chiave di lettura del rinvio operato dal legislatore vada ricercata nella prima figura sistematica, intendendo il legislatore, per arginare la crisi economica dilagante ed incentivare l’occupazione, contenendo il costo del lavoro, promuovere un intervento generalizzato in favore di tutte le attività rispondenti al concetto, allora condiviso, di attività commerciale, come “tale considerata ai fini previdenziali”.
Ciò si desume non solo dal già “messaggio” dell’Istituto della previdenza sociale risalente al 1983, in conformità al pensiero dell’epoca e alla volontà governativa, che includevano, fra altre, il servizio istruzione nel “commercio”, ma dal collegamento testuale dell’espressione “impresa commerciale” alla sua valenza previdenziale, quale specificazione propria e totalizzante, rispetto alla sistemazione codicistica dell’art. 2195, e dalla contemporanea esclusione di quelle imprese che, in precedenza, il legislatore aveva definito “commerciali”, deputate all’esportazione o a servizi alberghieri o di pubblico servizio “di cui all’art. 1 della l. 8 agosto 1977, n. 573”, le quali beneficiavano della fiscalizzazione in applicazione del d. l. 7 febbraio ’77, n. 15.
In questo quadro, non è senza significato la circostanza che solo a cavallo dei primi anni ’90 la giurisprudenza di questa Corte, concorrendo, con l’autorevolezza delle sue pronunce, a distinguere caso da caso, contribuendo con la dottrina a mettere ordine alla legislazione alluvionale dettata anche dall’emergenza economica, abbia definito imprese industriali produttrici di servizi le case di cura (Cass. 23 febbraio 1988, n. 1932; Cass. 15 gennaio 1987, n. 281), gli istituti di vigilanza (Cass. 11 marzo 1993, n. 29292; Cass. 22 aprile 1992, n. 4844; Cass. 14 luglio 1988, n. 4622), l’attività consistente nella trasposizione di dati contabili, forniti dai committenti, su schede meccanografiche, destinate ad essere inserite negli elaboratori elettronici dei committenti medesimi (Cass. 17 aprile 1990, n. 3176), l’attività di memorizzazione in computer (Cass. 4 aprile 1991 n. 3525), l’attività di consulenza finanziaria o industriale (Cass. 9 dicembre 1992; n. 12989; Cass. 17 febbraio 1992 n. 2921; Cass. 10 gennaio 1992 n. 197), l’attività di studio, analisi, raccolta e aggregazione di dati aziendali (Cass. 10 febbraio 1992, n. 1456), l’attività di revisione contabile e di certificazione (Cass. 16 giugno 1990, n. 6069), pervenendo, infine, con la sentenza n. 3353 del ’94, già citata, delle Sezioni unite, a confutare il diverso orientamento emerso nella sentenza del 19 gennaio 1989, n. 253, di questa sezione, reso in relazione all’attività di un istituto scolastico privato.
Per contro, con riguardo alla legislazione degli anni di riferimento, di cui sopra s’è fatto cenno per inferire la specificità della questione sottoposta a questa giustizia, è appena il caso di ricordare che con l’art. 1; 6 comma, del d. l. 28 aprile 1987, n.
156, (i cui effetti, ancorché non convertito, sono stati convalidati dall’art. 1, 2 comma, della l. n. 48-88), fu previsto che: “A favore delle imprese commerciali di cui all’articolo 4, comma diciannovesima, del d. l. 12 settembre 1983, n. 463, convertito, con modificazioni dalla l. 11 novembre 1983, n. 638, ed all’articolo 1 della l. 8 agosto 1977, n. 573 (sono le imprese commerciali d’esportazione, gli esercizi alberghieri, ecc.) e degli enti, fondazioni e associazioni senza fine di lucro, che erogano le prestazioni assistenziali di cui all’articolo 22 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, è concessa per ogni mensilità, fino alla dodicesima compresa, una riduzione sul contributo di cui all’articolo 31; comma primo, della l. 28 febbraio 1986, n. 41, di lire 43.000 per ogni dipendente.”.
