Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 6 Luglio 2005

Sentenza 16 ottobre 2002, n.17096

Corte di Cassazione. Sezione lavoro. Sentenza 16 ottobre 2002, n. 17096: “Attività didattiche svolte dai religiosi nell’ambito della propria congregazione”.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

composta dai signori

1. Dottor Giuseppe Ianniruberto Presidente
2. Dottor Paolino Dell’Anno Consigliere
3. Dottor Fernando Lupi Consigliere
4. Dottor Federico Roselli Consigliere
5. Dottor Paolo Stile Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso, proposto da Sposito Annunziata Maria, domiciliata in Roma pressa la Cancelleria della Corte di cassazione, rappresentata e difesa dall’avvocato Guido Parlato giusta delega a margine del ricorso;

contro

l’Istituto Vittime Espiatrici di Gesù Sacramentato, in persona della sua legale rappresentante, domiciliato in Roma presso la Cancelleria della Corte di cassazione, rappresentato e difeso, giusta delega in calce al controricorso, dall’avvocato Pietro Silvestre;
per l’annullamento della sentenza del Tribunale di Napoli del 15 ottobre 1999, depositata il 7 dicembre 1999, numero 3974, r.g. 42713-97;
Udita la relazione svolta nell’udienza del 16 ottobre 2002 dal consigliere Paolino Dell’Anno;
Udito l’avvocato Guido Parlato;
Udito il Pubblico Ministero in persona del sostituto procuratore generale dottor Riccardo Fuzio, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

Fatto

Con ricorso del 20 settembre 1994, Sposito Annunziata Maria – premesso che nel periodo intercorso tra l’anno 1973 e l’anno 1993, essendo suora appartenente alla congregazione delle Vittime Espiatrici di Gesù Sacramentato, aveva prestato attività lavorativa, non retribuita, come insegnante elementare presso l’istituto scolastico Brando della congregazione stessa – convenne in giudizio, avanti il pretore di Napoli il citato istituto chiedendo che, previo l’accertamento della pregressa sussistenza di un lavoro subordinato, esso venisse condannato a versarle la somma di lire 147.830.405 a titolo di retribuzioni non corrispostele. Costituitosi il contraddittorio, il pretore rigettò la domanda con pronuncia del 7 febbraio 1997. Con la sentenza indicata in epigrafe, il tribunale di Napoli ha respinta l’appello proposto dalla Sposito. Il giudice di secondo grado ha ritenuto che erano inammissibili le richieste formulate con l’atto di appello di interrogatorio formale e di giuramento decisoria, e ciò in quanto la prima era tardiva per non essere stato articolato il mezzo di prova nel primo grado del giudizio e vertendo il secondo su circostanze di per sè non decisorie. Nel merito, il tribunale ha poi rilevato che la attività in questione era stata prestata dalla Sposito, così come dalle altre consorelle in possesso della abilitazione magistrale, nell’ambito della comunanza di vita religiosa e in adempimento di un dovere morale, ispirato dall’intento di evangelizzazione perseguito dalla congregazione della quale la stessa aveva fatto parte, mentre una diversa conclusione si sarebbe eventualmente potuta raggiungere per la ipotesi in cui la domanda fosse stata estesa anche alla richiesta di condanna con riferimento alle altre mansioni svolte dalla Sposito prive dello stesso connotato, quali pulizia delle aule scolastiche, dei corridoi e dei bagni della scuola.
Della decisione viene chiesta la cassazione dalla Sposito con ricorso affidato a tre motivi, al quale resiste l’istituto intimato con controricorso.

