Sentenza 16 ottobre 2003, n.C-32/02
Corte di Giustizia delle Comunità europee (Seconda Sezione). Sentenza 16 ottobre 2003, “Commissione delle Comunità europee contro Repubblica Italiana” (causa C-32/02)
Nella causa C-32/02,
Commissione delle Comunità europee (agente: signor A. Aresu)
contro
Repubblica italiana (agente: signor I. M. Braguglia, assistito dal signor M. Mari)
avente ad oggetto il ricorso diretto a far dichiarare che la Repubblica italiana, non adottando le disposizioni necessarie relative ai datori di lavoro che nell’ambito delle loro attività non perseguono fini di lucro, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza della direttiva del Consiglio 20 luglio 1998, 98/59/CE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi (GU L 225, pag. 16),
LA CORTE (Seconda Sezione),
composta dal sig. R. Schintgen, presidente di sezione, dal sig. V. Skouris e dalla sig.ra N. Colneric (relatore), giudici,
avvocato generale: sig. P. Léger
cancelliere: sig. R. Grass
vista la relazione del giudice relatore,
vista la decisione, adottata dopo aver sentito l’avvocato generale, di trattare la causa senza conclusioni,
ha pronunciato la seguente
Sentenza
1. Con atto introduttivo depositato nella cancelleria della Corte il 5 febbraio 2002, la Commissione delle Comunità europee ha presentato, ai sensi dell’art. 226 CE, un ricorso diretto a far dichiarare che la Repubblica italiana, non adottando le disposizioni necessarie relative ai datori di lavoro che nell’ambito delle loro attività non perseguono fini di lucro, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza della direttiva del Consiglio 20 luglio 1998, 98/59/CE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi (GU L 225, pag. 16).
Contesto normativo
Normativa comunitaria
2. La direttiva del Consiglio 17 febbraio 1975, 75/129/CEE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi (GU L 48, pag. 29), come modificata dalla direttiva del Consiglio 24 giugno 1992, 92/56/CEE (GU L 245, pag. 3), è stata codificata dalla direttiva 98/59. In tal sede non è stato stabilito alcun ulteriore termine per l’attuazione.
3. Ai sensi del secondo considerando della direttiva 98/59, «occorre rafforzare la tutela dei lavoratori in caso di licenziamenti collettivi, tenendo conto della necessità di uno sviluppo economico-sociale equilibrato nella Comunità».
4. L’art. 1, n. 1, della detta direttiva recita:
«Ai fini dell’applicazione della presente direttiva:
a) per licenziamento collettivo si intende ogni licenziamento effettuato da un datore di lavoro per uno o più motivi non inerenti alla persona del lavoratore se il numero dei licenziamenti effettuati è, a scelta degli Stati membri:
i) per un periodo di 30 giorni:
– almeno pari a 10 negli stabilimenti che occupano abitualmente più di 20 e meno di 100 lavoratori;
– almeno pari al 10% del numero dei lavoratori negli stabilimenti che occupano abitualmente almeno 100 e meno di 300 lavoratori;
– almeno pari a 30 negli stabilimenti che occupano abitualmente almeno 300 lavoratori;
ii) oppure, per un periodo di 90 giorni, almeno pari a 20, indipendentemente dal numero di lavoratori abitualmente occupati negli stabilimenti interessati;
(…)».
5. L’art. 1, n. 2, della direttiva 98/59 prevede quanto segue:
«La presente direttiva non si applica:
a) ai licenziamenti collettivi effettuati nel quadro di contratti di lavoro a tempo determinato o per un compito determinato, a meno che tali licenziamenti non avvengano prima della scadenza del termine o dell’espletamento del compito previsto nei suddetti contratti;
b) ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni o degli enti di diritto pubblico (o, negli Stati membri in cui tale nozione è sconosciuta, degli enti equivalenti);
c) agli equipaggi di navi marittime».
