Sentenza 16 marzo 1999, n.2315
Cassazione. Prima Sezione Civile. Sent. del 16 marzo 1999, n. 2315
(Rocchi A. ;Graziadei G.)
MOTIVI DELLA DECISIONE
I ricorsi devono essere riuniti, ai sensi dell’art. 335 cod. proc. civ..
Con i primi tre motivi di entrambi i ricorsi s’insiste nell’affermare che il consenso prestato dal marito, in condizione di impotentia generandi, per la “filiazione biochimica da datore sconosciuto”, non è revocabile, quantomeno a seguito del concepimento della moglie, e costituisce ostacolo al disconoscimento.
A sostegno di tale assunto si torna a considerare che l’art. 235 cod. civ., dettato per tutelare il marito a fronte di nascita ascrivibile alla relazione sessuale della moglie con un terzo, non può trovare applicazione nell’inseminazione artificiale, voluta e realizzata di comune accordo, trattandosi di una scelta non vietata, consentita dall’evoluzione della scienza accettabile anche moralmente, ed idonea alla costituzione di un cosciente rapporto di “filiazione civile”, cui deve conferirsi cittadinanza e dignità pari a quello di filiazione naturale.
L ‘inapplicabilità della citata norma, ad avviso dei ricorrenti, esige il riferimento in via analogica alle regole dell’adozione, le quali non ammettono che i coniugi istanti, dopo il provvedimento giudiziale che disponga l’adozione medesima, rivedano o mutino il proposito in precedenza espresso.
La diversa soluzione seguita dalla Corte di Brescia non sottrarrebbe l’art. 235 cod. civ. a sospetti d’illegittimità costituzionale, per l’arbitraria disparità di trattamento che si verificherebbe fra il figlio adulterino ed il figlio artificialmente concepito, con la condanna esclusivamente del secondo all’impossibilità di accertare il padre naturale (dopo la perdita del padre “presunto”), nonché fra i due coniugi, dato che soltanto la moglie rimarrebbe irretrattabilmente vincolata agli effetti di quanto in precedenza concordato con il marito, non potendo dismettere il proprio ruolo di madre.
Il quarto motivo, di natura subordinata, è inerente ai riflessi economici del disconoscimento, ove consentito.
La tesi sviluppata in via principale dalla Pizzetti e dal Curatore è fondata, sulla scorta e nei limiti delle osservazioni appresso svolte.
La Corte costituzionale, con la citata sentenza n. 347 del 26 settembre 1998, ha dichiarato inammissibile, perché irrilevante, la questione sollevata dal Tribunale di Napoli, affermando che la norma denunciata, in quanto “riguarda esclusivamente la generazione che segua ad un rapporto adulterino”, non disciplina quella sostanzialmente diversa del figlio nato da fecondazione assistita.
Tale enunciato è da condividersi, nel senso di negare che la normativa del disconoscimento di paternità ex art. 235 cod. civ. sia direttamente riferibile al caso d’inseminazione artificiale oggetto della controversia.
Detto art. 235, nel testo iniziale, è stato approvato in un’epoca in cui il fatto procreativo esigeva indefettibilmente il rapporto carnale fra uomo e donna, e, quindi, se si verificava nel corso del vincolo coniugale, ma senza la partecipazione del marito, era necessariamente imputabile all’adulterio della moglie, con violazione del dovere di fedeltà.
L’elencazione, in quell’originario testo, dei tassativi casi di attribuzione al marito dell’azione di disconoscimento si appalesa del tutto in linea con la situazione del tempo della formulazione della norma codicistica, sia quando si contemplano ipotesi di consistente sospetto di concepimento del figlio per comportamenti infedeli della moglie (con l’ammissione del marito ad ampia dimostrazione negativa della paternità), quali l’adulterio e l’occultamento della gravidanza e della nascita, sia quando si contemplano ipotesi di presuntiva riferibilità del concepimento medesimo a relazione extraconiugale, quali il difetto di coabitazione e la impotentia generandi o coeundi del marito.