È sintomatico, ad avviso del Collegio, con riferimento a questa disposizione, por mente a quattro circostanze significative.
La prima non solo involge il dies a quo (aprile) della riduzione contributiva “per le prestazioni del Servizio sanitario nazionale per i lavoratori dipendenti di tutti i settori, pubblici e privati….”, ma soprattutto, per quanto interessa questa decisione, costituisce il termine finale, come sopra ricordato, della pretesa azionata monitoriamente dall’Istituto della previdenza sociale.
La seconda richiama esplicitamente le imprese commerciali individuate dall’art. 4, 19 comma, e le altre imprese commerciali, che pure erano state interessate dall’esonero fiscale.
La terza include innovativamente gli “enti, fondazioni e associazioni senza fine di lucro, che erogano le prestazioni assistenziali di cui all’articolo 22 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616”.
La quarta investe le argomentazioni dell’Inps, adombrate nel ricorso e sviluppate nella discussione orale, secondo cui, se si è ben compresa la tesi previdenziale, in forza di quest’inclusione, gli Istituti canossiani hanno potuto fruire ex novo dei benefici d’incentivazione (v. anche controricorso, pg. 3: “Si costituiva l’Inps eccependo…”).
Ora, sebbene sia fuor di luogo, perché la questione esula da questa vicenda processuale, discettare in questa sede se gli Istituti canossiani rispondano ai requisiti degli enti senza fine di lucro beneficiari dell’intervento di sostegno, sia pure nella più generale precisazione espressa dal d. l. 30 dicembre 1987, n. 536, convertito nella l. 29 febbraio 1988, n. 48, (dove – art 1, comma 7, – tra “gli enti, fondazioni e associazioni senza fine di lucro che erogano le prestazioni assistenziali di cui all’articolo 22 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616” , ovvero esercitano funzioni specifiche in tema di sicurezza sociale e di beneficenza pubblica per famiglie bisognose di detenuti o di vittime; per l’assistenza post penitenziaria o in favore di minorenni o per protezione sociale, sono comprese anche “le istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza,..”), ciò che appare particolarmente indicativa in questa vicenda è che, a partire dall’aprile dell’87, l’Inps non contesta d’aver (ri)accordato il beneficio, prospettando però, durante la discussione orale, che l’accoglimento della tesi degli istituti d’istruzione in relazione al periodo precedente evidenzierebbe un vulnus all’art. 33 della costituzione.
Com’è noto, questa disposizione vieta ogni forma, anche indiretta, d’intervento statale, oneroso per le sue finanze, in favore di enti o privati che istituiscono scuole o istituti d’istruzione, sicché conseguirebbe l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 19, se interpretato nel senso loro favorevole (e qui accolto).
La tesi, benché suggestiva, rende esplicita la sua strumentalità e l’evidente infondatezza sol che si ponga mente al fatto che, se si ammette il beneficio sotto il profilo della sua destinazione in favore di un ente senza fine di lucro, non si vede come se ne debba escludere la valenza allorquando la stessa attività scolastica venga indagata sotto il profilo di “impresa”, nel senso ricavabile dalla sentenza n. 3353 delle Sezioni unite.
Che, inoltre, l’accennata questione non sia rilevante discende dal fatto che l’intervento in discorso non era accordato agli Istituti canossiani, in quanto scuole, ma perché inseriti in un contesto socio – economico generalizzato (“imprese commerciali, considerate tali…”), positivamente apprezzato dal legislatore, nel senso sopra riferito.
