Sentenza 16 marzo 2010, n.10400
Corte di Cassazione. Sezione I Penale. Sentenza 16 marzo 2010, n. 10400: "Sucitare sentimenti caritatevoli con petulanza integra il reato di molestie".
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CHIEFFI Severo – Presidente
Dott. SIOTTO Maria Cristin – Consigliere
Dott. ZAMPETTI Umberto – rel. Consigliere
Dott. BRICCHETTI Renato – Consigliere
Dott. PIRACCINI Paola – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
1) DE. GR. PA. N. IL (OMESSO);
2) QU. MA. N. IL (OMESSO);
3) DE. GR. CO. N. IL (OMESSO);
avverso la sentenza n. 59/2005 TRIB.SEZ.DIST. di SORRENTO, del 20/06/2008;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 18/02/2010 la relazione fatta dal Consigliere Dott. ZAMPETTI Umberto;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. D'AMBROSIO Vito che ha concluso per l'inammissibilita' del ricorso;
udito, per la parte civile, avv. PAPA M. che ha disposto conclusioni e note.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Con sentenza in data 20.06.2008 il Tribunale di Torre Annunziata in composizione monocratica, Sezione distaccata di Sorrento, dichiarava i coniugi De. Gr. Pa. e Qu. Ma. e la figlia dei predetti De. Gr. Co. colpevoli dei reati di molestia loro ascritti e, in concorso per tutti di circostanze attenuanti generiche, condannava i primi due imputati alla pena di euro 600,00 di ammenda ciascuno e la terza a quella di euro 300,00, nonche' i soli De. Gr. Pa. e Qu. Ma. al risarcimento generico dei danni, da liquidarsi in separata sede, piu' spese di lite, in favore della costituita parte civile (la costituzione era stata revocata nei confronti della terza imputata). Con la stessa sentenza i predetti imputati erano assolti dall'addebito loro ascritto di diffamazione aggravata.
La vicenda ha un antefatto che e' costituito dallo sfratto che la rettoria di (OMESSO), ebbe a conseguire contro i predetti coniugi dal campetto da calcio che i due gestivano da tempo, che costituiva la loro fonte di reddito e per il quale avevano anche effettuato costose migliorie. Insoddisfatti dell'esito della vicenda, preoccupati per la loro sorte, gli imputati avevano allora cominciato una lunga condotta, protrattasi per gli anni 2003-2004, di sostanziale contestazione verso il Vescovo di (OMESSO), Mons. Ce.Fe. , con reiterate apposizioni di analoghi cartelli sulla cancellata della Curia e con ripetute richieste di colloqui con l'evidente intenzione di avere una qualche maggiore soddisfazione delle loro richieste (in sostanza, un indennizzo). Rilevava dunque l'anzidetto Tribunale come i fatti, nella loro materialita', fossero certi, sia per le numerose concordi acquisizioni testimoniali, sia per le stesse ammissioni in fatto degli imputati stessi. Era evidente, quindi, che gli imputati non avevano intenzione di offendere il Vescovo (e di qui l'assoluzione al reato di diffamazione) essendo la loro evidente prospettiva psicologica solo quella di far lievitare "l'aspetto caritatevole proprio della funzione degli ecclesiastici". Cio' posto, sussisteva peraltro il reato di molestia per la reiterazione di condotte (oltre all'affissione dei cartelli, le continue richieste di essere ricevuti, il suonare ripetuto del campanello, il portarsi nelle varie chiese ove il prelato officiava il suo ministero) che avevano oggettivamente recato disturbo al Vescovo Ce. ed agli addetti al suo ufficio.
2. Avverso tale sentenza proponevano appello, convertito in ricorso per cassazione, tutti gli anzidetti imputati che motivavano il gravame deducendo: a) illogicita' della motivazione in ordine all'elemento psicologico del reato, essendo loro intenzione cercare di impietosire il Vescovo e di suscitare in lui sentimenti caritatevoli, non di molestarlo; b) i fatti non erano caratterizzati dal necessario dolo specifico – petulanza o biasimevole motivo- ma dall'anzidetta ricerca di un aiuto; c) errata condanna per De. Gr. Co. , che aveva una sola volta accompagnato la madre senza alcuna intenzionalita' offensiva; d) intervenuta estinzione dei reati contestati per prescrizione.
In data 09.12.2009 la costituita parte civile depositava memoria con la quale rilevava l'inammissibilita' dell'impugnazione come ricorso, posto che l'atto era stato sottoscritto da difensore non iscritto all'albo speciale di cui all'articolo 613 c.p.p., e comunque la totale infondatezza delle richieste, ed infine la non maturata prescrizione, alla data della sentenza, per le sospensioni del processo. Analoga memoria la parte civile ribadiva con nota depositata il 29.01.2010.
MOTIVI DELLA DECISIONE
3. L'impugnazione, qualificata ricorso in forza del disposto di cui all'articolo 568 c.p.p., comma 5, in riferimento all'articolo 593 c.p.p., comma 3, manifestamente infondata, deve essere dichiarata inammissibile con ogni dovuta conseguenza di legge.