Alla data della rifonda del diritto di famiglia, di cui alla legge 19 maggio 1975 n. 151, era già stata “scoperta” ed era in atto la fecondazione dell’ovulo della donna in forma assistita, senza rapporto sessuale, con intervento chirurgico costituito dall’introduzione di seme maschile, nella duplice forma dell’inseminazione omologa od eterologa, a seconda che ci si avvalga dello sperma del marito o di un terzo donatore.
Nonostante la diffusione nuova pratica, prevalentemente utilizzata al fine di assicurare un figlio alla coppia sterile per impotenza del marito, nonostante il vivace dibattito insorto sulla liceità di essa (anche sotto l’aspetto morale), e le sollecitazioni emerse nel corso dei lavori parlamentari (fra l’altro, con la proposta governativa di negare il disconoscimento della paternità al marito consenziente), l’art. 93 della legge del 1975, nel riscrivere l’art. 235 cod. civ., non è andato oltre una revisione terminologica ed un’opportuna unificazione delle ipotesi in cui sia mancata la coabitazione dei coniugi, mentre ha nella sostanza mantenuto ferma detta elencazione tassativa, continuando in particolare ad autorizzare il disconoscimento per impotenza del marito in entrambe le manifestazioni dell’impotenza stessa dinanzi ricordate.
In questa riformulazione “conservativa” non può essere colto l’intento del legislatore di non occuparsi esplicitamente della fecondazione artificiale (così evitando di prendere posizione sul dibattito in corso) nel presupposto dell’applicabilità ad essa de plano delle disposizioni sul disconoscimento della paternità.
A tale risultato ermeneutico è d’impedimento la circostanza che l’inseminazione artificiale non è adulterio della moglie, esprimendo anzi un progetto di maternità basato proprio sul rifiuto di ricorrere all’infedeltà coniugale per procreare; può trovare movente nell’incapacità del marito, ma non necessariamente si correla alla stessa, essendo riferibile anche a ragioni diverse, quali l’età o le condizioni di salute del marito medesimo, con i connessi rischi di trasmissioni genetiche sfavorevoli.
Peraltro, la tesi dell’implicita inclusione della fecondazione assistita nel caso dell’impotenza del marito è contrastata dal rilievo che la norma a quest’ultima inerente, cioè il n. 2 del primo comma dell’art. 235 cod. civ., comprende anche la sola impotenza al coito; la tesi medesima, in carenza di una disciplina che differenzi le due ipotesi d’inseminazione, approderebbe all’aberrante risultato, sicuramente non in linea con lo spirito della riforma del 1975, di permettere il disconoscimento pure del figlio nato con il seme del marito affetto da detto tipo d’impotenza (inseminazione omologa), e quindi di negare la condizione di figlio legittimo proprio a chi sia per scientifica certezza fiotto della coppia.
Acclaratosi che l’inseminazione, globalmente intesa, non rientra in via immediata e diretta nelle previsioni dell’art. 235 nuovo testo cod. civ., e così esclusosi che il silenzio della riforma del 1975 sia fondato sulla sottintesa premessa dell’attitudine di quelle previsioni a · disciplinare in modo completo il sopravvenuto ritrovato della medicina, resta da vedere se la fecondazione assistita di tipo eterologo, che usufruisce del seme altrui e che è caratterizzata da censura (con pari rigore scientifico) della non imputabilità del concepimento al marito, possa ricadere, ove effettuata (come pacificamente nella specie) con il preventivo, libero e valido consenso del marito, nell’ambito del disconoscimento per impotenza, sulla scorta di un’interpretazione estensiva o di un’applicazione analogica di detto n. 2 del primo comma dell’art. 235 cod civ. oltre i casi espressamente regolati.
Tale interpretazione od applicazione, come puntualmente avvertito dalla Corte Costituzionale con la menzionata sentenza del 1998, postula per non tradursi in un’arbitraria supplenza in compiti riservati al legislatore, la “omogeneità di elementi essenziali e la identità di ratio”.