6. Il datore di lavoro che intende effettuare licenziamenti collettivi deve adempiere agli obblighi di informazione e di consultazione di cui all’art. 2 della direttiva 98/59, nonché rispettare la procedura prescritta agli artt. 3 e 4 della medesima, i quali prevedono l’intervento dell’autorità pubblica competente.
Normativa nazionale
7. Negli artt. 4, 15 bis e 24 della legge 23 luglio 1991, n. 223, recante norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro (GURI n. 175 del 27 luglio 1991, supplemento ordinario), modificata dal decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 151, recante attuazione della direttiva 92/56/CEE concernente il riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative ai licenziamenti collettivi (GURI n. 135 del 12 giugno 1997; in prosieguo: la «legge n. 223/91»), le «imprese» sono sempre presentate come quelle cui spetta l’obbligo di informazione e comunicazione in caso di licenziamenti collettivi nonché quello di osservare la speciale procedura di mobilità disciplinata da tale legge.
8. L’art. 2082 del codice civile (in prosieguo: il «codice civile italiano») dispone quanto segue:
«E’ imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi».
Procedimento precontenzioso
9. Considerato che la normativa italiana sopramenzionata è parzialmente incompatibile con quanto previsto dalla direttiva 98/59, la Commissione avviava il procedimento per inadempimento. Dopo aver intimato alla Repubblica italiana di presentare le proprie osservazioni, il 20 aprile 2001 la Commissione emetteva un parere motivato invitando tale Stato membro ad adottare le misure necessarie per conformarsi al parere stesso entro due mesi dalla sua notifica.
10. Non avendo ricevuto alcuna risposta da parte della Repubblica italiana, la Commissione proponeva il presente ricorso.
Procedimento dinanzi alla Corte
11. Poiché la Repubblica italiana non ha depositato il controricorso nel termine all’uopo previsto, la cancelleria della Corte ha chiesto alla Commissione se essa intendesse avvalersi del procedimento in contumacia, previsto dall’art. 94, n. 1, del regolamento di procedura.
12. Con lettera 28 giugno 2002 la Commissione ha comunicato alla Corte di rinunciare ad avvalersi di tale facoltà e di non opporsi a un deposito tardivo del controricorso da parte della Repubblica italiana.
13. L’8 luglio 2002 un siffatto controricorso è pervenuto alla Corte mediante fax.
14. Dopo aver chiesto lo svolgimento di un’udienza, la Repubblica italiana, con fax 29 aprile 2003, ha ritirato tale richiesta in quanto, nonostante il 3 febbraio 2003 fosse stata emanata una legge delega, non era ancora stato adottato il decreto legislativo per dare completa attuazione alla direttiva 98/59.
Sul ricorso
15. In via preliminare, occorre dichiarare che il controricorso della Repubblica italiana non può essere preso in considerazione. Infatti, esso non è stato inviato nel termine prescritto all’art. 40, n. 1, del regolamento di procedura, che non è stato prorogato dal presidente in applicazione del n. 2 di tale disposizione, non essendo stata presentata nessuna richiesta in tal senso da parte del detto Stato membro. Poiché il detto termine non è disponibile per le parti, l’accordo della Commissione circa un deposito tardivo non può essere preso in considerazione. Inoltre, il controricorso della Repubblica italiana non è conforme ai requisiti di forma derivanti dall’art. 37, nn. 1 e 6, del regolamento di procedura, poiché è stato inviato alla cancelleria solo mediante fax senza che l’originale fosse poi trasmesso entro e non oltre i dieci giorni successivi.
Argomentazione della Commissione
16. La Commissione fa valere che nel diritto commerciale italiano, secondo una giurisprudenza costante, la nozione di «imprenditore» di cui all’art. 2082 del codice civile italiano si riferisce essenzialmente a chiunque svolga professionalmente un’attività organizzata ai fini di produzione o di scambio di beni o di servizi, esercitata in modo esclusivo o a titolo principale e con un fine preciso tendente alla remunerazione dei fattori di produzione. Tale attività dovrebbe avere uno scopo di lucro, cioè generare un profitto come corrispettivo del rischio d’impresa.