Diritto

Con il primo motivo – denunciando violazione dell’articolo 233 del codice di procedura civile, nonché omessa e insufficiente motivazione – la ricorrente deduce che il tribunale ha rigettato la richiesta di giuramento decisoria formulata nel giudizio di appello limitandosi a rilevare la presunta non decisorietà del mezzo di prova senza peraltro fornire le ragioni che in tale senso inducevano, omettendo, in particolare, di valutare la influenza che avrebbero potuto avere ai fini della decisione le circostanze che l’Istituto si era servito di insegnanti sia religiosi che laici e che essa ricorrente aveva prestato oltre che attività didattica anche altra di diverso genere all’interno del convento. La censura è infondata.
Deve, al proposito, ribadirsi il principio costantemente affermato da questa Corte (per tutte, Cass. 6 dicembre 2001, n. 15494; Cass. 22 febbraio 2001, n. 2601), che la formula del giuramento decisorio – attese le finalità di questo speciale mezzo di prova – deve essere tale che, a seguito della prestazione del giuramento stesso, altro non resti al giudice che verificare l’an iuratum sit, onde accogliere o respingere la domanda sul punto che ne ha formato oggetto, con la conseguenza che esso non si rende ammissibile qualora tenda all’acquisizione di elementi presuntivi, da valutarsi in concorso e in relazione con gli elementi istruttori già raccolti. E la valutazione (positiva o negativa) della decisorietà della formula del giuramento è rimessa all’apprezzamento del giudice del merito, il cui giudizio circa la sua idoneità a definire la lite è sindacabile in sede di legittimità con esclusivo riferimento alla sussistenza di vizi logici o giuridici attinenti all’apprezzamento dallo stesso espresso.
orbene, il tribunale ha in maniera congrua fornito la spiegazione del perché della non ammissibilità nella specie del giuramento decisorio vertendo lo stesso su circostanze prive del carattere della decisorietà, non potendo da esse, anche se confermate, conseguire l’accoglimento della domanda avente per oggetto non già la pregressa sussistenza, in punto di fatto, della duplice attività lavorativa di insegnamento e di altro genere svolta dalla Sposito, che non era affatto in contestazione, ma esclusivamente, e sul piano squisitamente giuridico, la riconducibilità della prima di esse nell’ambito di operatività dell’articolo 2094 del codice civile con conseguente suo assoggettamento alla disciplina in materia di corrispettività economica delle prestazioni dei lavoratori subordinati.
Con il secondo motivo, vengono denunciati la violazione dell’articolo 2034 del codice civile e vizi della motivazione. Si sostiene che il giudice di merito ha fondato il proprio convincimento – che la Sposito cioè avesse prestato la non contestata attività di insegnamento unicamente per adempiere alla obbligazione morale assunta in qualità di religiosa facente parte della Congregazione cui la scuola apparteneva – omettendo qualsiasi indagine tesa ad accertare se un tale dovere in effetti sussistesse e, nel caso affermativo, se il suo adempimento fosse stato reso con prestazione proporzionata e adeguata alle circostanze del caso. Si aggiunge che, sul punto la motivazione è inficiata da contraddittorietà, avendo il tribunale illogicamente affermato che la domanda sarebbe stata eventualmente accoglibile se oggetto di essa fosse stata la prestazione delle attività di pulizia dei locali della scuola, essendo queste prive di connotato evangelico, mentre erano proprio queste ultime quelle che semmai si potevano ritenere connesse al dovere morale e non le prime che andavano qualificate come proprie di un rapporto di lavoro subordinato, il cui mancato riconoscimento concretizza la violazione degli articoli 3 e 36 della Costituzione.
Con il terzo motivo – che, in quanto connesso al precedente, va esaminato congiuntamente a questo – la ricorrente lamenta che, in violazione degli articoli 2697 del codice civile e 244 del codice di procedura civile, il tribunale non ha tratto dalla circostanza della effettiva pregressa prestazione della attività lavorativa, correttamente ritenuta pacifica tra le parti e a conferma della quale non ha perciò ammesso la prova per testi richiesta in appello, l’unica conseguenza giuridicamente corretta del difetto di prova in ordine alla difesa opposta dalla controparte del rappresentare le prestazioni in questione l’adempimento di una obbligazione naturale.
I rilievi non sono condivisibili. La giurisprudenza di questa Corte, che il collegio condivide, è costante nel ritenere che l’attività didattica svolta dal religioso non alle dipendenze di terzi, ma nell’ambito della propria congregazione e quale componente di essa, secondo i voti pronuncia, non costituisce prestazione di attività lavorativa ai sensi dell’articolo 2094 del codice civile, soggetta, come tale, alla disciplina sulla prestazione di lavoro subordinato, bensì opera di evangelizzazione, religionis causa, in adempimento dei fini della congregazione stessa e regolata esclusivamente dal diritto canonico conformemente al disposto degli articoli 1 e 2 della legge 27 maggio 1929 numero 810 e 7 della Costituzione. Pertanto tale prestazione non legittima il religioso alla proposizione di domande dirette a ottenere emolumenti che trovano la loro causa in un rapporto di lavoro subordinato (tra le altre, Cass., 22 febbraio 1992, n. 2195; Cass., 18 novembre 1985, n. 5674). Indiretta conferma a questa conclusione è fornita dalla stessa Corte costituzionale, avendo la stessa, con la sentenza numero 108 del 1977, dichiarato l’illegittimità della legge 3 maggio 1956 numero 392 nella sola parte in cui escludeva l’obbligatorietà della tutela previdenziale per la attività prestata dal religioso alle dipendenze di terzi, ma ha espressamente escluso la possibilità di ricomprendere in tale categoria l’ordine o la congregazione di appartenenza, conformemente alla legge 5 luglio 1961 numera 579, che, nell’istituire il Fondo di invalidità e vecchiaia per il clero, non ha tuttavia fatto obbligo agli enti ecclesiastici di iscrivere i loro appartenenti alla assicurazione generale obbligatoria per l’attività svolta dai religiosi all’interna di essi.
Non si ravvisano i denunciati sospetti di incostituzionalità di una tale conclusione, essendo sufficiente a fugare ogni dubbio la semplice considerazione che, da un lato, è lo stesso soggetto che, per sua libera scelta, accetta, e anzi richiede attraverso i voti prestati incondizionatamente di obbedienza, di povertà e di diffusione della fede, di svolgere la attività lavorativa senza un corrispettivo economico, e, dall’altro, che, ribadendo quanto già osservato con le sentenze sopra citate, se la normale onerosità del rapporto di lavoro non consente di presumerne la gratuità, ciò peraltro non vale con riferimento alle convivenze familiari – tra le quali ben possono farsi rientrare, per la loro particolare natura, anche le comunità religiose – in quanto, in tale ambito, le prestazioni lavorative debbono presumersi svolte sotto l’unico stimolo di principi morali e impulsi affettivi senza la tipica subordinazione e senza prospettive di retribuzione.
Del ricorso si impone pertanto il rigetto. Concorrono giusti motivi per compensare tra le parti le spese del giudizio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; compensa tra le parti le spese del giudizio.