Detti presupposti, salvo il quesito della loro eventuale individuabilità rispetto all’inseminazione eterologa che la moglie abbia praticato all’insaputa del marito, o contro la sua volontà, o con un suo consenso invalido (problematica estranea al tema della causa), non sono ravvisabili quando l’inseminazione stessa sia stata concordata dai coniugi con decisioni convergenti e consapevoli.
A questa affermazione inducono la natura dell’azione di disconoscimento, la consistenza degli interessi alla cui protezione essa è rivolta, i precetti degli artt. 2, 30 e 31 della Costituzione, ed i canoni generali dell’ordinamento sul dovere di lealtà nei rapporti intersoggettivi.
Sotto il primo di detti profili, va osservato che la domanda di disconoscimento, indirizzata a privare il figlio concepito durante i1 matrimonio della presuntiva condizione di frutto legittimo di entrambi i coniugi, per il tramite della dimostrazione di specifici fatti idonei ad evidenziarne la non rispondenza a realtà, integra azione di accertamento di tipo costitutivo, in quanto configura esercizio del diritto potestativo di ottenere dal giudice una pronuncia che modifichi la situazione giuridica in atto, rimuovendo con effetti retroattivi uno status che sussiste e persiste fino a che la domanda stessa non sia proposta ed accolta.
L’azione di accertamento costitutivo, in assenza di una diversa (ed eccezionale) previsione, non può spettare proprio al soggetto che abbia posto in essere o concorso a porre in essere, con atti o comportamenti non vietati dalla legge, la situazione giuridica per la cui modificazione è apprestata.
Il principio è espressione del criterio generale secondo cui l’azione è strumento di tutela di posizioni soggettive (art. 24 della Costituzione), cioè mezzo per reagire contro un’aggressione in corso o potenziale da altri commessa o minacciata; l’azione medesima, ove fosse attribuita per rimuovere o modificare giudizialmente un rapporto, al soggetto che lo ha liberamente determinato, si tradurrebbe in un’iniziativa contro lo stesso titolare, non conosciuta dall’ordinamento, e comunque estranea al diritto di difesa, quando non venga in discussione la validità dell’atto volitivo.
La regola trova numerose esplicitazioni nel campo dei rapporti patrimoniali (basta ricordare le disposizioni degli artt. 1441, 1447 e 1453 cod. civ. in tema di annullamento, rescissione o risoluzione del contratto), ma deve considerarsi immanente anche nel settore dei diritti personali ed indisponibili, potendosi chiedere al giudice l’accertamento dell’esistenza dei diritti stessi e la rimozione degli effetti di atti di disposizione viziati, non il mutamento dell’assetto in precedenza provocato con atti o comportamenti permessi dall’ordinamento.
L’indisponibilità dei diritti inerenti alla persona, in altre parole, rende insensibili le azioni previste a loro tutela a fronte di scelte abdicative non consentite, non di scelte legittime, di contenuto tale da elidere i presupposti e le basi logiche dell’insorgenza delle azioni stesse.
In relazione al secondo profilo, quello riguardante gli interessi protetti, va rilevato che l’azione di disconoscimento della paternità compete al marito, alla madre ed al figlio, cioè ai tre protagonisti della vicenda procreativa ricadente nella presunzione di legittimità ancorata al dato temporale del concepimento durante il matrimonio; non spetta a terzi, e nemmeno al pubblico ministero.
Tale ristretto ambito di titolarità dell’azione, coordinato con la tassatività dei casi in cui è esercitabile e con i brevi termini di decadenza all’uopo stabiliti (art. 244 cod. civ.), indica che la preferenza e prevalenza della realtà sulla presunzione non sono incondizionate, non rispondono ad un’esigenza pubblicistica, ma mirano a difendere esclusivamente le posizioni di quei soggetti, ai quali soltanto è demandata la valutazione comparativa delle due situazioni in conflitto e la decisione di optare per l’una o l’altra, facendo emergere la verità, ovvero mantenendo la fictio iuris della paternità presunta.