17. La Commissione contesta alla Repubblica italiana di non avere correttamente recepito la direttiva 98/59 per quanto riguarda il suo ambito di applicazione ratione personae. Infatti, mentre questa riguarda i licenziamenti collettivi effettuati da un «datore di lavoro», le disposizioni della legge n. 223/91 farebbero esclusivo riferimento ai licenziamenti collettivi effettuati dalle imprese ovvero dai soggetti economici qualificabili come «imprenditori» ai sensi dell’art. 2082 del codice civile italiano.
18. La Commissione rileva che, secondo il diritto italiano, le persone, gli organismi o gli enti pubblici e privati che non perseguono uno scopo di lucro non possono essere inquadrati nella nozione di imprenditore né, pertanto, essere qualificati alla stregua di «imprese» ai fini dell’applicazione della legge n. 223/91, dal momento che la predetta nozione richiede specificamente la ricerca del profitto come corrispettivo del rischio d’impresa. Ne consegue che la normativa italiana di recepimento della direttiva 98/59 creerebbe una esenzione ope legis per tutti i datori di lavoro che nell’ambito della loro attività non perseguono uno scopo di lucro, pur occupando centinaia di persone o godendo di grande rilevanza economica. La Commissione cita, a titolo di esempio, le associazioni sindacali, le fondazioni, i partiti politici, le società di persone, le cooperative e le organizzazioni non governative.
19. La Commissione sostiene di aver ricevuto numerosi reclami che hanno portato alla sua attenzione casi concreti di mancata applicazione della normativa italiana sui licenziamenti collettivi ai lavoratori dipendenti da organismi senza finalità di lucro, come la Confederazione nazionale dei coltivatori diretti (Coldiretti) e la Confederazione nazionale delle imprese di commercio (Confcommercio). Si tratterebbe tuttavia di due sindacati che occupano centinaia di persone.
20. La Commissione ritiene che la direttiva 98/59, pur non contenendo alcuna definizione della nozione di datore di lavoro, trovi applicazione nei confronti di tutti i datori di lavoro, che perseguano o meno uno scopo di lucro.
21. A tale proposito essa richiama il punto 17 della sentenza 3 luglio 1986, causa 66/85, Lawrie-Blum (Racc. pag. 2121), secondo il quale la caratteristica essenziale del rapporto di lavoro è la circostanza che una persona fornisca, per un certo periodo di tempo, a favore di un’altra e sotto la direzione di quest’ultima, prestazioni in contropartita delle quali riceva una retribuzione.
22. Dato che l’art. 1, n. 2, della direttiva 98/59 prevede precise eccezioni per quanto riguarda il suo ambito di applicazione, gli Stati membri non potrebbero limitare quest’ultimo interpretando restrittivamente taluni termini utilizzati da tale disposizione, in particolare il termine «datore di lavoro». Un approccio del genere creerebbe una disparità di trattamento tra i lavoratori che non potrebbe essere giustificata dalla natura della loro attività, dal loro statuto o dalla loro situazione sociale.
23. La Commissione ritiene pertanto che la direttiva 98/59 si applichi ai licenziamenti collettivi effettuati da qualsivoglia datore di lavoro, ossia da qualunque persona fisica o giuridica che abbia posto in essere un rapporto di lavoro, anche senza perseguire uno scopo di lucro. La normativa italiana, in particolare la legge n. 223/91 che limita l’applicazione delle garanzie offerte ai lavoratori alle sole imprese escludendo indebitamente tutti i datori di lavoro che nell’ambito della loro attività non perseguono uno scopo di lucro, risulterebbe quindi incompatibile con la detta direttiva.