D’altra parte. volendo concludere il panorama legislativo maturato tra l’83 e il ’95, ovvero durante il periodo in cui s’è dipanata la presente vicenda, non pare inutile segnalare che, attribuita all’Istituto della previdenza sociale (art. 49, l. 9 marzo 1989, n. 88) la competenza di classificare i datori di lavoro con “effetto a tutti i fini previdenziali ed assistenziali”, secondo determinati criteri [commi 1, lettere da A) ad E) e 2], la seconda parte del terzo comma stabili: “Restano comunque validi gli inquadramenti già in atto nei settori dell’industria, del commercio e dell’agricoltura o derivanti da leggi speciali o conseguenti a decreti emanati ai sensi dell’articolo 34 del d.P.R. 30 maggio 1955, n. 797” (v., ex multis, SS. UU. 18 maggio 1994, n. 4837).
A prescindere dall’ipotesi normativa, funzionale al tema esclusivo degli assegni familiari, l’analisi del comma 19 del più volte citato art. 4 del d. l. 463-’83 induce a riconoscergli la natura di legge speciale, se non si voglia affermare la validità degli inquadramenti “già in atto”, mentre, a conclusione del processo normativo della classificazione dei datori di lavoro ai fini previdenziali, la l. 8 agosto 1995, n. 335; ha previsto (art. 3, comma 8) che: “I provvedimenti adottati d’ufficio dall’INPS, di variazione con il conseguente trasferimento nel settore economico corrispondente alla effettiva attività svolta producono effetti dal periodo di paga in corso alla data di notifica del provvedimento di variazione, con esclusione dei casi in cui l’inquadramento iniziale sia stato determinato da inesatte dichiarazioni del datore di lavoro.
In caso di variazione disposta a seguito di richiesta dell’azienda, gli effetti del provvedimento decorrono dal periodo di paga in corso alla data della richiesta stessa. Le variazioni d’inquadramento adottate con provvedimenti aventi efficacia generale riguardanti intere categorie di datori di lavora producono effetti, nel rispetto del principio della non retroattività, dalla data fissata dall’INPS.
Le disposizioni di cui al primo e secondo periodo del presente comma si applicano anche ai rapporti per i quali, alla data di entrata in vigore della presente legge, pendano controversie non definite con sentenza passata in giudicato.”.
Ai fini dell’esatta comprensione dell’efficacia non retroattiva di quest’ultima disposizione, peraltro rilevante, perché segna il discrimen fra il precedente e il nuovo regime d’inquadramento previdenziale dei datori di lavoro, posto che non incide sui provvedimenti estranei alla nuova classificazione, in quanto disposti secondo la disciplina anteriore, sono intervenute alcune sentenze di questa Corte (13 giugno ’96, n. 5419; 3 marzo ’98, n. 2319; 9 marzo ’97, n. 2017; 25 agosto ’99, n. 8873; 7 settembre 2000, n. 11809), che le hanno riconosciuto “efficacia sostanzialmente interpretativa e chiarificatrice dell’art. 49 della legge 9 marzo 1989, n. 88”, attribuendo “agli atti di classificazione adottati dall’INPS ai sensi dell’articolo citato”… “la natura di provvedimenti amministrativi in senso tecnico, costitutivi e non meramente ricognitivi degli effetti giuridici.” (ultima sentenza cit.).
Per concludere, il comportamento dell’Istituto nazionale della previdenza sociale, volto al recupero, a oltre dieci anni di distanza dalla più volte citata noma di sostegno, di somme del cui versamento la parte privata era stata in precedenza esonerata, non può trovare accoglimento, resistendo la sentenza impugnata alle censure di cui è stata fatta oggetto.
Sussistono, tuttavia, ragioni d’equità per compensare fra le parti le spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso: Compensa fra le parti le spese di questo giudizio di legittimità.
Autore:
Corte di Cassazione - Civile, Sez. Lav.
Dossier:
Scuola e Religione
Nazione:
Italia
Parole chiave:
Scuole confessionali, Inquadramento economico, Fiscalizzazione, Imprese commerciali, Congragazione religiosa, Scuole non statali, Pubblico servizio, Previdenza, Benefici fiscali, Attività commerciale, Assistenza, Scuola, Istituti religiosi
Natura:
Sentenza