Il marito, concordando ed attuando con la moglie la fecondazione eterologa, effettua e consuma detta valutazione e detta opzione.
Un successivo ripensamento, a prescindere da apprezzamenti di ordine etico, difetta della ratio su cui si fonda l’azione di disconoscimento, purché rinnega una scelta già espressa con l’assunzione di una paternità presunta nonostante la piena contezza della sua non rispondenza alla paternità biologica.
Detto ripensamento, del resto, ove ammissibile, sfuggirebbe a limitazioni, e dunque tradirebbe le finalità per le quali il disconoscimento è contemplato, perché assegnerebbe al marito un quid pluris rispetto all’alternativa sopra evidenziata, vale a dire l’anomala licenza di rivedere la propria anteriore decisione, anche se siano rimasti fermi tutti i dati a suo tempo noti ed apprezzati, ovvero siano sopravvenute circostanze non certo meritevoli di tutela in pregiudizio del bambino già nato (quali il dissidio con il coniuge, il superamento dell’impotenza, o l’insoddisfazione per il frutto dell ‘inseminazione).
Se il parametro della predominanza del favor veritatis dovesse avere forza tale da permettere al marito un contegno “ondivago”, con l’esercizio dell’azione di disconoscimento anche dopo una meditata (e probabilmente sofferta) decisione di aderire all’intento della moglie di praticare la fecondazione assistita, si dovrebbe pervenire, in via generale, ad ammettere la rivedibilità di ogni scelta, solo perché divergente dalla realtà, consentendo ad esempio pure la possibilità del marito, vittorioso nel giudizio di disconoscimento, di rivendicare successivamente la qualità di padre del minore in precedenza disconosciuto, deducendo e dimostrando fatti contrari a quelli anteriormente allegati; l’illogicità di tale risultato conferma che l’azione di disconoscimento non può competere solo perché vi sia una verità difforme dalla presunzione legale, richiedendosi la concorrente presenza delle specifiche circostanze fattuali delineate dall’art. 235 cod. civ. e delle esigenze e finalità in funzione delle quali le circostanze stesse si appalesano giustificative della rimozione dello status determinato da quella presunzione.
Il ‘`bene-verità”, quindi, in tema di disconoscimento, ha una priorità non assoluta, ma relativa, in quanto può prevalere per effetto di una valutazione preferenziale effettuata dagli interessati, dovendo invece definitivamente cedere il passo al “bene-presunzione” dopo un’opzione di segno opposto (situazione del resto contemplata nella “vicina” materia del riconoscimento del figlio naturale ai sensi dell’art. 250 cod. civ.).
Le citate disposizioni costituzionali eliminano poi, in senso negativo, ogni residuo dubbio sulla possibilità di estendere od applicare in via analogica l’art. 235 cod. civ. alla fattispecie in esame.
Tali disposizioni, attinenti alla protezione dei diritti inviolabili della persona, ed in particolare del minore, nella società e nel nucleo familiare in cui si trovi collocato per scelta altrui, sono le linee guida che devono orientare, come considerato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 347 del 1998, non solo il legislatore ordinario, ove colmi la lacuna attualmente esistente nell’ordinamento in materia di fecondazione assistita, ma anche l’interprete, in sede di “ricerca nel complessivo sistema normativo dell’esegesi idonea ad assicurare il rispetto della dignità della persona umana”.
L’attribuzione dell’azione di disconoscimento al marito, anche quando abbia a suo tempo prestato assenso alla fecondazione artificiale della moglie con seme altrui, priverebbe il bambino, nato anche per effetto di tale assenso, di una delle due figure genitoriali, e del connesso apporto affettivo ed assistenziale, trasformandolo per atto del giudice in “figlio di nessun padre”, stante l’insuperabile impossibilità di ricercare ed accertare la reale paternità a fronte del programmato impiego di seme di provenienza ignota.