24. A conforto della sua tesi la Commissione cita la giurisprudenza della Corte relativa all’ambito di applicazione della direttiva del Consiglio 14 febbraio 1977, 77/187/CEE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti (GU L 61, pag. 26), modificata dalla direttiva del Consiglio 29 giugno 1998, 98/50/CE (GU L 201, pag. 88), e codificata dalla direttiva del Consiglio 12 marzo 2001, 2001/23/CE (GU L 82, pag. 16). Essa sostiene che la direttiva 77/187 fa costante riferimento alle nozioni di impresa e di imprenditore, che hanno una connotazione alquanto commerciale, ma precisa al suo art. 1, n. 1, lett. c), come modificato dalla direttiva 98/50, che essa «si applica alle imprese pubbliche o private che esercitano un’attività economica, che perseguano o meno uno scopo di lucro». Questa nuova disposizione risulterebbe dalle sentenze 19 maggio 1992, causa C-29/91, Redmond Stichting (Racc. pag. I-3189, punti 3 e 4), e 8 giugno 1994, causa C-382/92, Commissione/Regno Unito (Racc. pag. I-2435). La Commissione sottolinea che, in quest’ultima sentenza, la Corte ha dichiarato l’inadempimento del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord per aver escluso le imprese senza fini di lucro dall’ambito di applicazione del regolamento nazionale di recepimento della direttiva 77/187, statuendo al riguardo, al punto 45 della detta sentenza, che l’assenza di carattere lucrativo dell’attività esercitata da un’impresa non è idonea, di per sé, a privare detta attività del suo carattere economico né a far escludere l’impresa dall’ambito d’applicazione di tale direttiva.
25. Secondo la Commissione, se la direttiva 77/187, che si riferisce alle «imprese», si applica alle persone fisiche o giuridiche che agiscono senza fini di lucro, anche la direttiva 98/59, che individua i «datori di lavoro» come destinatari degli obblighi che da essa scaturiscono, deve a fortiori applicarsi alle persone fisiche o giuridiche che, nell’ambito delle loro attività, non perseguono uno scopo di lucro, pur essendo parti di un rapporto di lavoro ai sensi del diritto comunitario.
Giudizio della Corte
26. Il termine «datore di lavoro», ai sensi dell’art. 1, n. 1, lett. a), della direttiva 98/59, si riferisce anche ai datori di lavoro i quali, nell’ambito delle loro attività, non perseguono uno scopo di lucro. Infatti, come risulta dalla stessa formulazione dell’art. 1 della detta direttiva, tale disposizione si applica ai licenziamenti effettuati da un «datore di lavoro» senz’altra distinzione, cosicché essa riguarda tutti i datori di lavoro. L’interpretazione contraria non sarebbe neanche conforme alla ratio di tale direttiva, quale risulta dal suo secondo considerando.
27. La Commissione ha dimostrato che le disposizioni della normativa italiana di recepimento della detta direttiva non riguardano tale categoria di datori di lavoro.
28. Occorre pertanto dichiarare che la Repubblica italiana, non adottando le disposizioni necessarie relative ai datori di lavoro che nell’ambito delle loro attività non perseguono fini lucrativi, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza della direttiva 98/59.
Sulle spese
29. Ai sensi dell’art. 69, n. 2, del regolamento di procedura, la parte soccombente è condannata alle spese se ne è stata fatta domanda. Poiché la Commissione ne ha chiesto la condanna, la Repubblica italiana, rimasta soccombente, dev’essere condannata alle spese.
Per questi motivi,
LA CORTE (Seconda Sezione)
dichiara e statuisce:
1) La Repubblica italiana, non adottando le disposizioni necessarie relative ai datori di lavoro che nell’ambito delle loro attività non perseguono fini di lucro, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza della direttiva del Consiglio 20 luglio 1998, 98/59/CE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi.
2) La Repubblica italiana è condannata alle spese.
Schintgen
Skouris
Colneric
Così deciso e pronunciato a Lussemburgo il 16 ottobre 2003.
Il cancelliere, R. Grass
Il presidente, V. Skouris
Autore:
Corte di Giustizia delle Comunità Europee
Nazione:
Italia
Parole chiave:
Organizzazioni senza fine di lucro, nozione di datore di lavoro, inademipimento direttiva.
Natura:
Sentenza