Va dapprima, peraltro, ritenuta valida la proposizione dell'impugnazione come ricorso, pur se sottoscritta da difensore non iscritto all'albo speciale di cui all'articolo 613 c.p.p., recando l'atto in calce la sottoscrizione dei tre imputati che, con cio', hanno in sostanza fatto proprio l'atto stesso ed i suoi motivi. Trattasi di principio gia' affermato da questa Corte (cfr. Cass. Pen. Sez. 3, n. 12392 in data 16.10.1998, Rv. 211800, Sturaro) e poi ribadito dalla stessa nella sua massima espressione nomofilattica (cfr. Cass. Pen. SS.UU. n. 47803 in data 27.11.2008, Rv. 241355, D'Avino, la cui massima recita: "Deve intendersi proposto personalmente dall'imputato il ricorso che, pur formalmente sottoscritto da difensore non iscritto nell'albo speciale della Corte di cassazione, rechi tuttavi'a in calce l'atto di nomina del difensore sottoscritto dall'imputato, in quanto tale atto ha un implicito ma evidente valore di condivisione della dichiarazione e dei motivi del ricorso che quindi devono giuridicamente ritenersi fatti propri all'imputato il quale se ne assume la paternita'").
Il ricorso, nel merito, e' pero' del tutto infondato. Esso, inevitabilmente, negativamente risente -nel suo contenuto- dell'originaria errata impostazione come appello, cosi' invocando riforma nel merito piuttosto che denunciare vizi rilevanti in sede di legittimita'. -Le deduzioni svolte nei primi due motivi dell'impugnazione -che in ragione della loro natura possono essere esaminati congiuntamente- intesi a denunciare l'insussistenza dell'elemento psicologico voluto dalla norma incriminatrice, sono comunque palesemente infondati. Tali motivi, come proposti, confondono invero il movente personale che ha originato la condotta (stimolare i sentimenti caritatevoli del presule, al di la' della formale applicazione del diritto) con la caratteristica tipica dell'azione (petulanza) che risulta in se' voluta nel momento stesso che la si attui in quelle forme. Trattasi invero di contravvenzione per la quale, secondo tradizionale insegnamento, l'elemento psicologico risulta integrato dalla "direzione della volonta' verso il fine specifico di interferire inopportunamente nell'altrui sfera di liberta'" (cosi' Cass. Pen. Sez. 1, n. 19071 in data 30.03.2004, Rv. 228217, Gravina). La personale, piu' intima, motivazione all'attuata condotta si aggiunge dunque (non sostituendola) alla specifica finalita' petulante. La finalita' specifica richiesta dalla norma, invero, gli imputati hanno -comunque- fatta propria nel momento in cui la loro condotta, ove tale ulteriore intenzione personale non avesse assunto le caratteristiche della petulanza (per ripetitivita' e fastidiosita'), non avrebbe raggiunto lo scopo di imporre all'attenzione pubblica (non solo del Vescovo) il loro punto di vista sulla vicenda. La petulanza, in definitiva, si trasferisce inevitabilmente sulle caratteristiche dell'oggettiva condotta, ma proprio per cio' deve essere anche voluta come tale, con direzione specifica dell'elemento psicologico, degradando a non rilevante movente personale le eventuali ulteriori spinte all'azione.
Del tutto infondata risulta anche la deduzione proposta in ordine alla posizione dell'imputata De. Gr. Co. (che ha partecipato ad un solo episodio) posto che il reato, secondo consolidata giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. Pen. Sez. 1, n. 23521 in data 22.04.2004, Rv. 228127, Alessandri; Cass. Pen. Sez. 1, n. 17787 in data 09.04.2008, Rv. 239848, P.G./Tamburini; ecc.) e' configurato anche da una condotta singola, ed atteso che, nella concreta fattispecie, la pur unica condotta della predetta imputata si inseriva, in evidente consapevole continuita', nella ben piu' ripetuta attivita' dei coimputati genitori.
L'impugnazione deve dunque essere dichiarata inammissibile.
La declaratoria di inammissibilita', precludendo l'instaurazione di un valido rapporto processuale nella presente sede, impedisce anche la rilevanza della prescrizione (anni 4 e mesi 6 dai fatti, piu' sospensioni) intervenuta successivamente alla sentenza impugnata, in ossequio alla consolidata giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. Pen. SS.UU. n. 33542 in data 27.06.2001, Rv. 219531, Cavalera).
Il presente esito processuale, con la sostanziale reiezione delle richieste assolutorie, consolida la condanna risarcitoria come decisa in prime cure (sulla quale, peraltro, nessuno specifico motivo d'impugnazione e' stato proposto). Cio' comporta che gli imputati De. Gr. Pa. e Qu. Ma. , contro i quali soli si e' costituita la parte civile (che, invero, ebbe a revocare la gia' proposta costituzione contro De. Gr. Co. ) debbano essere condannati, tra loro in solido, alla rifusione delle spese sostenute dalla stessa P.C. nel presente grado di giudizio, spese che -avuto riguardo all'impegno richiesto dal processo ed a mente delle vigenti tariffe forensi- si stima equo determinare nella complessiva somma di euro 1,600,00 (milleseicento) omnicomprensive, oltre accessori di legge.
Alla declaratoria di inammissibilita' deve seguire ex lege, in forza del disposto dell'articolo 616 c.p.p., la condanna dei tre imputati ricorrenti al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma -tale ritenuta congrua- di euro 500,00 (cinquecento) ciascuno in favore della cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna i ricorrenti De. Gr. Pa. , Qu. Ma. e De. Gr. Co. al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di euro 500,00 (cinquecento) ciascuno in favore della cassa delle ammende, nonche' in solido alla rifusione delle spese sostenute nel presente giudizio dalla costituita parte civile che liquida nella somma complessiva di euro 1.600,00 (milleseicento) oltre spese generali, IVA e CPA come per legge.
Autore:
Corte di Cassazione - Penale
Dossier:
Italia
Nazione:
Italia
Parole chiave:
Ministri di culto, Dolo, Molestie, Vescovo, Elemento soggettivo del reato, Petulanza
Natura:
Sentenza