La nascita di tale figlio senza padre può essere subita dall’ordinamento, ove discenda da vicende di vita non controllabili e non più emendabili.
La norma che permettesse detta condizione, per mezzo di una statuizione giudiziale resa proprio su istanza del soggetto che abbia determinato o concorso a determinare la nascita con il personale impegno di svolgere il ruolo di padre, eluderebbe i menzionati cardini dell’assetto costituzionale ed il principio di solidarietà cui gli stessi rispondono.
Il frutto dell’inseminazione, infatti, verrebbe a perdere il diritto di essere assistito, mantenuto e curato, da parte di chi si sia liberamente e coscientemente obbligato ad accoglierlo quale padre “di diritto”, in ossequio ad un parametro di prevalenza del favor veritatis, che è privo, come si è detto, di valore assoluto, e non può comunque compromettere posizioni dotate di tutela prioritaria.
Il sacrificio del favor veritatis, a fronte di libere determinazioni dell’adulto che incidano sullo status del minore, è del resto regola portante dell’adozione legittimante, ove la decisione degli adottanti di acquisire una veste genitoriale “legale”, non coincidente con la maternità e la paternità effettive, è irrevocabile; la diversità del relativo istituto, esattamente sottolineata dalla Corte di Brescia, non preclude di cogliere nella disciplina dell’adozione la conferma della presenza nell’ordinamento di un canone d’irreversibilità degli effetti degli atti determinativi dello status della persona rispetto allo stesso soggetto che li abbia compiuti (con volontà non affetta da vizi).
Infine, va considerato che buona fede, correttezza e lealtà nei rapporti giuridici rispondono a doveri generali, non circoscritti agli atti o contratti per i quali sono richiamate da specifiche disposizioni di legge, questi doveri, nella particolare materia dei rapporti di famiglia, assumono il significato della solidarietà e del reciproco affidamento.
L’ammissione del disconoscimento della paternità, rispetto al frutto dell’inseminazione artificiale eterologa voluta da entrambi i coniugi entrerebbe in evidente conflitto con quei doveri, e comunque porterebbe a ravvisare nell’art. 235 cod. civ. una plateale deroga, perché, come si è rilevato, determinerebbe l’esperibilità della relativa azione indipendentemente dalla ragione del ripensamento, e quindi anche per motivi pretestuosi e non degni di tutela.
Conclusivamente, si deve affermare che il marito, dopo aver validamente concordato o comunque manifestato il sproprio preventivo consenso alla fecondazione assistita della moglie con seme di donatore ignoto, non ha azione per il disconoscimento della paternità del bambino concepito e partorito in esito a tale inseminazione.
Il principio impone, con l’accoglimento dei ricorsi nella tesi con essi sviluppata in via principale, e con l’assorbimento delle deduzioni subordinate attinenti alla protezione economica del minore (ove disconoscibile come figlio), l’annullamento della pronuncia impugnata, ed anche una conforme statuizione nel merito, ai sensi dell’art. 384 primo comma (nuovo testo) cod. proc. civ., non occorrendo indagini su fatti ulteriori rispetto a quelli accertati nelle precorse fasi processuali.
La natura, la novità e la complessità della problematica affrontata rendono equa la totale compensazione fra le parti delle spese dell’intero giudizio.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte riunisce i ricorsi proposti da Laura Pizzetti e dall’avv. Giovanni Benedini in qualità di curatore speciale del minore Mattia Anselmi; li accoglie, per quanto di ragione; cassa la sentenza impugnata, e, pronunciando nel merito, respinge la domanda di disconoscimento avanzata da Luciano Anselmi; compensa le spese dell’intero giudizio.
Autore:
Corte di Cassazione - Civile
Nazione:
Italia
Parole chiave:
Esclusione, Inseminazione assistita eterologa, Consenso del marito, Azione di disconoscimento della paternità, Adozione
Natura:
Sentenza